TITOLO ORIGINALE: L'incredibile storia dell'Isola delle Rose
USCITA ITALIA: 9 dicembre 2020
USCITA USA: 9 dicembre 2020
REGIA: Sydney Sibilia
SCENEGGIATURA: Sydney Sibilia, Francesca Manieri
GENERE: commedia, drammatico, storico
PIATTAFORMA: Netflix
PREMI: 3 DAVID DI DONATELLO tra cui MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA e MIGLIOR ATTRICE NON PROTAGONISTA
L’incredibile storia di Giorgio Rosa, ingegnere di Bologna che nel 1968 costruì una piattaforma/isola al di fuori delle acque territoriali italiane che proclamò poi come stato indipendente. Dopo la scatenata trilogia di Smetto quando voglio, Sydney Sibilia torna a narrare - questa volta con Netflix - le gesta di un “esperto” e rivitalizza su schermo la figura di un ingegnere ben lontano dai canoni e dagli stereotipi che, costruendo un’isola per amore, diventa ben presto manifesto di un’intera generazione e principale avversario dello stato italiano. Ad una prima parte basata su una classica storia di rivalsa personale, segue una seconda dai fini ben più elevati e magniloquenti, in cui, attraverso la caricatura e la parodia, si arriva a condurre una vera e propria critica socio-politica. Peccato che il mix sia in parte rovinato da un finale frettoloso e da una messa in scena talvolta fin troppo didascalica.
Il sequestro di un auto da parte della polizia. Questo è tutto ciò che serve a Giorgio Rosa (Elio Germano), ingegnere di Bologna, per costruire una piattaforma a 500 metri dalla costa adriatica, al di fuori delle acque territoriali italiane. O almeno, questo è quello che serve al Giorgio Rosa protagonista de L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, film originale Netflix per la regia di Sydney Sibilia che, per l’appunto, vuole trattare - non certo senza qualche stravolgimento e libertà - un capitolo della storia italiana che purtroppo, col passare degli anni, si è perso tra le pieghe del tempo e della memoria. Una vicenda, quella delle Rose, che, all’epoca, fece scandalo e su cui la stampa si focalizzò per mesi interi, ritenendola talvolta anche “più importante della politica interna, delle rivolte studentesche… persino della guerra in Vietnam”. Tuttavia, il 1° maggio 1968 questa stessa storia abbandonò le pagine legate agli interni e al costume, passando a quelle riguardanti gli affari esterni (“rimanendo però in costume”, visti la locazione e uso balneare che ne facevano i visitatori). Infatti, in questa data, Rosa dichiarò l’isola come nazione indipendente - con il nome di Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose (la lingua di stato era l’esperanto) - e se ne autoproclamò presidente. Questa presa di posizione fece capire allo stato italiano che, tutto sommato, l’Isola non era il semplice passatempo o esperimento sociologico di un giovane bolognese e diedero inizio così ad una vera e propria guerra - ad oggi, l’unico atto bellico d’invasione commesso dalla nostra Repubblica.
Torniamo però al Giorgio Rosa della pellicola Netflix che, a differenza della storia vera, compie questa impresa da neolaureato, quando ancora è un giovane, brillante ed insolito ragazzo di Bologna che passa le proprie giornate costruendo, brevettando e innovando macchinari come l’automobile “alla Diabolik” che, sprovvista di targa, gli farà passare una notte al fresco e avere una discussione con l’ex fidanzata Gabriella (Matilda De Angelis) [in verità, quando Giorgio costruì l’isola i due erano già sposati]. E proprio quest’ultima - “perché vivi in un mondo tutto tuo, ma il mondo non è tutto tuo” - sarà la responsabile indiretta di quest’incredibile storia. Non tanto per ragioni libertarie, sovvertitrici e anarchiche, quanto per amore e sentimento: così nasce la nazione indipendente dell’Isola delle Rose. Stessa nazione che trova in Sydney Sibilia un perfetto cantastorie e tramandatore visivo. Questi, benedetto da un soggetto già di per sé affascinante e inedito, si pone, con la sua macchina da presa, a funzione di divulgatore e volgarizzatore (inteso in senso positivo) di un evento unico nel suo genere. Un evento che vuole e ci ricorda quanto sia importante sognare (anche se ad occhi aperti) e quali possano essere le potenzialità e gli effetti di un’idea - ovviamente sostenuta da una inaudita forza di volontà e dose di competenza - e di un progetto che molti considererebbero irrealizzabile.
