TITOLO ORIGINALE: The Flash
USCITA ITALIA: 15 giugno 2023
USCITA USA: 16 giugno 2023
REGIA: Andy Muschietti
SCENEGGIATURA: Christina Hodson
CON: Ezra Miller, Michael Keaton, Ben Affleck, Michael Shannon, Ron Livingston, Sasha Calle, Maribel Verdú
GENERE: azione, fantascienza, fantastico, avventura
DURATA: 144 min
Insieme epigono di una gestione eufemisticamente problematica e nuovo inizio di un (si spera) più coordinato ed assennato progetto editoriale (sotto l'egida di James Gunn e Peter Safran), The Flash di Andy Muschietti è un film schizofrenico e bipolare, al cui interno convivono due approcci diversi alla materia supereroistica, il cui garante è la celebrazione dei 100 anni di Warner Bros. e di uno dei suoi brand più remunerativi e noti. Una pellicola sghemba, problematica, ma non abbastanza da perdere l'appoggio di una fetta del pubblico. Un guazzabuglio perso tra le sabbie del tempo. Un’agile sintesi ed un accurato ed acre testamento della finora totale débâcle del DC Extended Universe.
Ad un certo punto, in The Flash di Andy Muschietti (IT), si inizia a parlare di spazio-tempo, multiverso e teorie astrofisiche di fronte ad un abbondante piatto di spaghetti. Per quanto si tentino di applicare alla lettera le poche regole e i falsi miti che libri, fumetti e film ci insegnano del viaggio indietro o avanti nel tempo, alla fine tutto si riduce ad un piatto di spaghetti. Ossia ad un guazzabuglio di cui è impossibile ritrovare capo e coda, un caos informe e sfuggente da condire a piacimento, con salsa di pomodoro e formaggio.
Il multiverso è scompiglio, pasticcio, baraonda, maledizione, abbaglio e - azzardiamo - una, se non la principale ragione di declino, rovina e crisi del filone del cinecomics supereroistico, che ha già da tempo salutato i suoi apici massimi. Il multiverso ha portato il Marvel Cinematic Universe all’incertezza, alla perdita di aderenza e di controllo del proprio (una volta) precisissimo piano editoriale. Non potendo rovinare ulteriormente un progetto nato in ritardo, sulla scia di Iron Man e soci, che non ha mai realmente spiccato il volo, né convinto pienamente il pubblico; il multiverso - inteso più in termini nostalgici e drammaturgici, che non prettamente narrativi, seppur più chiaro ed istantaneo di quanto visto in Loki, Doctor Strange nel Multiverso della Follia ed Ant-Man & the Wasp: Quantumania - rovina pure quello che sarebbe dovuto essere un punto di svolta, uno spartiacque: l’epigono, l’ultimo esemplare di una gestione eufemisticamente problematica del brand DC al cinema, ed insieme un nuovo inizio per una conduzione ed uno sfruttamento transmediale (si spera) più coordinati, curati ed appetibili sotto l’egida di James Gunn e Peter Safran.
In verità, come appena scritto, i problemi di questa pellicola, dalla gestazione ormai decennale, risalgono a ben prima di questa massiccia penetrazione nell’immaginario cinefumettistico, e della persuasione che ha fatto sì che l’idea e le potenzialità sentimentali, revivalistiche e commerciali del multiverso apparissero quasi l’unica via possibile.
Problemi, come un copione che è passato di mano in mano fino ad arrivare a quelle di Christina Hodson (Bumblebee, Birds of Prey), visioni differenti di quello che The Flash avrebbe dovuto essere e raccontare, vari cambi alla direzione stessa della sezione DC di Warner Bros., senza contare tutte le magagne penali e ai gravi crimini legati alla persona di Ezra Miller, reduce da un periodo di forte instabilità mentale e seri disturbi psichici.
Ciò detto, se anche, nella valutazione ed analisi, non volessimo tenere in conto di tutto quanto accaduto in ambito extrafilmico (cosa di cui, invece, crediamo si debba parlare nel considerare un testo qualsiasi nella sua interezza e quale prodotto di un contesto sociale, culturale, storico ed industriale), ci pensa proprio il film a farcele tornare alla mente. Tutto il racconto e il discorso alla base di The Flash ruota invero attorno alla necessità di lasciar andare, una volta per tutte, il passato, al fatto che non tutti i problemi hanno una soluzione (Snyder?), a non farci definire da tutto ciò che di brutto e sbagliato ci è capitato nella vita, ma anche alle cicatrici che ci rendono chi siamo (a dirlo, è nientemeno che il lividissimo e grigissimo Bruce Wayne di Ben Affleck). Per non parlare di come, specie nella prima parte, si faccia spesso riferimento alla salute mentale del nostro Barry Allen.
