TITOLO ORIGINALE: Hillbilly Elegy
USCITA ITALIA: 24 novembre 2020
USCITA USA: 24 novembre 2020
REGIA: Ron Howard
SCENEGGIATURA: Vanessa Taylor
GENERE: drammatico, biografico
PIATTAFORMA: Netflix
In seguito ad una chiamata urgente da parte della sorella maggiore, l'ex-marine, ora studente di legge a Yale, torna a casa dalla famiglia, dando inizio ad un viaggio indietro nel tempo alla riscoperta della famiglia e dei suoi valori. Un Ron Howard ancora fermo al 2001 è il regista di un prodotto originale Netflix, basato sull'omonimo romanzo di J. D. Vance, che già cinque, dieci anni fa sarebbe stato fuori tempo massimo. Una sceneggiatura prevedibile, stucchevole e superficiale è il fondamento di un'impalcatura filmica che tenta di commuovere e impietosire a tutti i costi e in maniera ingannevole. Completano il mosaico una tecnica passabile, ma non eccezionale, e due interpretazioni principali ottime, ma sminuite da un taglio produttivo enfatico e semplicistico.
Se la parola prevedibile fosse una persona, assumerebbe le fattezze di Ron Howard. Se fosse un film, vestirebbe invece i fotogrammi di Elegia americana, prodotto originale Netflix basato sull’autobiografia omonima di J. D. Vance. Ancora non riusciamo a capacitarci del recente tracollo artistico e creativo sperimentato dal fu Richie Cunningham di Happy Days, divenuto, con gli anni, regista di cult amati e imprescindibili come il premio Oscar A Beautiful Mind (2001) e Rush (2013) - a nostro avviso, uno dei migliori film di corse di tutti i tempi. Elegia americana è solo l'ultimo arrivato di una serie - iniziata nel 2015 con Heart of the Sea e da allora mai interrottasi - di compitini volti ad ingraziarsi il pubblico, ma che non lasciano alcuna traccia rimarchevole e concreta del proprio passaggio.
J. D. è un ex-marine, ora studente di legge all'università di Yale, in cerca di un tirocinio estivo che possa permettergli di pagare gli studi e, al contempo, dargli modo di entrare a far parte di un mondo da cui non si vede propriamente accettato. Questi proviene infatti da una piccola cittadina del sud Ohio e da una famiglia - a differenza di molti suoi compagni di corso - non proprio benestante e prestigiosa; una famiglia che non vede da tempo e che, in un modo o nell'altro, sta cercando di dimenticare.
Una sera, nel bel mezzo di un’importante cena accademica, il ragazzo riceve una chiamata da sua sorella Lindsay, la quale gli comunica che la madre Bev - tossicodipendente ed eroinomane - ha rischiato l’overdose. Tra mille pensieri e preoccupazioni, J. D. imbocca la statale e torna a casa, dando così inizio ad un viaggio che, per lui, sarà ben più di una semplice risposta ad una richiesta d’aiuto. Infatti, questo sarà soprattutto un viaggio nei ricordi e nel tempo che lo porterà a ripercorrere i momenti caratterizzanti (positivi e negativi) la propria vita, a riscoprire il valore della famiglia e, addirittura, a mettere in discussione il suo stesso futuro.
Se già alla sola lettura di questo incipit “vi è scesa la catena”, non preoccupatevi, è perfettamente normale. Se invece pensate che questo soggetto vi sia familiare, siete sulla strada giusta, dal momento che il racconto di Elegia americana è uguale a tanti altri, soprattutto in ambito hollywoodiano. Inoltre, se confrontata con gran parte dei biopic o con molti dei fantomatici "film tratti da storie vere" usciti negli ultimi anni - come, ad esempio, The Irishman, Richard Jewell, Le Mans '66, ma anche i più recenti Mank e Ma Rainey's Black Bottom oppure, prendendo in causa il nostro cinema, Miss Marx e L'incredibile storia dell'Isola delle Rose, la pellicola di Ron Howard perde a mani bassi, rivelandosi come la più dimenticabile, cauta e innocua.
Con Vanessa Taylor al tavolo della sceneggiatura, il regista dà vita ad una vicenda che definire sorpassata sarebbe riduttivo, sprovvista di qualunque tipo di stravolgimento, ma provvista, per contro, di un pantheon tematico drammaticamente trito e ritrito. Ad un film sulla tossicodipendenza, sulla paternità assente e sulla maternità duplice, sulla perseveranza nel raggiungimento dei propri obiettivi futuri di vita, sull’immigrazione (interna o esterna), sul degrado della periferia, sull’importanza della famiglia, sull’umiltà, miseria e povertà, che però si dimentica di approfondire coscientemente, innovativamente e scopicamente anche solo uno di questi concetti. L’epopea trigenerazionale di una famiglia americana - come da copione - disfunzionale, problematica e (fin troppo) sfortunata si converte così in un drammone privo di alcun tipo di ritmo, mordente o benché minima personalità, che elimina completamente il sottotesto socio-politico insito nel romanzo di Vance, configurandosi pertanto come un prodotto che sarebbe stato fuori tempo massimo già cinque, dieci anni fa.
