TITOLO ORIGINALE: Loki
USCITA ITALIA: 9 giugno 2021
REGIA: Kate Herron
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: avventura, azione, fantascienza, fantastico, thriller
N. EPISODI: 6
DURATA MEDIA: 43-55 min
Dopo gli eventi di Avengers: Endgame, il Loki del 2012 viene catturato dalla TVA, un’organizzazione che esiste e opera al di fuori del regolare flusso del tempo, la cui missione è il monitoraggio e la correzione di anomalie e varianti temporali. Il Dio dell'Inganno è una di queste Varianti e, pertanto, l'agenzia gli propone un accordo. Per salvarsi dall'eliminazione, questi dovrà collaborare con l’agente Mobius per fermare un’altra Variante che sta dando filo da torcere all’organizzazione e nella cui cattura il suo aiuto è cruciale.
Terzo prodotto televisivo originale Marvel Studios e prima effettiva serie canonica del Marvel Cinematic Universe, Loki è uno show ambizioso, consapevole e, come i suoi predecessori, finalizzato a (ri)costruire una figura complessa ed interessantissima - Loki, per l'appunto - mai mostrata nel suo pieno potenziale all'interno delle pellicole. Ma anche uno dei prodotti Marvel in cui la parola e il suo scambio sono più significativi e dove (sovente) meglio sono adoperati per sviluppare e determinare il senso ultimo. Importanza, quest'ultima, che, laddove, per caratterizzazione o trattazione, costituisce una vera e propria manna dal cielo, al contrario, penalizza pesantemente la qualità (e l'utilità) del singolo episodio rispetto all'insieme e la componente fantascientifica, più che indispensabile per un serial supereroistico. Il tutto viene però risollevato in angolo da un casting azzeccatissimo, dalla potenza intrattenente del racconto e soprattutto dalla capacità dello show di farci riscoprire quelle atmosfere, quelle intuizioni e quegli apici di emotività che hanno fatto del Marvel Cinematic Universe il progetto storico che è tuttora.
L’odissea Marvel è giunta ad una svolta radicale e probabilmente ad un vero e proprio punto di non ritorno. O almeno questo è ciò che si percepisce dagli ultimi minuti, epici e monumentali (a livello di orizzonti), di Per tutti i tempi. Sempre, l’episodio conclusivo di Loki, terzo prodotto televisivo originale Marvel Studios (e Disney+) e prima effettiva serie [in quanto già rinnovata per una seconda stagione] canonica del Marvel Cinematic Universe. Protagonista indiscusso dello show, manco a dirlo, un villain(?), un antieroe(?) o, più comunemente, un personaggio più ambiguo di quanto i suoi innumerevoli soprannomi: Dio dell’Inganno (o degli Inganni, a vostra discrezione), delle malefatte, del Male, delle storie; lascino intendere.
Dopo aver assistito alla sua morte all’inizio di Avengers: Infinity War e averlo rivisto - vivo e vegeto, ma anche e soprattutto perfido ed inequivocabilmente cattivo - in un viaggio nel tempo/analessi di Endgame, il Loki di Tom Hiddleston torna a calcare le scene dell’universo marvelliano - seppur, questa volta, sul piccolo schermo - in un serial che non solo prende il via propria da quella specifica sequenza del quarto Avengers (ambientata, per l’appunto, durante gli eventi del primo, quindi in un diegetico 2012), ma che per di più pone il motivo del viaggio nel tempo al centro delle proprie vicende.
La prima domanda (delle tante che si porranno di fronte allo spettatore durante la visione della serie) a cui Loki risponde è: che fine ha fatto il Dio dopo essere riuscito ad agguantare il Tesseract in quel fantomatico flashback? La risposta è presto detta ed è ben più imprevedibile di quello che ci si sarebbe aspettati.