Con, alle spalle, la nomea e lo status acquisito dalla Groenlandia - la casa di produzione da lui co-fondata (l’altro fondatore è Matteo Rovere, qui in veste di produttore) - e le enormi disponibilità finanziarie della N rossa, Sibilia continua il viaggio inaugurato e intrapreso con la trilogia di Smetto quando voglio (2014), “mettendosi a difesa” e riscattando cinematograficamente figure comunemente ritenute soporifere, monotone e tediose: i cosiddetti “esperti”, come ci piace chiamarli in Italia. In Smetto si raccontavano - facendo un po’ il verso al filone dei cinecomic americani - le storie e le vite di un manipolo di ricercatori universitari che tentavano di evadere la propria precarietà lavorativa mediante la produzione e lo spaccio di smart drugs. In L’Isola delle Rose, al centro della narrazione, vi è invece un genio/ingegnere incompreso che, per amore, arriva ad essere una minaccia per lo stato italiano. Ed è proprio lo stato che, nei film di Sibilia, veste gli abiti del “villain” contro cui gli eroi del racconto dovranno scontrarsi o fare i conti: nella trilogia del 2014, il deprezzamento e la sua svalutazione di quest'ultimo nei confronti di Pietro Zinni e dei suoi amici ricercatori è la causa scatenante che li porterà sulla strada del crimine; in Rose, rappresenta l’ostacolo che separa Giorgio Rosa dal riconoscimento politico delle sue fatiche e della sua missione.
Nonostante questa forte italianità, la produzione comprende alla perfezione l’esito distributivo della pellicola e declina, sulla base di questo pensiero, tutti i propri sforzi. Il risultato? Un film italiano che di puramente italiano ha solo l’ambientazione, la recitazione e il soggetto, dal momento che, in termini di stile e tecnica, L’incredibile storia sembra essere il prodotto di una major hollywoodiana, con echi al cinema di Soderbergh e compagnia cantando. Tale americanità non si traduce però in una spersonalizzazione o in un fattore a discapito del progetto, coincidendo anzi con quel discorso distributivo sopracitato e con il respiro internazionale e decodificato della messa in scena ed estetica di Sibilia. Infatti, pur avendolo definito “un perfetto cantastorie e tramandatore visivo”, il cineasta dà prova di una lucidità e chiarezza rappresentativa eccezionali, dando nuova linfa vitale e rendendo allettante una vicenda che, se affidata ad un altro regista (e produzione), non avrebbe certamente sortito lo stesso effetto. Eppure, questa natura chiara ed immediata del girato non sempre riesce a far centro e non si rivela completamente soddisfacente, poiché fautrice, oltre che di momenti penetranti e comicamente intensi, anche di un paio di sequenze e passaggi al limite del didascalico, in cui non si hanno luoghi d’ombra e non si sfruttano le possibilità del fuoricampo, preferendo invece mostrare e palesare ad ogni costo.
Questo stile e approccio “americano” e universalmente accessibile nei confronti del prodotto è ulteriormente sottolineato ed evidenziato dalla sceneggiatura del film, firmata dallo stesso regista con l’aiuto dell’abile Francesca Manieri. Adottando il registro di un tipo di commedia riconducibile, per certi versi, al filone dei caper movies, il duo di sceneggiatori sfrutta la classica struttura del salto avanti e indietro nel tempo per raccontare una versione rimaneggiata e ricostruita ad hoc per lo schermo dell’isola delle Rose, della sua nascita e del suo impatto sull’opinione pubblica e tratteggiare, al contempo, un mosaico socio-politico di un’Italia già immersa, da cima a fondo, nelle tensioni tra Oriente e Occidente, tra capitalismo e comunismo, tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Un periodo di tensioni e contrasti sociali che, nell’Italia del 1968, trova una delle sue valvole di sfogo maggiori nelle rivolte studentesche che, al grido di libertà, cambiamento e rivoluzione, coinvolsero un po’ tutto il territorio nazionale e che il film di Sibilia sintetizza e riconduce al gesto utopistico, idealista e con forti spinte libertine, seppur nato per una ragazza, di Giorgio Rosa che, suo malgrado, diventa il manifesto di un’intera controcultura e contestazione. Gesto le cui speranze, così come quelle dei movimenti del Sessantotto, vengono polverizzate sullo sfondo di una rielezione al governo e per mano di cariche esplosive poste in punti strategici, quindi per mano di una forza bruta e militare.
