TITOLO ORIGINALE: Citizen Kane
USCITA ITALIA: 19 gennaio 1949
USCITA USA: 1 maggio 1941
REGIA: Orson Welles
SCENEGGIATURA: Orson Welles, Herman J. Mankiewicz
GENERE: drammatico
PREMI: OSCAR alla MIGLIORE SCENEGGIATURA ORIGINALE
La quasi-biografia di Charles Foster Kane, magnate della stampa, collezionista per diletto, oratore abile e accorto, padrone di una tenuta regale, nient'altro che la rappresentazione in carne e ossa dell'American way of life. Cosa sarebbe il cinema moderno e contemporaneo senza Quarto potere? Questa è la domanda a cui cercheremo di trovare risposta in questa analisi/recensione del capolavoro datato 1941 di Orson Welles. Opera prima di un Welles venticinquenne, la pellicola è testimone e depositaria di un ricettacolo strabiliante di innovazioni tecniche e narrative, ancor oggi studiate dagli addetti ai lavori. Profondità di campo, frammentazione del racconto, un nuovo status della macchina da presa, pianosequenza, ritmo sostenuto, un Orson Welles impegnato in veste di produttore, regista, sceneggiatore e attore protagonista: Quarto potere è di certo uno dei film migliori della storia, nonché il più importante ai fini di sviluppo e grammatica.
1° maggio 1941. Nelle sale statunitensi, fa il suo debutto l’opera prima, scritta, diretta, prodotta e interpretata da un giovane ragazzo di venticinque anni, noto prima d’allora soltanto per qualche programma radiofonico e una folgorante carriera a Broadway, in qualità di attore e regista. Incompreso, troppo rivoluzionario, boicottato, stroncato, definito “ridondante” e “barocco” dalla critica europea, Quarto potere, questo il nome del film, fu un relativo flop sia tra gli addetti ai lavori (anche se vi furono ugualmente numerose lodi), sia a livello di pubblico. Oggi, 80 anni dopo, il debutto di Welles è unanimemente considerato come il miglior film statunitense di tutti i tempi, un capolavoro, l’opera fondativa della cinematografia e dell’arte e tecnica cinematografica moderna.
Solo una persona può decidere il mio destino, e quella persona sono io.
Charles Foster Kane (Orson Welles)
Ma facciamo un salto indietro nel tempo e diamo inizio ad un piccolo flashback (in pieno stile Quarto potere), tornando al 21 agosto 1939. Un’ascesa teatrale sorprendente e un piccolo scandalo che coinvolse il programma radiofonico di cui era conduttore, fece arrivare il nome di Welles fino alle bocche dei capoccioni della RKO Pictures - ai tempi, una delle cinque più importanti majors di Hollywood. Questa propose al giovane un contratto vantaggiosissimo, estremamente invidiato dai colleghi cineasti, che prevedeva lo sviluppo di tre pellicole, su cui questi avrebbe avuto assolute libertà artistiche e produttive (qualcosa di incredibilmente inconsueto per l’epoca). In seguito al naufragio di un adattamento di Cuore di tenebra di Conrad e di un film sul detective Nigel Strangeways, creato dalla penna di Cecil Day Lewis, Welles optò non tanto per una trasposizione, quanto per la messa in scena di un soggetto originale, liberamente ispirato alla biografia del magnate della stampa realmente esistente William Randolph Hearst. Nel processo di stesura della sceneggiatura, Welles assunse lo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz - il quale avrebbe rivendicato successivamente la completa paternità dell’opera [ma questa è un’altra storia; una storia di cui presto avremo modo di discutere, vista l’uscita di Mank (2020) di David Fincher] - e, dopo tre mesi di lavoro, nacque la prima bozza del film, dal titolo Welles 1, poi trasformato in American e infine in Citizen Kane (questo il titolo originale di Quarto potere).