Una buona parte del serial ha luogo infatti nel quartier generale della Time Variance Authority (abbreviato TVA), un’organizzazione che esiste e opera al di fuori del regolare flusso del tempo, la cui missione - quasi sacra, affidatagli dai Custodi del tempo (demagoghi del continuum e capi indiscussi dell’agenzia in questione) - è il monitoraggio ed eventualmente la correzione delle cosiddette anomalie: ovvero di tutte quelle linee temporali che, per l’appunto, deviano da questo flusso regolare e, in fin dei conti, arbitrario e arbitrato; e delle Varianti che, per svariate ragioni, creano e talora esistono (o vorrebbero esistere) all’interno di esse.
Loki (quello del 2012, non quello che è morto per mano di Thanos) è una di queste Varianti, che, deviando dal corso “naturale” delle cose (e quindi potenziale artefice del suo destino), viene arrestato dalla TVA, la quale gli offre due possibilità: essere falciato (dunque cancellato dall’esistenza) o collaborare con l’agente Mobius (Owen Wilson) per fermare un’altra Variante che sta dando filo da torcere all’organizzazione e nella cui cattura l’aiuto del Dio è cruciale. Difatti, questa criminale altri non è che una versione femminile di Loki di nome Sylvie (Sophia Di Martino).
Se anche solo queste poche righe di sinossi vi hanno confuso, siete sulla buona strada, perché il fine ultimo di Loki è proprio confondere e, con ciò, catturare lo spettatore. Tuttavia, non temete, perché Gloriosi propositi, il pilot della serie (che chi scrive considera uno dei migliori prodotti della Marvel recente), si prende fortunatamente i propri tempi per iniziare il pubblico, sia visivamente sia, anche e soprattutto, narrativamente, alla realtà della TVA, alle sue regole interne e ai concetti di Sacra Linea Temporale, anomalia e Variante, lasciando spazio inoltre, come non bastasse, ad un riassunto ben contestualizzato e funzionale “degli episodi precedenti”, della carriera del Dio all’interno del Marvel Cinematic Universe.
Parallelamente a ciò, Gloriosi propositi (ma anche il seguente La variante) è anche un pilot nel vero senso della parola, giacché funge da preambolo e proemio rispetto a cosa (e come) si vedrà nelle puntate successive - salvo qualche deviazione meno ispirata -, senza però risultare pedante e noioso.Una di queste componenti - che la prima puntata introduce e sviluppa già ad un livello più che soddisfacente - è senz’ombra di dubbio quella dialogica. Da questo punto di vista infatti, potremmo affermare senza problemi che Loki è uno dei prodotti più “parlati” della fucina Marvel, uno degli addendi di questa ultradecennale odissea in cui la parola e il suo scambio sono più significativi e dove (sovente) meglio sono adoperati per sviluppare e determinare il senso ultimo della serie.
Tale rilievo del dialogo e di momenti riflessivi, concettuali ed esplicativi comporta inevitabilmente tutta una serie di conseguenze e di situazioni che, se in alcuni capitoli riesce a portare lo show all’eccellenza, in altri si convertono in perversioni deleterie e nocive ai fini della sua memorabilità e affabulazione.Uno degli effetti positivi di questa importanza riservata alla comunicazione verbale (e quindi espressiva-attoriale) concerne sicuramente la caratterizzazione dei personaggi, che rappresenta l’indiscussa e assiomatica punta di diamante del serial. Difatti, così come le precedenti WandaVision e The Falcon and the Winter Soldier, anche Loki mostra un intento produttivo ben preciso e basilare che prescinde in parte dalla narrazione in sé per sé. Vale a dire lo sfruttamento di una serialità scandita settimanalmente (con tutte le peculiarità del caso) al fine di una ricostruzione, di un rilancio e di una rimessa in discussione di un personaggio - Loki, per l’appunto - mai mostrato o raccontato al meglio delle proprie possibilità.
E’ dunque emblematica, a tal proposito, una delle prime frecciatine (“marvellianamente” autocritica) che Mobius rivolge al Dio dell’Inganno nel già citato Gloriosi propositi, con riferimento al racconto “proiettato” della vita di quest’ultimo: “Sei il Dio dell'Inganno. Io qui non vedo molto inganno”. Così come è estremamente intrigante, di conseguenza, la premessa con cui si inaugura l’intreccio e il concetto fondante questa prima stagione.
