TITOLO ORIGINALE: Richard Jewell
USCITA ITALIA: 16 gennaio 2020
USCITA USA: 13 dicembre 2019
REGIA: Clint Eastwood
SCENEGGIATURA: Billy Ray
GENERE: biografico, drammatico, thriller
Il fu Uomo senza nome di Sergio Leone torna al cinema in veste di regista con una storia vera tutta da scoprire. Un racconto toccante, di denuncia, vero, terreno, estremamente memorabile con una regia soggettiva ed imparziale, a metà tra cronaca ed inchiesta, grandissime interpretazioni, un mantenimento della tensione veramente da manuale ed un messaggio efficace
Divenuto famoso come protagonista degli storici spaghetti western di Sergio Leone come Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto e il cattivo, Clint Eastwood è divenuto una delle figure più importanti e considerevoli del panorama cinematografico americano. Prima, attore richiesto e rispettato - nonostante la poca espressività -, protagonista di film come Fuga da Alcatraz, Ispettore Callaghan, Dove osano le aquile e I guerrieri; poi, regista di pellicole altrettanto di successo come Mystic River, Million Dollar Baby, Gran Torino e Lettere da Iwo Jima; l’Uomo senza nome di Sergio Leone, negli ultimi anni, ha subito il fascino del film tratto da fatti realmente accaduti. Con Invictus, J. Edgar, American Sniper e Sully, Eastwood ha raccontato le storie di eroi e icone americane – tranne per Invictus che narrava gli eventi che ebbero luogo in occasione della Coppa del Mondo di rugby del 1995, tenutasi in Sudafrica poco tempo dopo l’insediamento di Nelson Mandela come presidente della nazione -, assurti ormai al livello di miti nazionali. J.Edgar, Chris Kyle, Chelsey Sullenberg; tre persone divenute eroi dopo aver compiuto gesti di grande coraggio e di grande audacia, eroi nel senso classico e tradizionale del termine. Dopo un suo personale ritorno in veste di attore con il magnifico Il corriere – The Mule, Clint Eastwood torna dietro alla macchina da presa, narrando l’unica e controversa storia di Richard Jewell, un uomo comune, come tanti altri, passato, in pochissimo tempo, dall’essere un eroe nazionale a diventare la persona più odiata e bersagliata del paese, in seguito ad un attacco sommario ed irrazionale da parte dei media. Ma partiamo dal principio. 27 luglio 1996. Centennial Olympic Park, Atlanta. Una bomba. Un uomo di nome Richard Jewell, una guardia di sicurezza in turno durante i festeggiamenti in occasione delle 26° Olimpiadi. Richard sembrerebbe trovarsi nel posto giusto al momento giusto, ma in verità è tutto il contrario. Egli trova la bomba. Fa evacuare, con l’aiuto dei colleghi, più persone possibili, ma è troppo tardi. La bomba a Centennial Park uccide due persone e ne ferisce 111. Questo fu il primo di quattro attentati compiuti dall’estremista Eric Rudolph. Purtroppo, prima di arrivare a questa soluzione, per i mass media e l’FBI, a mettere la bomba non fu Rudolph, ma Jewell stesso. Il motivo? Diventare un eroe nazionale ed evadere dalla condizione precaria di anonima e discreta guardia di sicurezza. Si sospetta sempre di chi trova la bomba, così come di chi trova il cadavere. Secondo questa logica – citata nel film dal detective Shaw, interpretato da Jon Hamm -, inizia, così, un’autentica battaglia mediatica che cambierà per sempre la vita del povero Richard e della sua famiglia. 24 anni dopo i celebri fatti delle Olimpiadi di Atlanta, a raccontare la storia di Richard, un vero eroe americano, e a fare giustizia, ci pensa niente meno che l’icona eroica western per eccellenza, con un film assolutamente imperdibile, il migliore tra gli ultimi Eastwood.