Ma chi è questo Cittadino Kane? Cosa avrà mai fatto per meritarsi tanto interesse e successo cinematografico? In cosa questi somiglia o differisce da quel William Randolph Hearst di partenza? Come forse saprete, Quarto potere non è altro che la quasi-biografia di Charles Foster Kane (Orson Welles), ricco e influente magnate della stampa che, con la sua intraprendenza, il suo coraggio e la sua fortuna (ovviamente), è riuscito negli anni a dare vita ad un vero e proprio impero. Collezionista solo per il gusto di possedere, oratore abile e accorto, marito e politico fallimentare, padrone di una tenuta equiparabile ad un autentico castello; pur con i suoi difetti, Kane è la rappresentazione in carne e ossa dell’American dream, dell’American way of life; una persona che ha avuto tutto quello che voleva e poteva dalla vita e da tutti coloro che lo circondano e circondavano. O almeno, questo è quello che lasciano intendere i vari cinegiornali prodotti in onore della sua morte. Giusto, non ve lo avevamo detto: all’apertura del sipario, Quarto potere ci mostra un Kane solo e affranto sul suo letto di morte. Una parola, o meglio un nome, coincide con il suo ultimo respiro: Rosabella (in originale, Rosebud). Chi sarà mai questa Rosabella? A chi mai apparterrà questo nome, così importante per Charles da essere la sua ultima parola prima di morire; il suo testamento? Nessuno riesce a spiegarselo. Ciò nonostante, la risposta al quesito sembra essere l’unica cosa che conta, di cui l’opinione pubblica si interessi e, conseguentemente, su cui la stampa punta tutte le proprie forze. E’ questa la “missione” del giornalista Jerry Thompson, il quale, per ordine del direttore del suo cinegiornale, dovrà scoprire l’identità di Rosabella; la verità. Inizia così una lunghissima serie di interviste (e contemporaneamente di flashback) da parte di Thompson alla cerchia intima di Kane - tra ex-mogli, collaboratori, dipendenti, servitori -, volta a far luce su un mistero destinato a rimanere per sempre insoluto. O forse no?
Dopo numerose pressioni da parte dell’esecutivo RKO, un fulmineo stravolgimento di cast e un attento studio, da parte di Welles, di film come Il gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene e Ombre rosse (1939) di John Ford; e di registi come Fritz Lang, King Vidor, Frank Capra e Jean Renoir, le riprese di Quarto potere entrarono nel vivo, tra turni di lavoro estenuanti, incidenti sul set e lamentele sui costi elevatissimi della produzione. Problematiche e ostacoli, questi ultimi, dovuti solamente alle ambizioni e innovazioni tecniche volute dallo stesso regista. Infatti, come affermato sopra, Quarto potere non è un semplice dramma biografico, bensì uno dei film che più ha rivoluzionato il modo di fare cinema, dando il via a ciò che tutti noi conosciamo come “cinema moderno”. L’opera, oltre ad essere forse il più eclatante esempio di autorialità cinematografica statunitense [non certo scontato in una realtà produttiva che vedeva la major al vertice e l’artista dipendente dai suoi voleri e pretese], è anche la pellicola che più ha sfruttato le possibilità rappresentative della macchina da presa alias lo sguardo del regista. A soli venticinque anni, Welles è già un maestro, nonché l’innovatore che, pur nel suo lasciarsi ispirare dai capolavori del passato, non si accontenta, intraprendendo - con la sola compagnia di idee chiare e precise e di una cinepresa a documentare il tutto - viaggi mai tentati prima e scoperchiando il “vaso di Pandora” della grammatica cinematografica. Tale chiarezza e precisione d’intenti è ben difesa da una pulizia sbalorditiva delle inquadrature, che, ancor oggi, appaiono suggestive ed eloquenti agli occhi del pubblico.
Quadri ermetici (al contrario di Leland, amico e collaboratore di Kane) e criptici sono la base fondante un comparto tecnico-visivo, atto a trasporre su schermo un racconto enigmatico, caotico e precursore - vista l’acuta frammentazione di racconto e suo sviluppo - di quella che sarà la narrazione cinematografica post-moderna (indicativo il ricorso a strutture come il flashback a fini tensivi e intriganti). L’indagine sulla personalità e sulla vita lontano dai riflettori di Charles Foster Kane diventa così un vero e proprio rompicapo [non a caso, all’interno del film, torna ciclicamente l’elemento del puzzle - rompicapo per eccellenza] che lo spettatore dovrà ricomporre, al fine di ottenerne un profilo quanto più esauriente e dettagliato. Tuttavia, a differenza del cinema narrativo classico, questa risposta non è assolta affatto dalla narrazione tradizionale e superficiale, anzi, è da ritrovare ben al di sotto; in quello strato di narrazione indiretta e inconscia coincidente con le svariate scelte registiche - prospettiche, focali, ottiche, gerarchiche, ambientali, figurative - con cui Welles arricchisce e stravolge la propria messa in scena. Il fatto che la verità non passi attraverso le corde vocali e le azioni dei personaggi - come può e poteva avvenire, per esempio, in un giallo o in un noir -, ma mediante un determinato e personale modo di rappresentare la vicenda, è, già di per sé, una grandissima alterazione dello status quo, per quanto riguarda il cinema classico hollywoodiano. Se a tutto ciò aggiungiamo l’inaugurazione di un nuovo stile registico, iniziamo a comprendere dunque il perché di tanto clamore dietro Quarto potere.
