TITOLO ORIGINALE: Ma Rainey's Black Bottom
USCITA ITALIA: 18 dicembre 2020
USCITA USA: 18 dicembre 2020
REGIA: George C. Wolfe
SCENEGGIATURA: Ruben Santiago-Hudson
GENERE: biografico, drammatico, musicale
PIATTAFORMA: Netflix
PREMI: 2 OSCAR per i MIGLIORI COSTUMI e il MIGLIOR TRUCCO; GOLDEN GLOBE per il MIGLIORE ATTORE in un film drammatico
Un dramma fatto di parole e musica, armonia e disarmonia, vita e morte, potere e sfruttamento, sogni e catene, che sfrutta l'episodio dell'incisione della canzone Black Bottom da parte della regina del blues Ma Rainey per trattare la condizione precaria della popolazione afroamericana degli anni ‘20. Netflix produce e distribuisce un biopic musicale che, dietro due grandi interpretazioni - una graffiante Viola Davis e uno struggente Chadwick Boseman alla sua ultima performance -, nasconde un comparto tecnico fin troppo teatrale e una sceneggiatura imperfetta ma pregna di contenuti e argomentazioni che lasciano il segno nella mente e nel cuore dello spettatore.
Netflix è a caccia di premi Oscar. Se non altro, di quello per il miglior attore. Questa è la sensazione che si ha guardando il biopic musicale di George C. Wolfe, basato sulla pièce teatrale omonima scritta da August Wilson: Ma Rainey’s Black Bottom. Protagonisti indiscussi di questa storia di emancipazione afroamericana - che si va a sommare ad un filone di altre più o meno riuscite -, una nervosa, burbera ma stregante Viola Davis, in lizza per un secondo Academy Award (il primo lo aveva vinto nel 2017 per Barriere di e con Denzel Washington, basato - guarda caso - su un altro testo teatrale del succitato Wilson), e uno struggente Chadwick Boseman alla sua ultima interpretazione.
I due, insieme a Wolfe, catapultano lo spettatore in una Chicago dei ruggenti anni '20, in cui il blues e il jazz regnano sovrani. Più precisamente, in uno dei luoghi in cui questi re musicali di origine indiscutibilmente black vengono eseguiti, incisi, prodotti, venduti e diffusi su tutto il territorio nazionale: uno studio di registrazione. In quello di Mel Sturdyvant, è attesa la visita di una delle prime e più importanti cantanti blues, Ma Rainey (Davis), sul punto di registrare, tra uno spettacolo e l’altro della tournée, il suo nuovo disco.
Come prevedibile, la registrazione verrà osteggiata da numerosi fattori, non ultimo lo stato di segregazione, pregiudizio e sfruttamento del white man nei confronti del(la) black (wo)man. Prende così il via un dramma fatto di musica e - soprattutto - parole, armonia e disarmonia, vita e morte, potere e sfruttamento, sogni e catene, spazi aperti e spazi chiusi, che sfrutta il particolare (come da titolo, l’incisione della canzone Black Bottom) per trattare il generale, ossia la condizione precaria della popolazione afroamericana degli anni ‘20. E non solo...
Il primo elemento che appaga e colpisce l’occhio spettatoriale è, senza ombra di dubbio, la fotografia di Tobias A. Schliessler che, mediante una costruzione sudaticcia e dorata dell’immagine, riesce a tratteggiare ed esprimere perfettamente il clima meteorologicamente (il caldo afoso che non dà pace ai personaggi) e narrativamente (la tensione narrativa ed emotiva che pervade il racconto) parlando. Questa, insieme all’ottima ricostruzione storica data da costumi, trucco, scenografia e musica, costituisce uno degli aspetti più pregevoli e magniloquenti di un comparto tecnico fin troppo legato alla pièce d’origine.
In tal senso, non fa certo eccezione la regia di Wolfe che, proprio ad omaggio e rispetto dell’opera di Wilson e del suo carattere teatrale, si limita al ruolo di mera narratrice, dando vita ad una messa in scena statica, ridondante e praticamente invisibile (lo stesso si potrebbe dire del montaggio di Andrew Mondshein), salvo per una specifica sequenza iniziale, la quale fa coincidere il canto catartico di Ma, il suo tour e la sua storia con un altro canto, un altro viaggio e un’altra storia ben più grande e collettiva: la migrazione afroamericana dagli stati e dalle piantagioni del sud ai grandi centri industriali del nord.
A ravvivare un comparto tecnico non propriamente incisivo e riconoscibile, una sceneggiatura densa, abbondante e pregna di contenuti, argomentazioni e tematiche, che fa del dialogo e della caratterizzazione le principali vie comunicative di una realtà socio-politica insita nell’ecosistema statunitense fin dalle sue stesse origini. Costruito su due piani e popolato gerarchicamente da produttori bianchi a cui interessa, citando le parole di Ma, “solo la mia voce”, da una cantante di colore esigente e libertina, trattata opportunisticamente come una bianca da quegli stessi produttori e da un gruppo di musicisti neri che, oltre ad essere il veicolo fragile, veritiero, fallibile e logorroico di un discorso di emancipazione e rivalsa sociale, rappresentano l’ultimo gradino di un’immaginaria scala sociale: lo studio di registrazione di Ma Rainey’s Black Bottom diventa teatro e ritratto spaziale di un disagio esistenziale e di una condizione precaria che troverà numerose e differenziate valvole di sfogo.
