TITOLO ORIGINALE: WandaVision
USCITA ITALIA: 15 gennaio 2021
REGIA: Matt Shakman
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: drammatico, sentimentale, sitcom, supereroi
N. EPISODI: 9
DURATA MEDIA: 27-50 min
A distanza di tre settimane dagli eventi di Avengers: Endgame, la coppia Marvel più famosa di tutte conduce una vita idilliaca in una cittadina di periferia del New Jersey. Purtroppo, come si suol dire, non tutto è come sembra e le stranezze iniziano a moltiplicarsi a vista d'occhio.
Con Wandavision, i Marvel Studios - pionieri di un universo cinematografico dalla struttura e racconto serial-televisivi - si espandono e riscoprono il linguaggio seriale in senso stretto; vero e proprio. Un linguaggio che non ci pensano due volte prima di scardinare e stravolgere parzialmente. Una messa in scena dinamica, multiforme ed emozionalmente inquietante, una riscoperta delle origini e della psicologia di due Vendicatori da sempre relegati in secondo piano ed un discorso metatelevisivo (intra- ed extra-diegetico) stimolante sono tra i maggiori pregi di una miniserie che, purtroppo, sul finale "torna all'ovile" e ad una visione più fedele alle proprie origini - che risponde a precisi obiettivi trans-mediali. WandaVision è la riprova che Marvel Cinematic Universe non è (e non deve essere per forza) sinonimo di intrattenimento chiassoso e fine a sé stesso, ma, anche e soprattutto, di coraggio e (semi)innovazione.
E così è successo. I Marvel Studios sono approdati anche in televisione; il Marvel Cinematic Universe si è espanso ed appropriato del linguaggio seriale in senso stretto - dopo aver dato il via, più di dieci anni or sono, ad un racconto di tipo serial-televisivo, solo sugli schermi cinematografici e nell’arco di una ventina di pellicole completamente interconnesse tra loro. Maggior incasso della storia del cinema, Avengers: Endgame (2019) è, ad oggi, la summa di questo lavoro ultra-decennale; probabilmente il crossover più ambizioso a cui il grande schermo e i suoi spettatori abbiano mai assistito; senz’ombra di dubbio, l’evento cinematografico più atteso, discusso e amato dai tempi di Avatar; un successo di pubblico e critica che, a parer nostro, entrerà nei libri di storia, non tanto per la sua bellezza intrinseca, quanto per suddetto clamore, per la sua importanza commerciale e il suo impatto socio-mediatico.
Posto ciò - come suggerito nella recensione di Wonder Woman 1984 -, Avengers: Endgame è forse l’apogeo (di popolarità e successo) del filone cinecomic, il quale, a seguito di una pellicola così produttivamente e culturalmente monumentale, sta attraversando e attraverserà verosimilmente un periodo di magra ipertrofica e di incassi sempre più in calo - Covid e sale permettendo. In tal senso, non tanto Spider-Man: Far From Home - uscito sulla scia propulsiva ed eccitata di questo quarto Avengers -, bensì l’ultimo film della controparte DC costituisce forse l’esempio lampante dei cosiddetti “postumi da Endgame”: della stanchezza e sazietà spettatoriale nei confronti di supereroi e supervillain che si combattono sul grande (in questo caso, piccolo) schermo. Tutto ciò scaturisce nella necessità di ricerca, da parte dei cinefumetti, di nuove strade, nuovi modelli, nuove forme e nuovi metodi di fruizione.
E la scelta più ovvia per i Marvel Studios pare essere la via della serialità televisiva così come concepita dalla piattaforma Disney+ (ben diversa da quella Netflix, come analizzeremo tra qualche riga). E’ vero, la Marvel (proprio come la DC, anche se con serial produttivamente più limitati) aveva già intrapreso un cammino televisivo, da un lato con serie di grandissimo successo commerciale e qualitativo [vedi le tre stagioni di Daredevil, Agents of SHIELD, The Punisher e la prima serie di Jessica Jones], dall’altro con prodotti perlopiù dimenticabili [Inhumans, Luke Cage, Iron Fist e The Defenders, per citarne alcune]. Tuttavia - eccezion fatta per Coulson e la sua squadra -, queste erano viste più come storie di contorno o appendice rispetto al grande mosaico filmico, intrecciandosi ed interfacciandosi flebilmente con la continuity principale.
E poi arriva WandaVision (chi vuole cogliere, colga), la miniserie con cui Kevin Feige (CCO di Marvel Comics, Marvel Television e Marvel Animation) e i Marvel Studios puntano ad invertire la tendenza e scardinare, in un certo senso, i parametri creativo-produttivi del loro Universo Cinematico.