Potremmo compilare intere pagine, parlando ed esaminando, inquadratura per inquadratura, il lavoro registico di Welles - svolto e sostenuto dall’assistenza ed esperienza di un direttore della fotografia del calibro di Gregg Toland. Tuttavia, vorremmo focalizzarci su alcune scene e sequenze, per noi, emblematiche e sintomatiche di cotanta caparbietà e ingegno. Prima di tutto però, è bene presentare il cambiamento più sovversivo apportato dal regista rispetto ai canoni grammaticali della Hollywood della golden age: la profondità di campo [una tecnica che permette a tutto ciò che appare nell’inquadratura, sia questo in primo o secondo piano, di essere costantemente a fuoco]. Per farvi capire meglio, la profondità di campo stava al cinema classico come le streghe stavano all’Inquisizione; le case di produzione praticamente la bandirono, dal momento che si riteneva distogliesse l’attenzione del pubblico rispetto a quanto avvenente e rappresentato in primo piano (l’idea di una “leggibilità immediata”). Con l’aiuto del soprannominato Toland e grazie a speciali lenti e ad una notevole illuminazione del set, Welles prese spunto da registi come Von Stroheim e Ford, dando vita a sequenze in cui la profondità di campo permette contrasti metaforici e simbolici, utili ai fini di quella stessa comprensione subliminale citata poco sopra. Conclusa questa doverosa divagazione, arriviamo dunque ad elencare e illustrare queste fantomatiche sequenze, testimoni e portatrici di innovazione e magniloquenza.
Prima fra queste, il pianosequenza incentrato sul racconto dell’infanzia di Kane. Il frammento in essere si compone di due narrazioni contemporanee e in loco: in primo piano, all’interno dell’abitazione dei Kane, i genitori acconsentono all’affidamento del figlio nelle mani del banchiere Walter Thatcher, mentre, sullo sfondo, all’esterno, Welles va a rappresentare la dimensione dell’innocenza e del gioco, riquadrata da una finestra - quasi a significare la limitatezza dell’infanzia come periodo di vita, prima nello spazio della ripresa, poi nel tempo - aperta [vi è quindi comunicabilità tra il dentro e il fuori; tra queste due dimensioni]. Unitamente a quella della divisione spaziale, questa scissione rappresentativa in due universi - quello degli adulti e quello del bambino - può offrire anche una seconda chiave di lettura: quella riguardante l’instabilità del nucleo familiare. Come visibile invero, oltre al distacco fisico tra i coniugi, tale problematica è ben sintetizzata dal gesto di apertura/chiusura di quella stessa finestra che riquadra e contiene la dimensione infantile: seppur inizialmente restio, il padre, appena compresa la cifra che percepirà in seguito all’adozione di Charles, fa per chiuderla - recidendo così i legami con il figlio. Interviene però la madre che prontamente la riapre - lasciando aperta unitamente anche la via del suo cuore, dell’affetto materno nei confronti del piccolo; concetto successivamente ribadito da quella stretta che gli concede prima di dirgli addio.