Ben lontano dalla narrazione cristallina, iridata, ma, allo stesso tempo, fin troppo monocromatica delle vite di Chris Kyle e Sully, Clint Eastwood tenta, con questo Richard Jewell, di avvicinarsi ed approcciare una storia molto più controversa e drasticamente umana e terrena. Più che una palese, pedissequa ed ormai ripetitiva rappresentazione, da biografia classica, di una persona che ha fatto la storia del proprio paese, Eastwood prende, come protagonista del suo ultimo lavoro, una persona comune, come tante altre, che vive situazioni ed una vita con cui il pubblico si può relazionare, fatta sia di successi che di insuccessi, di glorie e di dolori. Questo è l’obiettivo principale della regia di Eastwood in questo film: rendere umano e facilmente “approcciabile” il personaggio di Richard Jewell agli occhi del pubblico – estremamente lontano e distaccato, invece, nel caso anche solo del pluridecorato cecchino Chris Kyle. La macchina da presa dell’ormai ultra-ottantenne regista segue, in modo affamato, quasi pedinando, i personaggi e le diverse figure presenti nella pellicola e, come solito, esalta fortemente l’espressività e le doti attoriali degli interpreti, che svolgono il proprio lavoro in estrema connessione e collaborazione con la direzione di Eastwood. Il nostro Clint, tuttavia, non si accontenta di un following oggettivo ed imparziale degli eventi e nella scelta delle inquadrature è chiara la sua posizione sulla vicenda. Egli vota la sua rappresentazione e la sua tecnica registica alla riabilitazione e all’innocenza di Richard – in seguito anche alla resa e alla tendenza della sceneggiatura. Anche se non si conoscono gli eventi, lo spettatore non crederà mai nella colpevolezza di Richard proprio perché il punto di vista adottato è totalmente sulla guardia di sicurezza, sul suo dolore e sulla sua storia. Questa adozione estremamente di parte del punto di vista dell’imputato, in sfavore a quello dei detective e delle “nemesi”, va a fondare una costruzione filmica dalle pretese estremamente umane ed emotive. A metà tra racconto cronachistico e classico dei fatti di quel fatidico 1996 e della vita di Richard e film d’inchiesta e di denuncia – però mai fin troppo diretta e provocatoria, alla Il Caso Spotlight, per capirci -, con Richard Jewell, Clint Eastwood fa centro e confeziona, da un punto di vista registico, un racconto godibile ed apprezzabile da tutti, amanti delle true stories o di thriller e drama. Nella pellicola di Eastwood, ognuno troverà qualcosa che gli piacerà particolarmente e proprio la mano del fu Uomo senza nome, con il suo tratteggiare consapevole e viscerale del dolore e del dramma, rende estremamente semplice ed immediato l’approccio con la vicenda narrata. Eastwood dimostra anche di saper ancora mettere insieme sequenze al cardiopalma, come quella dell’attentato, in cui la tensione, la sorpresa e l’inaspettato ricoprono un ruolo centrale, richiamando, da un certo punto di vista, i bei tempi di Mystic River.
Dopo aver scritto la sceneggiatura di Terminator – Destino oscuro e dello svalvolato Overlord, il candidato al premio Oscar (Captain Phillips) Billy Ray torna verso lidi più autoriali, riflessivi, ma non per questo meno frenetici o tesi, sceneggiando la trasposizione filmica della storia vera dietro l’attentato di Atlanta del 1996, basandosi su un articolo, The Ballad of Richard Jewell, della giornalista Marie Brenner per il magazine Vanity Fair. Billy Ray segue, in modo parallelo, la linea impostata, nella regia, da Eastwood e sceglie di spostare completamente il fulcro della narrazione sul punto di vista estremamente complesso, variegato, umano e centrale di Richard Jewell e dei suoi cari. I personaggi vengono caratterizzati e delineati in maniera complessa, veritiera e concreta, anche se è fin troppo evidente la divisione tra buoni e cattivi, tra personaggi positivi e negativi. Non esiste una via di mezzo, una zona grigia in cui ogni personaggio, all’interno del film, si muoverà prima o poi. I buoni rimarranno buoni per tutta la durata della pellicola, mentre i cattivi verranno ancor più demonizzati, diventando quasi villain stereotipati, invincibili, meschini e per nulla umani. E’ tutto un po’ troppo bianco e nero, estremamente antitetico. Un esempio è dato dalla giornalista, Kathy Scruggs, interpretata da Olivia Wilde, resa dalla regia di Eastwood e dalla sceneggiatura di Ray come una donna materiale, meschina, gretta ed ipocrita. Nella pellicola, questa non ha un momento di redenzione, Eastwood non glielo concede. Gli eroi, quelli sì che sono umani ed estremamente fallibili, forse anche troppo. Per poco, il film di Eastwood non rischia di passare oltre, di fare il passo falso di caricare troppo sulla tragedia e sulla rappresentazione della sfortuna del caso. Ma, per fortuna, Richard Jewell si riprende con un comparto comico riuscito, attraverso cui la tragedia e il suo senso vengono espressi e trasmessi in modo perfetto. Tuttavia, quando si arriva a parlare del messaggio che si nasconde dietro il racconto di Richard Jewell, la questione cambia. Discussione naturale ed ovvia già fornita dalla vicenda stessa, l’ultima fatica di Clint Eastwood porta sullo schermo, in maniera incredibilmente efficace, una denuncia ed una critica smaccata contro i media, il loro potere dilagante, la loro sete di ascolti e di notizie piccanti e travolgenti, anche se queste, alla fine, si rivelano essere false e costruite. La componente dello storytelling giornalistico e televisivo, qui, è naturalmente un elemento chiave su cui la narrazione si concentra e che sottolinea in molteplici occasioni, anche da un punto di vista registico e visivo. Viene resa in modo classico, ma efficacissimo, la potenza e l’influenza dei media all’interno della società odierna, capaci di trasformare un piccolo sospetto in una verità indissolubile e già confermata, ancora prima della fine delle indagini. Anche qui, però, ritorna la divisione netta tra good guys e bad guys con un aborrimento fin troppo complessivo, superficiale e di parte di stampa e giornali.