Ideato da Jac Schaeffer e diretto da Matt Shakman [regista di sitcom come C’è sempre il sole a Philadelphia e di serie come Dr. House, The Good Wife e Revenge], WandaVision, come intuibile dal titolo, vede come protagonisti due dei più potenti Avengers del mucchio: Wanda Maximoff, ex-terrorista originaria di Sokovia, maga, telepate e telecineta, prima complice del malvagio Ultron, poi alleata di Iron Man & co. quando questi minaccia la sua terra d’origine, uccidendole il fratello Pietro; e Visione, sintezoide creato combinando l'intelligenza artificiale di Tony Stark (Jarvis) con Ultron e la Gemma della Mente, legatosi sentimentalmente con Wanda una volta entrato a far parte degli Avengers ed infine ucciso da Thanos - di fronte agli occhi dell’amata - durante gli eventi di Avengers: Infinity War (2018).
Ambientata tre settimane dopo l’epilogo di Endgame, la miniserie apre il sipario su una situazione del tutto anormale, nonché inversa rispetto agli avvenimenti della Guerra dell’Infinito. WandaVision ci presenta infatti una Wanda insolitamente allegra, un Visione incredibilmente “vivo e vegeto” e la loro vita - pressoché idilliaca - in una cittadina di periferia del New Jersey, Westview. E le stranezze non finiscono qui, dal momento che i due sembrano aver dimenticato quasi tutto del loro passato ed essere divenuti, a tutti gli effetti, i protagonisti di una tipica sitcom anni ‘50 - con tanto di 4:3, bianco e nero e vestiario, architetture e tratti estetici del caso. Dunque, è chiaro fin da subito che - come si suol dire - non tutto è come sembra. E che i gufi non sono quello che sembrano.
Bianco e nero, formato 4:3, Wanda e Visione che abitano in una casa di periferia, con un vicinato di spioni, pettegoli e persone poco raccomandabili che escono dai tombini? Risate registrate (ma quindi si dovrebbe ridere più del dovuto?), rumori strani per la casa, effetti minimali e per lo più affidati ad un gioco di montaggio? Pubblicità ambigue e dalla terrificante cura dei dettagli? Ma siamo proprio sicuri di trovarci di fronte ad una serie di supereroi e non, piuttosto, ad una nuova stagione di Lucy ed io?
Queste sono solo alcune delle possibili e naturali domande che possono sorgere, una volta giunti al termine dei primi due episodi di WandaVision.
Un recupero certosino e raffinato degli stilemi tecnici, estetici e produttivi [come suggerito dal titolo, la prima puntata è stata girata davanti ad un pubblico vero e proprio] e dello stile umoristico: pur essendo talvolta volutamente banale e scontato, l'umorismo impiegato, basato sulla classica commedia degli equivoci, è efficace e produce una totale immersione nel profilmico; tipici delle sitcom anni '50 e ‘60 coincide con un'inquietudine ed un mistero intriganti - ribaditi e sottolineati da un’improvvisa dinamicità e libertà di movimento della macchina da presa - e conflittuali con la parvenza ingenua e candida di Westview.
E' chiaro che ciò che stiamo vedendo non sia che una messinscena creata ad hoc e che, per l’appunto, non tutto è come sembra. A ricordarcelo è proprio Visione che, ad un certo punto, metatelevisamente chiede a Wanda: "Tesoro, non hai paura che il pubblico scopra che tutto questo è solo una messinscena?". Ma è proprio questo - insieme ad una luminosa Elizabeth Olsen e ad un Paul Bettany esilarante, nel segno rispettivamente di grandi divi della televisione di quegli anni come Lucille Ball ed Elizabeth Montgomery e Dick Van Dyke - l'elemento vincente di queste prime due puntate.
Ora a colori. Questo il titolo del terzo episodio che, come anticipato in ultima battuta da Non cambiare canale, è ispirato e ci riporta con la mente ai cromatismi patinati e sorridenti delle comedy anni ‘70. Emblematica, in tal senso e similmente alle puntate precedenti, la ripresa e conseguente stravolgimento di estetica, stile e contesto culturale di riferimento tanto nelle architetture e nell’ambientazione, quanto nei costumi, nel trucco, nella fotografia (accesa, pop, frizzante e dalle tonalità pastello) e nella regia - molto più dinamica ed intraprendente, seppur ancora fissa e fondamentalmente statica.
A livello narrativo invece, questo terzo è un capitolo di grandi conferme. Tra le tante, è d'obbligo citare l’istrionismo di Elizabeth Olsen, l’efficacia dello stile comico (più virato sul nonsense, sui giochi di parole e sull’iperbole delle dinamiche), l’ambiguità semantica di dialoghi e messa in scena, l’attenzione ai dettagli nello sviluppo degli archi narrativi, l’inquietudine di fondo, la ratifica della sinossi e dell’anormalità dello scenario ma, in particolar modo, la propulsione di teorie ed ipotesi.
