TITOLO ORIGINALE: Mank
USCITA ITALIA: 4 dicembre 2020
USCITA USA: 4 dicembre 2020
REGIA: David Fincher
SCENEGGIATURA: Jack Fincher
GENERE: drammatico, biografico
PIATTAFORMA: Netflix
PREMI: 2 OSCAR per la MIGLIORE FOTOGRAFIA e la MIGLIORE SCENOGRAFIA
Il racconto della vita dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz prima, durante e dopo la stesura del copione di Quarto potere, esordio dell'enfant prodige Orson Welles, tra i film più importanti della storia del cinema. Dopo una pausa di sei anni, David Fincher torna al grande schermo con un biopic originale Netflix che vuole raccontare i retroscena e la diatriba autoriale dietro Quarto potere, ma che, in realtà, sfrutta tutto ciò per condurre un’analisi critica, quasi grottesca, della Hollywood degli anni d’oro e dell’influenza politica, sociale e culturale del racconto per immagini e un excursus sulla vita di un uomo invisibile, sempre all’ombra degli altri e del successo. Un comparto tecnico-estetico che contribuisce alla creazione di un’atmosfera nostalgica ed evocativa è spettacolo visivo di una sceneggiatura fondata prevalentemente sulla caratterizzazione dei personaggi e su un comparto dialogico di stampo teatrale, intriso nel vetriolo. Con Mank, Fincher dà “un’impressione” di un artista difettoso e umano, costruendo un’opera di rara bellezza e potenza che, con il tempo, diventerà un piccolo cult.
Se nominassimo Quarto potere, quale sarebbe il primo nome che vi verrebbe in mente? Naturalmente, quello del suo regista, sceneggiatore, produttore e attore principale Orson Welles - il genio radiofonico, l’enfant prodige del cinema anni ‘40, la mente creativa e rivoluzionaria dietro la realizzazione di una delle pellicole migliori e più importanti della storia del cinema. E se invece facessimo il nome di Herman J. Mankiewicz, vi suonerebbe familiare? Probabilmente no. Eppure, quel film, citato poco sopra, con ogni probabilità non avrebbe mai visto la luce, senza quel Mankiewicz. Ma chi è costui? E’ presto detto, dal momento che, oltre ad essere uno dei due (lo) sceneggiatori(e) di Quarto potere, questi è, oggi come oggi, il protagonista di Mank, nuovo film originale Netflix, per la regia di David Fincher, basato sul ritratto e racconto della vita dello sceneggiatore prima, durante e dopo la stesura del copione del film di Orson Welles - evento che cambierà totalmente (seppur per poco tempo, vista la morte prematura) la propria carriera ed esistenza.
Fincher torna dunque al cinema - al grande/piccolo schermo, dipende dal vostro dispositivo - dopo L’amore bugiardo (2014) e un periodo sabbatico di ben sei anni, durante il quale, tuttavia, non è stato con le mani in mano. Infatti, nel 2013 questi ha stretto un sodalizio produttivo con la N rossa che ha visto la nascita di prodotti seriali di altissima qualità come House of Cards (2013) e le due stagioni di Mindhunter (2017). Ciò nonostante, si sentiva da tempo la mancanza di una figura come la sua all’interno del panorama cinematografico ma, soprattutto, del Fincher di Seven (1995), Fight Club (1999) e The Social Network (2010), dal momento che i suoi ultimi contributi alla Settima Arte non sono proprio ciò che si intende per gioielli. E ci permettiamo di affermare che, per una volta, i nostri desideri sono stati avverati. Pertanto, lasciamoci alle spalle teste mozzate dentro scatole nel deserto e alter ego che hanno le sembianze di Brad Pitt, non dimenticandoci però di quell'ideale del genio brillante alla Mark Zuckerberg, e immergiamoci nel magico (ma spregevole) mondo della Hollywood anni ‘30, la fabbrica dei sogni che “può convincere il mondo intero che King Kong è alto dieci piani e che Mary Pickford è vergine a 40 anni”.