Chiamatelo sottotesto intelligente o scelta (senza dubbio involontaria) di pessimo gusto, sta di fatto che instabile, volubile, se non proprio schizofrenico e bipolare sono forse i migliori aggettivi per definire il tentativo cinecomics di Andy Muschietti.
In The Flash sembrano perciò convivere due film diversi e totalmente antitetici l’un l’altro. Da un lato, abbiamo una origin story, un “atto primo”, di derivazione evidentemente marvelliana (ultima maniera), ma ciononostante ancor più (e sempre!) sopra le righe, ludica, farsesca, sregolata. Una pellicola dalla comicità persistente, sfrenata, incontinente, talora pure forzata, con risvolti weird e camp, un approccio cartoonesco, eccentrico, per non dire proprio animato alla materia filmica più fantasiosa, spettacolare, supereroistica. Un’anima, quest'ultima, che si rifà, pur solo all’inizio, fedelmente ed accoratamente alla matrice fumettistica. Che sembra quasi voler catturare il feticismo e lo spirito della lettura su carta, divertendosi inoltre col segno grafico e la sua enfasi ironica (si pensi alla comparsa del titolo).
Dall’altro fronte, c’è invece un canto del cigno (meno preponderante), un racconto di piena maturazione, un “atto terzo” che teoricamente dovrebbe prevedere una certa gravitas, un senso pieno del pathos e dell’epica, una drammaturgia ed un dilemma di portata shakespeariana, una piena consapevolezza del lirismo emotigeno del linguaggio e del mezzo cinematografico.
In mezzo a questi due mondi - riassunti (troppo) schematicamente dalle personalità e dall’interpretazione sdoppiata dei due Barry Allen, che, per un motivo ben preciso, arriveranno ad incontrarsi e a collaborare - c’è infine la celebrazione di Warner Bros. (d’altronde, sono passati 100 anni da quando è nata) e di uno dei suoi brand, insieme al Wizarding World, più celebri e remunerativi. La si intuisce, questa natura laudativa, ancor prima che dall’ipercitazionismo di proprietà intellettuali della major, dall’avvicendarsi dei vari marchi assunti da DC e dalla stessa Warner negli anni, ad apertura del film.
A fare da garante, insomma, per questi due mondi e modi d’intendere il racconto supereroistico, sono i pianeti del multiverso e del macrocosmo fumettistico, l’effetto nostalgia che parte dal già svelato ritorno di Michael Keaton nei panni del Batman fine anni ‘80 a firma Tim Burton, per finire poi con un travelling per alcuni elegiaco ed apoteotico, per altri (tra cui chi scrive) finto, sintetico, freddo, ridicolo, ai limiti della moralità (se non consideriamo la pigrizia con cui viene introdotto).
Detto ciò, la nostra percezione non può che descrivere, dunque, una pellicola sghemba, che presenta spunti effettivamente interessanti, ma li sviluppa con scelte discutibili, se non proprio incomprensibili (a partire dal formato, del tutto casuale), spesso abuliche e spudoratamente generiche, deformata - come lo sono, d’altronde, i volti e le espressioni urlanti di molti dei suoi personaggi - e senz’altro problematica. A tal punto che è quasi un miracolo che stia in piedi e risulti, in certi suoi excursus e momenti, addirittura gradevole, anzi possa addirittura ambire all’essere un facile crowd-pleaser.
A sua volta, però, tale gradevolezza sottostà e, alla fine di tutto, deve comunque rispondere a motivi, ragioni ed evidenze che sfidano non tanto la sospensione, quanto piuttosto la beffa dell’incredulità, del patto sotteso con lo spettatore, dei requisiti minimi e della decenza dell’esperienza cinematografica prettamente blockbuster.