Un altro momento entrato di diritto in ogni libro di storia del cinema e di analisi del film è quello del comizio tenuto da Kane in occasione della sua candidatura come governatore di New York, depositario, a sua volta, di una contraddizione alla base del racconto dans le rond di Quarto potere: il Kane vero e proprio è minuscolo e “umano” (è un “Citizen”, un cittadino), se paragonato a ciò che viene lasciato trasparire e rappresentato dai media, dalla comunicazione, dai giornali o, in questo caso, da un gigantesco manifesto posto alle sue spalle sul palcoscenico - volto a simboleggiare una grandezza purtroppo costruita e fallace. In secondo luogo, questo contrasto metaforico tra figura e ambiente, rappresentante fondamentalmente una dialettica di dimensioni, lascia spazio inoltre ad un ulteriore scontro di opposti, ossia quello tra naturale e artificiale (quest’ultimo inteso nel senso di una politica fatta di immagini simulacro, di volontà di piacere e persuadere mediante una comunicazione visiva che ingigantisca e spettacolarizzi quanto sostenuto dal politicante). Tale concetto di artificiosità è ripreso poi, all’interno della stessa sequenza, da un campo lungo che mostra allo spettatore la folla accorsa per assistere al comizio. Infatti, quelle che vediamo non sono tutte comparse effettive, bensì una serie di fondali dipinti, resi in modo realistico e integrati con gli astanti in carne ed ossa grazie al lavoro fotografico di Toland. L’artificialità e finzione, simboleggiate tanto dal manifesto quanto dalle stesse parole di Kane, vengono quindi confermate da un’artificialità scenografica.
Kane è senza dubbio un uomo di successo, un self-made man, una persona che, nella sua vita, ha avuto tutto quello che poteva desiderare… all’infuori di un amore stabile e caloroso. Sposatosi due volte, divorziato altrettante; il magnate vede le donne essenzialmente allo stesso livello delle innumerevoli opere d’arte e paccottiglie che colleziona e con cui riempie il proprio maniero (che, ciò nonostante, si mostra vacuo e infelice, allo stesso modo della sua condizione umana - ecco che torna la relazione figura/ambientazione). Esemplare a tal proposito, la frase pronunciata dallo stesso Kane nei confronti di Emily, la sua prima moglie: “il tuo unico avversario (amoroso) è l’Inquirer (il giornale che dirige)”. Questo rapporto ambiguo - talvolta realmente affettuoso, spesso ridotto ad un mero esaudimento di desideri sotto forma di regali - nei riguardi del genere femminile (nient’altro che proiezioni della figura materna) viene condensato da Welles nella sequenza concernente la convivenza tra Mr. e Mrs. Kane (la prima), costituita da un montaggio ellittico ed episodico di momenti, scanditi da un inserto (apparentemente) extra-diegetico, che, stacco dopo stacco, va a delineare la rottura del rapporto che porterà poi alla definitiva separazione della coppia. Unitamente alle loro parole o silenzi, questo pensiero è sottolineato da un processo di distanziamento spaziale dei due, seduti al tavolo della colazione (nel primo frammento, sono a qualche centimetro di distanza; nell’ultimo, sono agli estremi). Ancora una volta, l’evidenziazione di un dramma non è tanto riservata ai dialoghi, ma erogata mediante la rappresentazione visiva di un vero e proprio allontanamento.
Riprendendo l’idea dello scenario che diviene metafora e riflesso della condizione interiore dei personaggi, è d’obbligo citare un’altra sequenza molto celebre, in cui questa correlazione è alla base dell’intera costruzione registica. La perdita delle elezioni distrettuali - provocata e favorita dalla scoperta della relazione extra-coniugale di Kane con Susan (colei che diventerà poi la sua seconda moglie), pubblicata e rese nota dai giornali grazie alla soffiata del rivale politico James Gettys - rappresenta per il magnate l’inizio della fine. Questa sua decadenza è perfettamente incorniciata ed espressa dallo stato della redazione dell’Inquirer che, cosparsa di manifesti elettorali, striscioni e stelle filanti, appare trascurata, sporca, disordinata, sciatta, così come il suo direttore subito dopo il deludente risultato elettorale. Stato d’animo, quest’ultimo, amplificato dall’angolo di ripresa scelto (dal basso verso l’alto) che, dando vita ad un effetto ottico dal duplice risultato [esso slancia e rende imponente la figura umana, ma, contemporaneamente, la fa sembrare schiacciata dal soffitto], comporta e trasmette una sensazione di oppressione e costrizione. Questa peculiarità e anomalia nella scelta del punto-macchina [utilizzata perennemente durante il corso del racconto per esprimere proprio quell’idea di impotenza ed incontenibilità spaziale di una figura così potente come quella di Kane] è preceduta e determinata sia da una richiesta specifica e dispendiosa, che da un effettivo colpo di genio del regista. Questi pretese infatti che le scenografie del film venissero predisposte di soffitto [nel cinema classico, per questioni di costi e di tradizione registica - nessuno girava mai dal basso verso l’alto - i soffitti erano ritenuti superflui e ci si limitava alle sole pareti] e che quest’ultimo venisse leggermente abbassato, così da incentivare ancor più quell’idea di pressione tensiva. Invece, nella realizzazione vera e propria della sequenza, Welles fece realizzare una botola nel pavimento, così da mettere la cinepresa il più in basso possibile.
