TITOLO ORIGINALE: Mindhunter
USCITA ITALIA: 16 agosto 2019
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
GENERE: thriller, drammatico
N. EPISODI: 9
DURATA MEDIA: 34-77 min
La serie creata e prodotta dal talento thriller David Fincher, alza l’asticella qualità con la sua seconda stagione, presentando una tensione ed atmosfera dark degne delle migliori produzioni hollywoodiane
La stagione estiva in materia di serie TV, quest’anno, è stata caratterizzata dal ritorno sullo schermo, con nuove stagioni, di due serie molto popolari: La Casa di Carta e Tredici con le rispettive terze stagioni. Purtroppo la terza stagione o, per meglio dire, parte de La Casa di Carta è ancora nella mia watchlist, quindi non posso espormi. Per quanto riguarda, invece, Tredici, la sua terza stagione è stata, semplicemente, un completo fiasco. Serviva, quindi, qualcosa per risollevare la situazione disastrosa, per quanto concerneva le serie Netflix di agosto. Beh, quel qualcosa è finalmente arrivato. Sto parlando della seconda stagione di Mindhunter. Basata sull’omonimo libro scritto da Mark Olshaker e John E. Douglas, la serie prodotta, a parer mio, dal genio del thriller contemporaneo, David Fincher (Seven, Fight Club, Zodiac, L’amore bugiardo), mi aveva completamente stregato fin dalla prima stagione con la sua atmosfera dark e il suo clima di tensione costante. Inoltre, il soggetto della serie è una delle cose più coinvolgenti ed interessanti nel panorama attuale delle serie TV. La prima stagione confermava, infatti, il genio di Fincher nella trattazione del genere thriller e la potenza visiva e cinematografica, apportata dal tema dello studio dei serial killer. Poco meno di due anni dopo la messa in onda dei primi 10 episodi della serie, sbarca su Netflix la seconda stagione. Posso dire, con assoluta certezza, che il secondo round di episodi di Mindhunter è uno dei prodotti più belli che io abbia visto quest’anno in ambito di serie TV. Tutti gli aspetti positivi della scorsa stagione vengono confermati ed ulteriormente potenziati dalla presenza di serial killer ancora più noti ed inquietanti e da un paio di storyline veramente ben scritte e narrativamente intriganti. La seconda stagione di Mindhunter è un prodotto televisivo molto vicino alla perfezione, in cui tutto viene calibrato e dosato per regalare un mix di emozioni unico.
La seconda stagione di Mindhunter continua, almeno nelle prime puntate, il percorso già tracciato dagli episodi usciti nel 2017. Gli agenti dell’FBI Holden Ford e Bill Tench, appartenenti all’unità di scienza comportamentale, e la dottoressa Wendy Carr proseguono la loro analisi sui serial killer, intervistando assassini violenti e psicologicamente disturbati, in giro per gli Stati Uniti. Questa volta, però, non saranno lasciati da soli. I nostri “eroi” riceveranno, infatti, un supporto maggiore con il cambio della guardia nelle alte sfere di Quantico. Gli agenti saluteranno il vecchio capo, Shepard, molto restio alla creazione di un’unita di studio di assassini; e daranno il benvenuto alla nuova guida, Ted Gunn, proveniente dagli uffici di Washington DC. Quest’ultimo darà man forte all’unita di Holden e soci e vorrà trarre più consensi e popolarità possibile da quest’analisi della mente dei serial killer. Ford e Tench si ritroveranno, però, ben presto invischiati in un caso di sparizione ed omicidio di bambini ad Atlanta e dovranno utilizzare il frutto dei propri studi ed indagini per catturare l’omicida e far fare bella figura al Bureau. Non mancano, inoltre, i problemi personali e familiari a complicare il quadro!