Punto di forza imprescindibile del film, così come di tutta la filmografia registica di Eastwood, è rappresentato sicuramente dal grandissimo cast assemblato. Tra nuove giovani promesse e mostri sacri della recitazione, il parterre di attori che ha collaborato con Clint nella realizzazione di questo Richard Jewell è veramente simile, fisiognomicamente, alla controparte reale e storica delle persone che hanno vissuto in prima persona gli eventi narrati nel film. Tutti gli attori, dal primo all’ultimo, sono ispiratissimi e realmente calati nella parte. Iniziamo ovviamente da lui, Richard, interpretato dal talentuoso, fisico ed espressivo Paul Walter Hauser. Per la prima volta in un ruolo da assoluto protagonista, Hauser indossa, in modo incredibile ed inaspettato, i panni di Jewell, regalando allo spettatore uno stile ed una performance recitativa variegata ed eloquente, con momenti che vanno dal dramma e dalla tragedia più intensa e sentita a veri e propri siparietti comici, estremamente esilaranti, soprattutto data la fisicità dell’attore. Questa resa eccezionale, viscerale ed estremamente vera del suo personaggio non sarebbe stata tale se a fargli da spalla non ci fosse stato un interprete del calibro di Sam Rockwell. Vincitore dell’Oscar per Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh – in cui interpretava, in maniera magistrale, l’agente razzista Dixon -, Rockwell è sempre stato un attore capace e dotato di una grande presenza scenica. Dopo aver interpretato il presidente Bush in Vice – L’uomo nell’ombra di Adam McKay, l’attore non fa altro che confermare quella tesi in Richard Jewell. Egli veste divinamente i panni dell’avvocato, amico di Richard, Watson Bryant e, tra questi e Paul Walter Hauser, deve essere scattato qualcosa perché i due sono semplicemente perfetti e dotati di un’impressionante chimica su schermo, regalando momenti e scambi di battute che sono pura magia. Tuttavia, la parte da leone o, per meglio dire, da leonessa è riservata alla fantastica Kathy Bates che qui interpreta la madre di Richard, Bobi. L’interprete, divenuta celebre per il ruolo di Annie Wilkes nel cult thriller Misery non deve morire – per il quale ha vinto un Oscar – e per quello di Margaret Brown nel colossal Titanic, ultimamente, è tornata sotto i riflettori a seguito della sua partecipazione nella nota serie TV American Horror Story, in cui rubava la scena a moltissimi dei nomi presenti. In questo Richard Jewell, alla Bates viene riservato forse il ruolo più drammatico ed emotivo della vicenda e quest’ultima svolge un lavoro, prima espressivo poi viscerale, assolutamente sopraffino ed immedesimato, quasi come fosse stata proprio lei a vivere quelle angherie e quell’ingiustizia sulla propria pelle. A completare il ricchissimo e talentuoso cast, Jon Hamm in un ruolo secondario e scritto abbastanza superficialmente e un Olivia Wilde dimenticabile e schiacciata dalla grandezza e bravura dei colleghi, responsabile una caratterizzazione banale e poco ispirata del proprio personaggio.
Richard Jewell si configura come un ottimo biopic e un ottimo dramma, nonostante i suoi difettucci a livello di sceneggiatura – un finale fin troppo affrettato ed anonimo – e di caratterizzazione dei personaggi secondari, i villain della vicenda – l’agente Shaw e Kathy Scruggs, la giornalista, che rappresentano rispettivamente l’FBI e i media -, coloro che accusano Richard di essere il vero colpevole dell’attentato dinamitardo di Atlanta. Senza dubbio, tra i migliori diretti da Clint Eastwood e sicuramente superiore ad American Sniper e Sully, il film affronta una vicenda distante anni luce da quelle dei suoi predecessori, trattando, con grande cura tecnica e grande anima, una storia assurda, a metà tra il paradosso e la distopia, estremamente terrena, umana e possibile, soprattutto nel mondo e nella società odierna. Questo carattere materiale, mortale, effettivo, ma estremamente drammatico del racconto di Richard Jewell è sottolineato ulteriormente dalla fotografia di Yves Bélanger. Diretta, tradizionale, espressiva, concreta, la cinematografia della Belanger porta con i piedi per terra la pellicola di Eastwood, accrescendo ancora di più l’elemento della storia vera, dei fatti realmente accaduti, della persona reale dietro al personaggio filmico. Ricco di una carriera di grandi successi, il fu Uomo senza nome non si arrende, continua a lottare, continua ad emergere nel panorama cinematografico attuale, desideroso di esprimere la propria opinione e di dire la sua su un mondo che cresce e si evolve incessantemente, ogni giorno di più. Con Richard Jewell, seppur estremamente radicali ed estremizzate, ma mai provocatorie, possiamo dire che la sua opinione e la sua voce risaltano e fanno breccia nei cuori degli spettatori. A 65 anni dall’inizio della sua carriera nell’industria cinematografica, Clint Eastwood ricorda a tutti cosa significa fare cinema, provare e provocare grandi emozioni, costruire storie ben congegnate, intrattenenti, che lascino un segno nella mente e nell’anima di chi le guarda. Richard Jewell è la prova indissolubile del perché tutti noi, amanti del grande cinema e del cinema d’autore, continuiamo ad amare e a dare fiducia al grande cineasta che è e sarà, per sempre, Clint Eastwood.