Tra queste, la più importante è sicuramente la musica, la quale rappresenta per i produttori, la cantante e i musicisti che affollano lo studio uno strumento a cui dedicare ogni propria energia per ottenere qualcosa: essenzialmente una, se non l’unica loro fonte di lucro e di successo. Tuttavia, per la cantante e i musicisti assume una connotazione ulteriore e ben più urgente. Infatti, ogni nota, melodia, virtuosismo, battuta, canzone offre a questi ultimi la possibilità di esprimere e far sentire la propria voce all’interno di una cultura e di una società razzista, conservatrice e piena di pregiudizi, in cui, per citare la pellicola, “le persone di colore sono gli avanzi”.
Nonostante questa affinità sociale, anche tra cantante e musicisti vi sono alcune sostanziali differenze. Infatti, se Ma è ormai un’artista arrivata, richiesta e di successo a cui non importa più molto la sopraffazione e costrizione dei suoi fratelli e sorelle afroamericane - per lei, l’importante è essere trattata adeguatamente e umanamente, come una bianca, e vedere soddisfatto ogni suo capriccio -, i suoi musicisti capiscono e vivono sulla propria pelle questa idea del nero come “avanzo”. Il titolo, Ma Rainey’s Black Bottom, assume quindi un significato che supera il mero riferimento musicale, ad indicazione proprio del quartetto di musici: a tutti gli effetti, il black bottom (il fondo, nel senso di sottoposti) di Ma.
Questi gioiscono e faticano per 25 miseri dollari (in confronto ai 200 che spettano alla cantante) o per un nuovo paio di scarpe (una citazione a Fa' la cosa giusta di Spike Lee?), sono cresciuti e affrontano quotidianamente un mondo fatto di ingiustizie, violenze, derisioni e stigme e vivono quasi unicamente di sogni, aspirazioni e desideri. Tale profilo è perfettamente inquadrato e incarnato dal personaggio di Levee (Boseman), il trombettista. Tra il quartetto di suonatori, egli è forse il più speranzoso, beffardo (per questo, non sempre incontra il favore del pubblico) e ribelle, ma anche talentuoso e appassionato del gruppo.
Tuttavia, questa sua facciata da sognatore incallito - è praticamente certo che fonderà e sarà il leader di una band tutta sua, non accontentandosi affatto della propria condizione attuale - nasconde un’interiorità segnata da un trauma infantile (non certo originalissimo), raccontato ed esposto da Boseman con una sensibilità e un sentimento così viscerali che non possono non colpire.
Un trauma che, in seguito ad una serie di sfortunati eventi e al disvelamento di una condizione da cui non è possibile sottrarsi felicemente e armati di sola positività, si converte in tragedia, delitto e morte. Sintomatica, a tal riguardo, l’apertura, da parte di Levee, di una porta apparentemente bloccata - elemento che, nel cinema, spesso simboleggia il cambiamento, l’evoluzione e lo sviluppo del racconto e dei personaggi o semplicemente uno squarcio sull’ignoto, sull’orrore o sul futuro - che conduce ad un quadrato claustrofobico di mura, allegoria delle convinzioni, che diventano una prigione, e della condizione sociale ed esistenziale del trombettista, così come di milioni di afroamericani.
Il lavoro dello sceneggiatore Ruben Santiago-Hudson non è del tutto esente da difetti di vario tipo - tra questi, un intreccio dalle dinamiche eccessivamente ed evidentemente pilotate e un finale fin troppo enfatico, retorico, manifesto e perciò superfluo - e non spicca sicuramente per originalità, tanto da confondersi (forse troppo) all’interno di un filone e una filmografia che, negli ultimi anni, ha sperimentato un apporto sostanziale di titoli, venendo preso d’assalto da tutte quelle major hollywoodiane alla ricerca di una nomination assicurata - in tal senso, l’operazione in oggetto non rappresenta certo un’eccezione.
Ciò nonostante, Ma Rainey’s Black Bottom acquisisce un valore aggiunto speciale e significativo. Forse perché testamento di un giovane artista che avrebbe avuto ancora molto da regalare in termini attoriali e performativi, forse perché biopic minimale e circoscritto a livello di varietà di situazioni e di ambientazioni, ma lo stesso concettualmente e riflessivamente abbondante, forse perché autore di un paio di momenti di grande alchimia tra gli interpreti e gestione degli stessi, forse perché creatura ben più efficace del simile (per tematiche e produzione) ma fallace (nell’attuazione) Da 5 Bloods di Spike Lee.
Si poteva fare di meglio? Si poteva osare di più? Senz’altro. Questo significa però che ci troviamo di fronte ad un prodotto incompiuto e inconcludente? Sì e no, dipende dai punti di vista. Tuttavia, una cosa è certa: pur con i suoi passi falsi, Ma Rainey’s Black Bottom vi rimarrà impresso, per un motivo o per un altro, nel bene o nel male.
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