Se in Smetto quando voglio lo stato italiano era presente ma sublimato, in L’Isola delle Rose questi assume una posizione narrativa chiara e di rilievo, dal momento che una buona metà dell’intreccio di Sibilia-Manieri si fonda proprio sullo scontro plateale e flagrante (“Fai il pieno di avvocati, stronzo!”) tra il governo e lo stesso Rosa. Ecco dunque che la pellicola abbandona le atmosfere e la comicità da caper movie - con tanto di preparazione e illustrazione del piano -, abbracciando invece toni e momenti caricaturali, falsificatori e di denuncia dell’establishment e delle istituzioni e raggiungendo parallelamente alcuni dei suoi picchi compositivi più elevati. Tra corruzione degli alleati, ripicche e prese di posizione forti e forse neppure legali, l’ingegnere bolognese si trova a “combattere” contro un pittoresco manipolo di bambinoni capricciosi, ignoranti e pressapochisti che, purtroppo, hanno dalla loro un potere contro cui Rosa non potrebbe mai competere - nonostante questi risponda ugualmente in maniera egregia e ardita. Un gabinetto di macchiette che si mobilita per paura di “un culo” e “di quello che rappresenta” - tanto per evidenziare la ridicolizzazione e minimizzazione dei suoi intenti e fini politici - si converte così nell’inaspettatamente perfetta controparte e avversario comico di Giorgio Rosa & co., che, da metà film in poi, a livello di presenza scenica, iniziano a soccombere e soffrire di questo confronto.
Per sintetizzare quindi, L’incredibile storia si mostra, ad una prima occhiata, come una classica narrazione di rivalsa personale e di evoluzione di un personaggio che reagisce ad una serie di eventi che si fanno largo nella propria vita, ma si converte ben presto in un qualcosa di ben più elevato e ben più sofisticato. Peccato soltanto che questa intraprendenza argomentativa e svolta sostanziale vengano spezzate da un finale che preferisce puntare sull’amore, su una compiaciuta e metaforica “pacca sulla spalla” e su uno scambio di battute fin troppo artificioso e pretestuoso, annullando così - anche se solo parzialmente - ogni tipo di metafora, collegamento e denuncia lasciata intendere poco prima. A questo epilogo tanto insperato quanto tremendamente involutivo si sommano, in ultimo luogo, una serie di scritte - ironiche e dal contenuto beffardo - su sfondo nero che, come nella migliore tradizione biopic, tradiscono il cinema in quanto linguaggio e in quanto arte fondata su immagini in movimento.
Tralasciando una chiusura forse troppo frettolosa e approssimativa, qualche dialogo prevedibile ed una messa in scena spesso didascalica e fin troppo pacata e tradizionale in certi momenti (questi, in linea di massima, i difetti principali dell’opera), L’incredibile storia dell’Isola delle Rose è indubbiamente un grande film, un progetto coraggioso - certo favorito dalla presenza distributiva di Netflix - che porta un’ulteriore ventata d’aria fresca nel rinascente panorama del cinema italiano e una pregevole affermazione di poetica da parte di Sydney Sibilia - uno dei promotori veri e propri, con il summenzionato Smetto quando voglio, di questo stesso clima di rinascita e rivitalizzazione. In un certo senso, l’isola di Giorgio Rosa è una perfetta similitudine dell’attuale parabola del nostro cinema; la parabola di un cinema, quello dell’ultimo decennio, nato perché vi erano le condizioni produttive e distributive adeguate (in soldoni, perché si è avuta l’opportunità) e che, pian piano, si vuole e sta aprendo ad un riconoscimento ed identificazione internazionale (ciò che Giorgio desidera ottenere quando si reca alle Nazioni Unite). Speriamo soltanto che il tutto non finisca con un bombardamento...
Un film di attori, costruito, per essere precisi, su un vernacolare ed istrionico Elio Germano, su una posatissima ma graffiante Matilda De Angelis, su un Luca Zingaretti “de-montalbanizzato” e rinato e su un Fabrizio Bentivoglio irresistibile; un film di soggetto (come affermato sopra, forse uno degli elementi più affabulatori e intriganti dell’opera e, al contempo, ciò che la rende unica ed irripetibile); un film di atmosfere, fondate e favorite da una comicità di duplice natura (una semplice e fisica e un’altra tagliente, ridicola e di denuncia) e doppiamente travolgente, da un ritmo serratissimo, “all’americana”, ma anche e soprattutto da una ricostruzione storica attenta al dettaglio, contraddistinta e sostenuta da una fotografia saturata, carica e vivace, da un reparto costumi di ottimo livello e da una colonna sonora che, tra brani nazionali ed internazionali, fa respirare pienamente il clima culturale di quegli anni. In definitiva, un prodotto senz’altro percorso da qualche incrinatura e difetto, più o meno significativo, ma perfettamente godibile e ricco, per di più, di numerosi spunti di riflessione intra- ed extra-narrativi. Un’ottima aggiunta alla piattaforma (in tutti i sensi) streaming di Los Gatos che ultimamente - tra questo Sibilia, Mank di Fincher e La vita davanti a sé di Ponti - sembra voler pagare pegno per la mediocrità dilagante e complessiva che ha caratterizzato gran parte delle uscite originali di questo sfortunato 2020. Una pellicola incredibile non solo “di titolo” ma anche di fatto.
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