Con Mank, Fincher si riunisce con molti dei suoi collaboratori storici, tra cui il montatore Kirk Baxter (con il quale ha lavorato per i suoi ultimi lavori) e i compositori Trent Reznor e Atticus Ross, i quali avevano firmato le colonne sonore di The Social Network, Uomini che odiano le donne (2009) e L’amore bugiardo. Per il comparto fotografico, il regista ha deciso invece di affidare l’incarico ad Erik Messerschmidt, noto principalmente per il suo lavoro in Mindhunter. Non vogliamo girarci troppo attorno: da un punto di vista tecnico ed estetico, Mank è semplicemente meraviglioso; forse una delle esperienze visive più appaganti e suggestive dell’anno, se non degli ultimi anni. Un bianco e nero suadente ed espressivo, che trasuda classicità e magnificenza da tutti i pori, rivitalizza quel fascino elegiaco della Hollywood delle origini e di tutte quelle pellicole, spesso di produzione Metro-Goldwyn-Mayer, che facevano dell’eccesso e dello sfarzo profilmico il loro marchio di fabbrica. Fascino che, completato da una colonna sonora realizzata solo con strumenti dell’epoca, costumi semplicemente splendidi e un'attenzione maniacale per i dettagli e la ricostruzione storica, viene poi sfruttato da Fincher ai fini della creazione di un’atmosfera vibrante, evocativa e appassionante che dà tutto ciò che ha da offrire in poco meno di due ore e un quarto. Questo ambiente, così frizzante, pungente e ingegnoso (anche se le vere sequenze sul set si contano sulle dita di una mano), è così ben reso da generare nello spettatore una genuina e tale evasione nei confronti di questo mondo remoto da dispiacerlo, una volta che giunto ai titoli di coda. La cinepresa diventa così uno strumento documentario, di cui il cineasta si serve, oltre che per raccontare una storia realmente accaduta, anche e soprattutto per favorire un’istantanea di un dato periodo storico, sociale e culturale, oggetto certamente di numerose controversie e altrettanti scandali, ma capace ancor oggi di stregare, con la sua iconografia e carattere affabulatori, gli spettatori di tutto il mondo. In tal senso, così come fece Welles 80 anni fa, Fincher spreme al massimo il potenziale della profondità di campo. In questo caso però, non per generare contrasti metaforici e simbolici, bensì a beneficio della resa visiva di un mosaico composito, citazionista e minuzioso di volti, locandine e scenari, entrati di diritto nella storia del cinema, se non, addirittura, nell’immaginario collettivo.
Visto che lo abbiamo citato, è giunto il momento di capire il peso e il ruolo rivestiti da Quarto potere e il suo cineasta, all’interno della sceneggiatura di Mank - la cui elaborazione, ad opera di Fincher senior, risale al lontano 1990. Non vorremmo dunque deludervi o rovinarvi la sorpresa, ma è quantomeno d’obbligo riconoscere come - purtroppo o per fortuna - l’esordio cinematografico di Welles sia, se paragonato alla totalità di concetti e temi sviscerati, probabilmente il meno rilevante ai fini della narrazione. Certo, la pellicola si apre e si chiude con due eventi Welles-centrici: l’arrivo, all’inizio, di un Mank malmesso e fratturato in un ranch della California e di una telefonata da parte di Welles, che concede a Herman 60 giorni per ultimare la scrittura del film, e quello, sul finale, di fama e successo veri e propri (anche se effimeri, data la sua prematura dipartita) per il nostro protagonista che - vincitore dell’Oscar per lo script di Quarto potere, in un’intervista di fronte a casa sua - dichiara di essere felice di accettare un premio così prestigioso per “come quella sceneggiatura è stata scritta. Vale a dire, in totale assenza di Orson Welles”. Tuttavia, posto in modo provocatorio, lo stesso Citizen Kane, unitamente alla questione di paternità legatagli, passa dall’essere il principale motivo per cui una creatura filmica come Mank possa interessare il grande pubblico allo status di mera legittimazione e pretesto narrativo che, oltre ad un paio di dettagli e citazioni narrative e visive, lascia spazio a ben altro. Superati un rifacimento alcolico della famosa scena della palla di neve che cade dalla mano di Kane, un riferimento alla sfuriata finale in seguito all’abbandono e divorzio con Susan e qualche altro momento, la lavorazione di Quarto potere e la lotta per la sua autorialità passano complessivamente in secondo piano, a favore di un discorso sull’importanza e influenza politica e sociale della narrazione e del racconto per immagini e di un excursus sulla vita di un uomo invisibile, sempre all’ombra degli altri (e del successo), bevitore incallito tanto quanto il suo amore per il gioco d’azzardo, vittima dei magnati e degli eventi, una “scimmia che suona l’organo” che vede, nel debutto di un giovane e (col senno di poi) talentuoso regista, la possibilità di togliersi qualche sassolino dalla scarpa.