Teorie e ipotesi che Ora a colori fa letteralmente esplodere, avvalendosi di un finale totalmente inaspettato che, oltre a prevenire l’omologazione di suddetta con le due precedenti, allaccia doppiamente il serial con la continuità filmica del Marvel Cinematic Universe e avvalora l’idea della simulazione contenitiva di una Wanda furiosa ed instabile dopo la morte di Visione. A solo un’ora (di visione) dall’inizio, il duo Schaeffer [qui coadiuvata alla sceneggiatura da Megan McDonnell]-Shakman dà vita ad uno degli apici emozionali, televisivamente parlando, a cui, quest'anno, avremo/avrete piacere di assistere.
Ciò nonostante, a nostro avviso, Ora a colori è tutto fuorché l’episodio migliore di WandaVision.
Un gigantesco dietro le quinte: questa, in sintesi, la definizione che potremmo trovare al quarto episodio di WandaVision, dal titolo Interrompiamo questo programma.
Abbandoniamo dunque gli abiti d'epoca, il formato 4:3, il montaggio statico e “magico”, i colori sgargianti ed abbaglianti, le inquietanti vicende della coppia più strana nella cittadina più strana, le urla dei neonati Billy e Tommy, i vicini impiccioni… e scopriamo quali sono stati i presupposti che hanno portato al cliffhanger di Ora a colori.
Quasi ci stavamo dimenticando del fatto che Westview e i suoi abitanti facessero parte dell’universo in cui Thanos ha schioccato le dita, in cui Iron Man ha fatto lo stesso (al contrario) e, soprattutto, in cui Visione è morto. Fortunatamente o meno - e purtroppo per “Geraldine” -, già la scorsa puntata apporta una generale disillusione in merito - pescando a piene mani dalla Fase 2 del MCU e dalle stesse origini di Wanda e di suo fratello Pietro.
Processo di disillusione, quest’ultimo, che questo quarto capitolo e il suo scoppiettante inizio (ambientato post-Endgame) proseguono coerentemente, anche se troppo scolasticamente.
Peccato infatti che, narrativamente e tecnicamente parlando, Interrompiamo questo programma stenti a stare al passo di tal (scoppiettante) incipit e degli standard precedentemente stabiliti dallo stesso show. Superate una serie di ovvietà - spacciate per grandi rivelazioni - ed un’impalcatura tecnica ben lontana da qualsivoglia ricerca o ricostruzione estetica,storica o produttiva (il ritorno alle atmosfere e ai lidi della controparte filmica non è solo questione di trama, ma anche di sintassi visiva e costruzione atmosferica), a questa puntata rimane ben poca sostanza e appiglio affabulatorio. Certo, durante questi 25 minuti, in realtà vi sono scelte ed elementi effettivamente azzeccati (su tutti, un paio di sequenze indiscutibilmente inquietanti, qualche accenno di sottotesto e il riuscire a presentare meglio di Branagh nel primo film di Thor e a far simpatizzare lo spettatore con la dottoressa Darcy) e, nonostante la monotonia, la produzione dell’episodio è comunque degna di nota.
Malgrado ciò, il nostro giudizio sulla puntata rimane di fatto immutato. Interrompiamo questo programma appare come un passaggio obbligato, quasi forzato e necessario per venire incontro a quella fetta di pubblico più disattenta e casual. E questo sarebbe pure corretto (anche se non pensiamo che il pubblico sia così ingenuo), se solo non fosse l’erede di tre episodi produttivamente incensi e sorprendenti. A mani basse, il capitolo peggiore di questo lungo viaggio.
Il capitolo 4 delude ed annoia a grandi linee, (In) questo episodio speciale, al contrario, solleva, consola e sconvolge. WandaVision, i produttori e i Marvel Studios tornano infatti a dimostrare quel coraggio e quel carattere propri delle prime tre puntate, affidando ad una serie TV (ad un prodotto quindi con un pubblico, per ora, statisticamente inferiore a quello dei film) una delle rivelazioni apparentemente più importanti del proprio universo da dieci anni a questa parte. Peccato che, come si verrà a scoprire negli episodi a seguire, tale sorprendente rivoluzione non sia altro che un depistaggio degli autori nei confronti del pubblico ed una macchinazione ad opera di Agnes aka Agatha Harkness e ai danni (psicologici) di Wanda.