Ed è proprio il caso di chiederselo: è possibile (e sano?) entusiasmarsi per così poco? Per un film che, al di là della coerenza interna e della mitologia che imprime (cosa che è forse l’ultimo dei suoi problemi), sottovaluta così tanto il proprio pubblico da credere di risolvere con una sfilata di morti viventi e fantasmi digitali, con un eccesso di antropofagia nostalgica, un racconto che va scemando e perde di mordente, di fascino filmico ed estetico e di ragion d’essere (sintomo di una gestazione multipla dello script), man mano che ci si avvicina allo scontro finale? C’è realmente da gioire per uno Spider-Man: No Way Home minore e, di fatto, meno audace, dirompente, addirittura meno storico per la tendenza, l’immaginario e il panorama cinematografico e culturale a cui appartiene?
Ed è davvero un peccato, poiché, come già anticipato sopra, le potenzialità ci sarebbero pure state. Per quel che è chiamato ad offrire, infatti, Ezra Miller propone un’interpretazione duplice e completa che testimonia una singolare, perturbante e (forse) spacciata versatilità e poliedricità.
Allo stesso tempo - tranne quando inizia a non importargli più niente delle sorti del suo personaggio e della pellicola -, Michael Keaton mette a disposizione una presenza scenica e fisica rara, una tensione protagonistica estremamente problematica sin dapprincipio (se si considera che stiamo parlando di un film su Flash), riportando a schermo e riottenendo, in un certo senso, quell’allure, quella scintilla negli occhi, quel bagliore sinistro, inquietante, brutale e insieme svagato, smargiasso, noncurante, quell’incantesimo che fece innamorare tutti allora e che continua a fare effetto anche oggi.
Pure Sasha Calle nei panni di Supergirl - copione permettendo - sa lasciare una buona impressione di sé e del suo personaggio in chi guarda. In più, malgrado non ottenga il giusto equilibrio di toni, estetiche e generi, Andy Muschietti dimostra una mano insospettabilmente salda e, bene o male, funzionale, per tutto ciò che riguarda la composizione e gestione delle sequenze d’azione. Nota a margine, infine, per la colonna sonora di Benjamin Wallfisch, uno degli elementi meglio collaudati dell'operazione.
Ciò nondimeno, si finisce irrimediabilmente per scontrarsi e schiantarsi una volta per tutte contro la contraddittorietà di un film che si riempie la bocca di aforismi, sentenze e frasi ad effetto sul dover lasciar andare il passato, non riconoscendo così la propria insolubile dipendenza dagli idoli di un passato remoto e glorioso in cui si poteva essere supereroi e non pedine di una scacchiera più ampia. Com’è, suo malgrado, (The) Flash, il quale appunto si rifugia, ritrova e conosce ciò che fu ed è stato, per non dover fare i conti con un futuro incerto, se non proprio impossibile, che non lo vedrà per protagonista o, ancora peggio, non lo vedrà affatto.
È allora un passato senza via di futuro quello in cui si muove e corre il proverbiale, fiacchissimo ed incostante racconto di Muschietti & co. Ma anche un presente dall’inaccettabile e, in un certo senso, deplorevole sapore di anacronismo. Il riferimento è alla trascuratezza di un prodotto da più di 250 milioni di dollari che riporta indietro le lancette dell’effettistica digitale ai primi anni 2000, agli acerbi, ma in fondo affabili esperimenti con la motion capture di Robert Zemeckis (da La leggenda di Beowulf a Polar Express), ai filmati di transizione di vecchi videogiochi.
In conclusione, sempre parlando di tempo, un ultimo errore fatale che pone il film di Muschietti nella solita, polverosa, ma in fondo comprovata retorica della “DC eterna ritardataria”, sta proprio nel suo tempismo cinematografico, nella sua data d’uscita. Più banalmente, nel suo venire (in quanto mix agrodolce, tra bizzarra anarchia e dramma intenso) più di un mese dopo rispetto ad un certo Guardiani della Galassia Vol. 3, ed immediatamente dietro una pellicola, Spider-Man: Across the Spider-Verse, che parla sì la sua stessa lingua ed affronta i suoi stessi argomenti, ma lo fa con un acume, una forza dirompente ed una visione piena di futuro, oltre ogni immaginazione.
Quell’immaginazione che manca a questo guazzabuglio perso tra le sabbie del tempo. Ad un brutto Ritorno al futuro, da cui non dipende e non dipenderà la salvezza di un universo che in lui trova un’agile sintesi ed un accurato ed acre testamento della sua totale débâcle.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.