Perché non far confrontare un Dio, il cui unico obiettivo è comandare e non avere padroni, con l’idea che non esista il libero arbitrio, che tutto sia scritto e che esistano invece degli esseri ancor più divini di lui, in grado di piegarlo e renderlo forse più debole di quegli stessi deboli che egli sogna di conquistare? Che cosa farebbe il Loki del 2012 se venisse a contatto, si innamorasse e dovesse poi combattere - per compiere il volere del destino o di questi esseri(?) più potenti - con qualcuno che gli assomiglia e lo conosce più di quanto possa immaginare?
Tale processo di (ri)centratura e valorizzazione di una figura così complessa, ambigua e affascinante come quella del Dio dell’Inganno viene condotta secondo due diversi criteri di caratterizzazione dalla squadra di sceneggiatori composta dallo stesso showrunner Michael Waldron, da Elissa Karasik, Bisha K. Ali, Eric Martin e Tom Kauffman.
Il primo - anche il più tradizionale - dei due è strutturato sul contatto e sulla (con)seguente interazione del Dio (inizialmente ligio ai canoni classici e proverbiali della divinità egocentrica e sprezzante) con la realtà della TVA, scenograficamente ed allegoricamente personalizzata dagli interni di Kasra Farahani (un mix di stimoli kafkiani e orwelliani, architettonicamente sospesi tra il brutalismo londinese e il modernismo dell’Europa orientale, tra ipertecnologia e retrò); e con i suoi esponenti.
Specie con Mobius M. Mobius (un nome profetico della propria condizione alienata e illusa), il quale, man mano che il racconto prosegue, comincia prevedibilmente ad affezionarsi, a comprendere sempre più Loki e le sue rimostranze, oltre che il disagio nel non poter decidere del proprio futuro, e dunque a condividere il suo punto di vista e la sua lotta. Una relazione, quella tra il Dio e l’agente, che, da collaborazione buontempona, piena di ilarità e sarcasmo, si trasforma ben presto in un’amicizia quasi fraterna ed umanamente calorosa, che, grazie soprattutto alla chimica tra i rispettivi interpreti, prepara il campo ad una scena madre emotivamente coinvolgente.
Ciò nonostante, già a partire da Lamentis (la terza puntata), il rapporto tra “prigioniero e carceriere” viene purtroppo messo in secondo piano per lasciare spazio a quello del Dio con Sylvie - a tutti gli effetti, il nucleo narrativo imprescindibile della serie - e, con esso, alla seconda modalità di approfondimento e trattazione della figura di Loki, contraddistinta da una frammentazione letterale e concreta di quest’ultimo in quanto personaggio.
Durante la sua avventura infatti, oltre a Sylvie (che, per complessità e stratificazione di caratterizzazione, riesce a rivaleggiare e talora a battere il collega e compagno di sorte, con cui tuttavia, a differenza di quanto avviene tra questo e Mobius, non sempre intrattiene dei dialoghi dalla scrittura ispiratissima e convincente), il nostro figlio di Laufey farà la conoscenza di altre Varianti di sé stesso, dal cui scontro/incontro (unicamente concentrato in Viaggio nel mistero, il quinto e penultimo episodio) riuscirà a trarre le conclusioni sulla propria natura di villain, anti eroe o, più semplicemente, di pedina all’interno del piano e del disegno di qualcuno di ben più potente, che sta al di sopra.
E’ allora a tal riguardo che la serie di Michael Waldron introduce e propone allo spettatore uno dei suoi discorsi più importanti e, a nostro avviso, intellettualmente affascinanti. Vedete bene infatti che, qualora cambiaste, nella frase precedente, la parola “pedina” con “personaggio”, la ricerca, da parte di Loki, della propria natura, del proprio io, del proprio destino e, di conseguenza, della propria funzione all’interno dell’universo assumerebbe e assume una connotazione squisitamente metanarrativa.