Dialoghi piatti, stucchevoli e dagli esiti prevedibili, una frammentazione della storia basata sul sempreverde parallelismo tra eventi passati e presenti e personaggi caratterialmente costruiti e fin troppo artificiosi - nient’altro che pezzi di carne monotoni, utili soltanto ai fini emotivi e drammatici del racconto -: questi i tre elementi principali e caratterizzanti la sceneggiatura pretestuosa, scialba e disonesta di una pellicola che tenta in tutti i modi di commuovere, impietosire e fare breccia nel cuore e nell’emotività dello spettatore - il che non sarebbe neppure un problema o un errore nel senso stretto del termine.
Difatti, il difetto vero e proprio di Elegia americana è il modo esplicito ed evidente con cui tenta, a tutti i costi, di portare avanti questa sua missione fondativa. Certo, per la legge dei grandi numeri, qualcuno si sarà emozionato o si emozionerà guardandolo, ma, con un minimo sforzo riflessivo, noterà fin da subito come questa sua reazione sia o sia stata tutt’altro che naturale e spontanea. Ed è proprio questo lo scopo primario del film di Ron Howard: indurre e suscitare emozioni e sensazioni nello spettatore. Come? Attraverso un collage estenuante di episodi grossomodo sconnessi tra loro, in cui regnano costanti ed indiscussi cattiveria, conflitto e dolore e che non permettono alcun momento di tregua o minima distensione (vi è anche il montaggio finale musicale e riepilogativo volutamente strappalacrime).
Secondo il nostro modesto parere, questo non è cinema, quanto più una facile e ingannevole manipolazione emotiva che, pur ingraziandosi l'emotività del pubblico, finisce per superficializzare e rendere abbozzato qualunque e qualsiasi cosa le si pari davanti: dai personaggi alle tematiche, dalle situazioni alla costruzione del racconto, dalla morale alle riflessioni (sempre che di riflessioni si voglia parlare).
All’appello di mediocrità e frivolezza, non manca certo un comparto tecnico-estetico che, all’infuori di alcune interpretazioni e della colonna sonora di Hans Zimmer (comunque non tra le sue più riuscite) e David Fleming, conferma appieno quella sensazione di compitino espressa in apertura. Seppur esente da particolari difetti - tranne per quanto riguarda l’uso deficitario e insensato dalla camera a mano -, purtroppo anche la regia dello stesso Howard non riesce a riequilibrare le sorti di Elegia americana, mostrandosi, al contrario, inefficiente - sia nello sfruttamento delle abilità espressive e attoriali del proprio cast sia nel delineare e penetrare a dovere nell’interiorità e nella fragilità dei personaggi e della loro comunità d'appartenenza -, retorica e fin troppo edulcorata.
Un film che vive di tematiche, di personaggi e di morale si converte così in un film che può sperare di sopravvivere solamente per l’ispirazione e il lavoro di immedesimazione compiuto dai suoi attori. Nello specifico, da un’imponente - anche se nascosta sotto chili di trucco - Glenn Close nei panni di nonna Vance, da un’imprevedibile e snervata Amy Adams come Bev, entrambe in lizza per una nomination ai prossimi premi Oscar (e forse per la prima statuetta delle loro lunghe e tortuose carriere?), e da un sincero Gabriel Basso nel ruolo del protagonista effettivo, J. D. Ciò nonostante, come accennato sopra, queste ottime prove interpretative vengono sminuite da una regia ed una messa in scena enfatiche, semplicistiche e ridondanti che non sanno sfruttare e bilanciare al meglio gli ingredienti a disposizione.
Il risultato finale e definitivo è quindi un pastone tedioso e anonimo - per un’esperienza seccante, permeata, per giunta, da un costante senso di infedeltà - che vorrebbe essere grande cinema d’autore, ma rivela ben presto le proprie carte, mostrandosi per ciò che è veramente: un prodotto a cui piace vincere facile, che gioca e imbocca l’emotività del pubblico al fine di soddisfare i propri scopi prioritari - tra i quali non rientra certo la costruzione di un racconto diretto, leale, temperato e consapevole del proprio contesto di distribuzione. Infatti, Ron Howard sembra essere rimasto al 2001 e a quella duplice vittoria agli Oscar per quella Brillante Mente di John Nash. Per sua sfortuna, l’anno corrente è il 2020, già 2021, e la sua ultima opera è Elegia americana: il gioco/inganno biografico-temporale di un regista (o mestierante?) congelato nel tempo.
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