Fincher, oltre che produttore esecutivo della serie, dirige anche alcuni episodi (per essere precisi, i primi tre). Così come nella scorsa stagione, la regia (sia di Fincher che degli altri due registi impegnati), come tutto il resto del comparto tecnico, raggiunge livelli cinematografici. Claustrofobica, ansiogena, angosciante, noir, dark, pulita, clinica. La regia porta, sul piatto di Mindhunter, un elemento fondamentale per la costruzione di un’atmosfera e un clima generale veramente unici e molto rari nel campo delle serie TV – fatta eccezione per la meravigliosa True Detective. Ecco, perché, secondo me, Mindhunter non è altro che un film di Fincher molto allungato e diluito. Niente più, niente meno. A questa perfezione registica si unisce una fotografia molto simile a quella di Gone Girl o di True Detective: molto spenta, molto offuscata, fredda e cupa. Semplicemente perfetta. Anche solo con le scene iniziali, riguardanti il grande killer che diventerà protagonista della prossima, se non prossime, stagioni – veramente intriganti, misteriose, inquietanti e creepy – arrivando, poi, alla sigla, la serie costruisce un’atmosfera perfetta e mette addosso allo spettatore un senso di ansia, misto a timore ed inquietudine. Una volta iniziata, Mindhunter ti rapisce e ti tiene attaccato allo schermo fino alla fine.
Oltre al comparto tecnico, la vera forza di Mindhunter sono il soggetto e la sceneggiatura. L’argomento dello studio e dell’indagine nella mente malata dei serial killer, già da sé, presenta una potenziale infinito, perché vi possono essere migliaia di possibilità per quanto riguarda costruzione di dialoghi, sequenze e tensione. Ogni singola intervista che Holden e Bill fanno, in questa seconda stagione – così come in quella precedente -, rapisce lo spettatore grazie alle ottime interpretazioni, alla scrittura dei dialoghi e alla suspense tagliente e sul filo del rasoio. Allo stesso modo, una volta che questi escono dalle carceri dove conducono i vari interrogatori, il ritmo non cala, anzi si mantiene costante e, molte volte, tende a salire ancora di più. Vengono presentate situazioni personali e familiari, riguardanti i vari personaggi, che aumentano ancora di più la curiosità e l’attenzione dello spettatore. La seconda stagione di Mindhunter potrebbe essere divisa in due parti nette. I primi episodi possono essere visti, infatti, come una sorta di palestra, di riscaldamento, per quello che verrà negli episodi successivi, ma anche in futuro (visto che l’obiettivo principale, in queste puntate, è quello di scoprire l’identità di un nascente serial killer, BTK, che, secondo me, sarà il villain principale nel futuro della serie). Se questi episodi iniziali servono a far rientrare lo spettatore nel meccanismo e nell’atmosfera di Mindhunter; gli altri raccontano una vera e propria indagine sul campo. Gli autori pescano un fatto di cronaca abbastanza popolare negli Stati Uniti: la vicenda del mostro di Atlanta. Mindhunter – dall’episodio sei in poi – cambia completamente stile e ritmo. Diventa una serie nuova. Si passa all’azione poliziesca nuda e cruda, al lavoro sul campo, con l’applicazione dei risultati provenienti dalle varie sedute con i killer. La congiunzione delle due diverse forme della serie provoca una vera e propria svolta della stagione. Si racconta, quindi, per filo e per segno, la caccia al serial killer pedofilo che ha terrorizzato la popolazione afroamericana della città dal 1979 al 1981.