Come sostiene, deridendo, l’elemento sorpresa dell’ultima puntata, che è poi l’assoluto villain della serie: “Non potete arrivare alla fine, finché il viaggio non vi ha cambiato”. Un riferimento, quest’ultimo, neanche così velato al viaggio dell'eroe: il modello narrativo comune e più diffuso all’interno dell’industria audiovisiva statunitense, che, nella sua forma più tipica e tradizionale, coinvolge un eroe che si imbarca in un'avventura e in un momento di crisi decisiva ottiene una vittoria, per poi tornare a casa cambiato o trasformato.
In tal senso, la lotta di Loki e di Sylvie contro i Custodi del Tempo (o chi per loro), al fine di riportare il libero arbitrio nell’universo, può essere letta e, per noi, non è nient’altro che uno scontro metanarrativo tra due personaggi consci del proprio status di pedine di un racconto che tentano invano di ribellarsi contro gli schemi e le imposizioni di una narrazione già scritta, in cui tutto è già deciso.
Tuttavia, come vedremo in Per tutti i tempi. Sempre, non solo questa loro ribellione è essa stessa un qualcosa di già scritto, ma anche nel caso in cui uno dei due decidesse di non venire a patti con il proprio burattino, per di più uccidendolo (e quindi portando a termine la propria missione e il proprio viaggio), l’unico effetto possibile è e sarà il caos (o A Multiverse of Madness, fate voi).
Tutte e tre le serie Marvel uscite finora mettono in campo un'illusione, un complotto, un inganno che favorisce la costruzione di una realtà artificiosa e pilotata che, solo attraverso la coscienza e la verità acquisita, può essere distrutta o, nel caso di Loki, compresa per poi essere distrutta(?). In WandaVision vi è infatti il trauma di Scarlet e l'imbroglio di Agatha, che l'eroina riesce a sventare e sconfiggere solamente dopo esser venuta a capo con i propri demoni e quindi esser venuta a conoscenza della verità (e della sua storia).
In The Falcon and the Winter Soldier, l'imbroglio è invece quello dello scudo di Captain America e di ciò che l'eroe a stelle e strisce rappresenta in termini simbolici ed identitari; l'imbroglio di un'America corrotta e traviata dai potenti, oscurantista nei confronti di una verità che avrebbe potuto cambiare radicalmente il corso degli eventi e che Falcon, una volta edotto, confronta e sconfigge.
Loki è quindi il solo dei tre show a concludersi con una sconfitta; in maniera disastrosa, pessimistica, quasi apocalittica. Ma, d’altronde, come detto sopra, è anche la prima serie (e non miniserie) del Marvel Universe e, unitamente a ciò, quella che più influenzerà il corso futuro e le future produzioni del grande disegno di Kevin Feige e soci.
(Ri)torniamo però ad un piano più concreto e generale della nostra recensione e arriviamo a parlare delle succitate “perversioni deleterie e nocive ai fini della memorabilità” di Loki in quanto prodotto televisivo e d’intrattenimento.
Inevitabile conseguenza (in negativo) dell’importanza riservata al dialogo, così come di una varietà tanto sostanziale di penne alla sceneggiatura, è l’evidente sproporzione ed altalenanza del singolo episodio in rapporto all’insieme.
Pertanto, se da un lato abbiamo puntate quali le già citate Gloriosi propositi, La variante e Viaggio nel mistero, in cui la scrittura dei dialoghi riesce a colmare una mancanza di azione in senso stretto, oppure ancora in cui le due componenti riescono ad essere ben bilanciate e a lavorare bene di concerto; dall’altro vi sono capitoli come Lamentis (il peggiore dei sei), L’evento Nexus e lo stesso finale di stagione, che, seppur non definibili propriamente come filler o puntate inutili (in quanto sviluppano i personaggi e confezionano ottimi momenti), non riescono a sfruttare al meglio le due anime costitutive della serie, le quali finiscono irreparabilmente per scontrarsi e togliersi terreno e potenziale a vicenda.