Tra dialoghi appuntiti e graffianti, monologhi dallo spirito quasi teatrale intrisi nel vetriolo ed una sottile linea ironica e talvolta grottesca che trasforma alcune sequenze in frammenti fatti e finiti di un film comico, Mank racconta la convalescente fase di scrittura del copione del capolavoro immortale per antonomasia, ispirato a fatti dell’autobiografia dello stesso Mankiewicz, il quale, dietro una giusta e accorata motivazione, sferra un attacco provocatorio e dissacrante contro tutto ciò che, fondamentalmente, costituisce la sua vita. L’ipocrisia di tycoons come Louis B. Mayer, incontrastato e dispotico capo della MGM, la freddezza e spietatezza del produttore Irving Thalberg, un altro enfant prodige, un’elezione decisa da un cinegiornale basato su una costruzione a tavolino, un suicidio: in poche parole, la visione di una Hollywood venduta, per l’appunto, come fabbrica dei sogni che si rivela essere invece un autentico circo degli orrori, fatto di “scimmie” e “suonatori di organetto”, di maschere, ombre e finzione su e dietro lo schermo, miscelata ad alcuni tratti di biografia di William Randolph Hearst (su cui è ricalcata la figura fittizia di Charles Foster Kane in Quarto potere), diventa così la colonna portante di una delle opere cinematografiche più importanti di sempre. Opera, quest’ultima, che lancerà nell’Olimpo della Settima Arte la figura di Orson Welles, qui rappresentato e descritto come un “antagonista col cappello nero”; come la naturale prosecuzione di quello stesso ideale di Hollywood approfittatrice e fasulla sotto diversi aspetti.
Con Mank, David Fincher dà vita ad un autentico paradosso temporale fatto a pellicola. Difatti, pur decentralizzando tutto ciò che riguarda il rapporto tra il nostro Herman e Welles, l’ombra di quest’ultimo e della sua pellicola sono sempre presenti, a partire dalla scelta del bianco e nero fino allo sfruttamento della profondità di campo per fini atmosferici e ad alcune tematiche specifiche. Se ben ci pensate, Mank e Citizen Kane trattano entrambi i temi della finzione e ipocrisia dei magnati e del (quarto) potere dei media, questi ultimi quasi sempre gestiti proprio da queste stesse figure influenti e benestanti. E qui sta il paradosso, in quanto nel 1941 (anno di uscita di Kane) venne lasciato intendere che questa dissertazione tematica fosse opera primaria di Welles - aiutato nel processo di scrittura da Mankiewicz. Oggi, invece, veniamo a sapere che la quasi totalità di essa è attribuibile allo stesso Mank e che, senza la sua esperienza ravvicinata con il mondo delle major e la cerchia privata di Randolph Hearst e un suo momento di massima lucidità e presa di coscienza [lo sceneggiatore arriverà a dire ad un suo amico: “Mi sento sempre di più un topo in una trappola costruita da me e che riparo ogni volta che si forma un’apertura che mi permetterebbe di scappare”], il film di Welles non sarebbe mai esistito o, perlomeno, non sarebbe esistito così come lo conosciamo oggi. Pertanto, una creatura filmica (Mank) venuta dopo un’altra ben più famosa e nota (Quarto potere), ma che racconta un qualcosa che è avvenuto molto prima di quest’ultima (perché frutto dell’esperienza di Mankiewicz), legittima e stravolge completamente la stessa essenza e percezione dell’opera cinematografica d’origine (Quarto potere) che è contemporaneamente ispirazione e frutto. Per semplificare, Mank (dal punto di vista fotografico, citazionista e della stessa struttura narrativa) non esisterebbe senza Quarto potere (e senza il suo spirito innovativo e il suo successo), ma, al contempo, Quarto potere non esisterebbe senza (gli eventi narrati in) Mank.
Questo gioco di passato e presente che si completano e convalidano a vicenda - dando vita anche ad un discorso e possibile confronto della Hollywood di oggi rispetto a quella di ieri - secondo noi, è il fulcro vero e proprio della creatura filmica di Fincher. Interpretativamente colonizzato da un Gary Oldman immenso che troneggia su un cast di eccellenti volti attoriali, Mank è il biglietto andata e ritorno (magari con un paio di statuette?) di Netflix per la prossima edizione degli Academy Awards. Una pellicola indubbiamente complessa che necessita di un paio di visioni per essere colta al meglio, ma che, appunto in questa sua raffinatezza e sofisticazione, trova anche il suo elisir di lunga vita. Come ribadito all’interno del film, “non è possibile acquisire l'intera vita di un uomo in due ore. Tutto quello che puoi sperare è lasciarne un’impressione” e proprio questo, a grandi linee, è il lavoro compiuto da Fincher (e da Welles prima di lui) in Mank, un’opera che farà parlare di sé e che, con il passare del tempo, si convertirà di sicuro in un piccolo cult.