Nel finale, la macchina da presa (che è, ricordiamo, l’occhio del regista) rende lo spettatore testimone elitario ed esclusivo della scoperta dell’identità di Rosabella. Non una donna, nemmeno una persona, bensì lo stesso slittino con cui stava giocando Kane il giorno in cui i genitori lo affidarono a Thatcher. La rappresentazione di questa scoperta origina due possibili scenari: da un lato, un ritratto ottimista della personalità di Kane, ossia quella di un uomo dall’animo freddo e insensibile [lo slittino si usa sulla neve, quando è freddo, mentre l’oggetto che gli riporta alla mente questo slittino e questo suo passato è una palla di neve] che, soltanto in punto di morte, ritrova quella felicità e quel tepore umano da tempo ignorati [la slitta, ritenuta inutile, viene bruciata e avvolta dalle fiamme; l’oggetto della freddezza ritrova una fonte di calore]; d’altro canto, possiamo trarre invece un’interpretazione pessimistica, leggendo questo distratto sbarazzarsi di Rosabella via fornace come l’annientamento novecentesco di ogni tipo di valore (basti pensare che il film uscì nel vivo della seconda guerra mondiale). In ogni caso, una cosa è certa: lo slittino diventa simbolo totemico di una dimensione infantile che Kane ha perso forse fin troppo presto e che, sul letto di morte, si è risvegliata, riportandogli alla mente il ricordo di un tempo in cui gli bastava poco per essere felice. La crescita e l’ascesa alla ricchezza e al potere hanno reso Kane una persona certo realizzata sul piano pratico, ma manchevole di felicità, di affetto, di calore umano. La sua attaccatura al piano materiale, al possesso svela l’interiorità di un uomo sempre alla ricerca di qualcosa - anche la più vana cianfrusaglia - solo per il gusto di riempire la propria casa e indirettamente dare un senso alla propria esistenza. Inutile dire che questa ricerca si rivelerà essere nient’altro che il palliativo per una vita essenzialmente vuota e incompleta. Ed è proprio qui che risiede il fulcro di Quarto potere che, attraverso il racconto della vita di un uomo ricco ma triste, offre una possibile risposta - sotto forma di critica - alla domanda “i soldi fanno la felicità?”.
Dunque, perché Quarto potere è il film più importante di sempre? Provocatoriamente perché, senza il genio e la visione di Welles, tutto il cinema dagli anni 40 in poi - incluso il cinema odierno - non sarebbe come noi lo conosciamo. Un’opera realmente immortale, colma di tematiche e riflessioni ancora attuali, citata, parodiata, omaggiata, messa a paragone e presa ad esempio da generazioni di registi: da Scorsese a Kubrick, da Ridley Scott a Michael Mann, dai fratelli Coen a Francis Ford Coppola, fino ad arrivare all’italianissimo Sergio Leone. Pianosequenza, profondità di campo, flashback, carrellata, panoramica, angolo olandese, distorsione, frammentazione del racconto, montaggio episodico, montaggio discontinuo: con Quarto potere, Orson Welles battezza e perfeziona un ricettacolo strabiliante di tecniche e stili registici e narrativi, dando vita ad una creatura filmica talmente all’avanguardia da destabilizzare - come spesso accade - gran parte del pubblico e della critica di allora, che la mal interpretarono, definirono noiosa o, peggio, boicottarono. In definitiva, malgrado Welles critichi e si dissoci aspramente dal personaggio che interpreta, è possibile notare una virtù in comune tra lui e Charles Foster Kane: senza l'intraprendenza del primo e vita scandalosa del secondo, questo capolavoro non avrebbe mai visto la luce e, insieme a lui, la storia del cinema moderno. Come sarebbe stata l’arte e tecnica cinematografica senza Quarto potere? Questo sì che è un enigma veramente insolubile!