L’altro (e ultimo) grande difetto derivante da questo rilievo affidato alla parola e ai dialoghi è senz’altro la parziale assenza - che, guarda caso, si inizia a percepire una volta abbandonati i lidi, esteticamente ricercati ed estrosi, della TVA - di quel senso di fantascienza, di infinite possibilità e di vastità, vivacità ed esuberanza del mondo diegetico. Tutti aspetti fondamentali e utili nel momento in cui si affronta un racconto che prevede diverse linee temporali, viaggi indietro e avanti nel continuum e, soprattutto, scontri tra divinità o, più banalmente, supereroi.
Certo, quella di Loki è, come riportato sopra, una “parziale assenza”, dal momento che episodi come il terzo, il quinto e specialmente l’epocale e sconvolgente (macroscopicamente parlando) Per tutti i tempi. Sempre sono quasi del tutto ambientati su pianeti o dimensioni aliene, nella cui (avvincente) caratterizzazione visiva l’impianto tecnico della serie riveste un ruolo di primaria importanza. Ci riferiamo, nello specifico, alla fotografia di Autumn Durald Arkapaw e al suo uso saggio e credibile della color correction e al reparto effettistico supervisionato da Brad Parker che, seppur non sempre al meglio delle proprie possibilità, regala delle visioni d’insieme veramente niente male.
Discorso del tutto opposto riguarda invece la regia di Kate Herron che, laddove si dimostra abile nel valorizzare e far emergere tutte le varie anime compositive e le interpretazioni, nella messa in scena e orchestrazione del tutto, pecca di insipidità e ritrosia, quando non di ipertrofia nel montaggio di tutte quelle sequenze più prettamente action.
Di WandaVision abbiamo apprezzato l’impegno nel ricostruire quasi da zero un personaggio come Wanda Maximoff, restituitoci con forza, spessore emotivo e profondo amore; la semi-sperimentazione attraverso una decostruzione ed un recupero tecnico-estetico della cultura e storia televisiva, coincidente con un discorso meta sul potere affabulatorio del mezzo e, senz’ombra di dubbio, il fatto di essere una televisione che punta al cinema, ma che, non soddisfatta, arriva ad oltrepassarlo, ponendosi sul suo stesso piano e rivendicando così la propria centralità.
Di The Falcon and the Winter Soldier abbiamo amato invece la maturità grafica e concettuale nella trattazione di un’America di idoli necessari, falsi miti e verità scomode, i monologhi intensi e accorti e soprattutto la via del grigio, dell’ambiguità, della via di mezzo, del contrasto intimo e morale, prima che superomistico e muscolare, intrapresa da personaggi ed intreccio.
Di Loki ammiriamo infine - nonostante alcuni difetti antagonisti rispetto alla generale godibilità e fruibilità del prodotto - l’ambizione nel voler cambiare radicalmente le carte in tavola e quindi il futuro del grande disegno Marvel, l’esattezza del casting in ottemperanza al ruolo (un Tom Hiddleston in una delle sue migliori prove che riesce pure ad eclissarsi, tuttavia mai scomparendo del tutto, un Owen Wilson capace di toccare vette emotive impensabili, una Sophia Di Martino semplicemente eccezionale e credibilissima, un Richard E. Grant che, con una sequenza, riesce a far suo l’intero quinto episodio e un Jonathan Majors già pronto per entrare nel pantheon marvelliano), ma anche la propria consapevolezza nell’intraprendere discorsi metanarrativi, il fatto di essere - come quasi tutte le creazioni Marvel Studios, del resto - un ottimo prodotto d’intrattenimento e, ultima ma non per importanza, la sua capacità di farci riscoprire quelle atmosfere, quelle intuizioni, quella lungimiranza, quella caparbietà, quegli inganni e quegli apici di emotività che hanno fatto del Marvel Cinematic Universe il progetto storico che è tuttora e che continuerà ad essere ancora per molti anni.
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