Un altro grande punto di forza di Mindhunter, come serie in generale, è, senza dubbio, la qualità delle interpretazioni. A partire dai protagonisti, arrivando, successivamente, ai celebri serial killer e criminali che si alternano su schermo, le interpretazioni sono tutte ottime e profondamente ispirate. La bravura da parte di tutto il cast è uno dei fattori principali che mi spingono ad affermare che Mindhunter paia, sempre più, un film di Fincher per il piccolo schermo. Oltre alle ottime prove attoriali di Jonathan Groff, Holt McCallany e Anna Torv, in molte sequenze, a rubare la scena sono proprio loro. I serial killer. Ciò che colpisce di questi ultimi, a parte la bravura intrinseca degli attori, è la somiglianza quasi pedissequa, supportata, in gran parte, da un comparto di trucco e parrucco di grande qualità e cura. Tex Watson, David “il figlio di Sam” Berkowitz, Paul Bateson, William “Junior” Pierce. Queste sono solo alcune delle tante figure di killer seriali trasposte sul piccolo schermo. Arriviamo, poi, alla presenza più attesa ed anticipata di tutta questa seconda stagione. Charles Manson. Interpretato da un meraviglioso e spiccicato Damon Herriman, il Manson di Mindhunter rasenta un livello di perfezione estetica e formale. Herriman si trasforma completamente in Manson, facendo proprie le movenze, il modo di parlare (per chi lo guarderà in lingua originale), la psicologia e il pensiero. Così facendo, con soltanto la sua bravura attoriale, Herriman regala allo spettatore una delle scene più tese, angoscianti ed inquietanti di tutta la serie. L’entrata nel carcere e il colloquio di Holden e Bill con Charles Manson sembra una vera e propria discesa all’inferno. L’intervista dura circa venti minuti, ma l’atmosfera e il clima di tensione che si vengono a creare la fanno sembrare una cosa di cinque minuti. Una sequenza veramente intensa sia dal punto di vista della sceneggiatura che della regia e delle interpretazioni.
Quasi al pari dello studio dei serial killer e della caccia ai criminali, vedere come il lavoro dei vari agenti e non del FBI si ripercuote sulle loro vite personali è uno degli elementi più interessanti dell’intera serie. In particolare, l’agente Tench vivrà una questione familiare molto spinosa che ricorda moltissimo la genesi di molti dei serial killer che lui stesso analizza ed interroga. Holden, all’interno di questa seconda stagione, verrà risucchiato, ancora di più, nell’attività investigativa e della sua vita personale si vedrà molto poco. In effetti, in questi nove episodi, manca un’introspezione maggiore del suo personaggio, come avveniva nella precedente stagione della serie e, in più, viene introdotta una questione, per quanto riguarda il suo stato di salute mentale e fisico, che viene, però, dilapidata quasi subito (già dal quarto episodio). La dottoressa Wendy Carr rappresenta un po’ l’outsider, il civile della situazione, essendo lei una comune dottoressa e non un’agente del FBI. In questa stagione, vivrà un storyline secondaria molto interessante che, però, alla fine dei conti, non porterà a nulla di nuovo concretamente, se non un paio di cambi nel comportamento del personaggio. Per il resto, il suo personaggio viene, forse, un po’ troppo oscurato dall’enorme spazio che viene lasciato alla vicenda di Atlanta e risulta, una volta finita la stagione, lasciato sullo sfondo, come se fosse una figura minore.
Intensa, dark, sporca, tesa, ansiogena. La seconda stagione di Mindhunter conferma le aspettative, dimostrando di essere, senza dubbio, uno dei migliori prodotti seriali di quest’estate 2019 e di quest’anno, in generale. Colpi di scena inaspettati e potenti, una regia e fotografia cinematografiche, una colonna sonora d’atmosfera, un finale che lascia desolazione e sconforto nel cuore dello spettatore, dialoghi ben scritti e un dosaggio nei contenuti e nel proseguimento della narrazione completano una serie che, già sulla carta, presenta un potenziale infinito, visto il crescente interesse, negli ultimi anni, nei confronti di psicologia, serial killer e prodotti crime. Il background di ogni singolo criminale e i retroscena riguardanti le deduzioni, le analisi e lo studio di questi generano, già di per sé, un interesse ed un appeal nei confronti del pubblico, di tutto rispetto. La serie prodotta e creata dalla mente geniale e tenebrosa di David Fincher riesce, con questa seconda serie di episodi, a superarsi e migliorarsi, arrivando quasi alla perfezione e regalando un pacchetto di emozioni contrastanti ed uniche per quanto riguarda il panorama serie TV odierno. Mindhunter colpisce e sciocca mediante la sola potenza della scrittura e dei dialoghi e costruisce un clima di tensione unico in cui non si riesce più a capire chi sia buono e chi malvagio.