Tuttavia, la costruzione in sé del cliffhanger è corretta ed esaltante, oltre che funzionale alla creazione di teorie, aspettative e, di conseguenza, clamore mediatico nei riguardi della miniserie. Detto ciò, il vero pregio di In questo episodio molto speciale è sicuramente l'equilibrio che si viene (finalmente, aggiungeremmo) a creare tra le due dimensioni narrative. Tra il fuori - il contesto più a rischio di effetti soporiferi - e il dentro Westview.
Da un lato abbiamo quindi lo stile e il registro in pieno stile Marvel Cinematic Universe, dall'altro, invece, spazio - di nuovo e per fortuna - al recupero dell'estetica (questa volta, quella delle sitcom anni '80: forse meno incisiva ed abbagliante di quanto visto precedentemente), a dialoghi ambigui e subdoli ("Perché non fate quello che dico?"; "E' uno scherzo, non è vero niente") e a caratterizzazioni, il cui essere sopra le righe è soltanto una maschera dietro cui si celano disperazione, tragicità e angoscia.
A ciò si uniscono, in ultima battuta, una Wanda sempre più minacciosa e terrificante, che si mostra, veramente e per la prima volta, in tutto il suo egoismo (capiremo poi perché), un riferimento - abbastanza cinico - agli eventi di Lagos (Captain America: Civil War, 2016) ed un ritmo felicemente ritrovato.
Ogni show - drama o sitcom che sia - ha il suo episodio a tema. Basti pensare ai Simpson con la serie di puntate La paura fa novanta, agli speciali di Doctor Who, all’episodio How The Ghosts Stole Christmas di X Files o, ancora, a Lost con The Constant. Natale, Pasqua, Capodanno o - in questo caso - Halloween sono solo alcune delle ricorrenze festive da sfruttare per dare vita a puntate sorprendenti, poiché divergenti rispetto alla linea editoriale del serial, o viceversa coerenti con e arricchenti l’anima del prodotto. E di questo, gli autori di WandaVision ne sono (ovviamente e perfettamente) a conoscenza. Così, sulla scia di una delle rivelazioni virtualmente più sovversive (ma purtroppo fuorviante) dell’intero Marvel Cinematic Universe, questi producono un capitolo tanto “disturbante” e catastrofico dal punto di vista visivo e narrativo - vedasi le sequenze di esplorazione di Westview da parte di Visione e il finale - quanto indubbiamente minore.
Nuovissimo Halloween spaventacolare! - che prende a piene mani dalla serie anni ‘90-2000 per eccellenza, Malcolm in the Middle, e dal suo marchio di fabbrica: la rottura della quarta parete - colpisce dunque sotto il profilo estetico e del citazionismo (innumerevoli i riferimenti a film come Gli Incredibili, Kick Ass e Genitori in trappola, ma anche alle origini fumettistiche stesse dei personaggi, soprattutto in termini costumistici). Tuttavia, si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un episodio di acclimatazione e transizione (da un cliffhanger efficace ad un altro egualmente impattante) nemmeno così ispirato a livello di comicità, nonché interamente finalizzato e sacrificato in nome di due importanti sviluppi della storyline principale e dei rispettivi archi del duo protagonista. Di sicuro, uno dei peggiori della miniserie (secondo solo a Interrompiamo questo programma), di cui salviamo solo una sensualissima Elizabeth Olsen, un turbato Paul Bettany ed un’atmosfera sommariamente ed esteticamente ben rifinita.
Allo speciale di Halloween segue, purtroppo o per fortuna, Infrangere la quarta parete: ciò che in gergo si definisce "la quiete prima della tempesta"; un altro episodio di (anche se parziale) transizione, dal ritmo ancor più dilazionato e dalla struttura quanto mai corale, che collega il finale a sorpresa (e spacca mandibola) dello scorso capitolo con i due conclusivi.
Ciò nonostante e a differenza di Nuovissimo Halloween spaventacolare!, questa settima puntata riserva al suo interno ben più di una sorpresa, oltre a qualche consueta chicca tra il meta e il citazionistico.
Tolta la rivelazione - abbastanza telefonata ma ottima nella messa in scena -, da un punto di vista registico e di registro comico, l’episodio è infatti un chiaro omaggio a Modern Family e The Office: le vicende della famiglia Maximoff (e non solo) si mescolano quindi alla forma del falso documentario.
Mockumentary che - oltre a favorire una rottura della quarta parete rimarcata e ben più evidente rispetto al capitolo precedente - permette agli sceneggiatori l'inserimento di un indizio che lascia intendere la presenza di un marionettista, di un regista, di una figura altra al comando (o, se preferite, alla regia) di WandaVision e di Westview - rompendo pertanto la regola del mutismo dell'intervistatore ed anticipando, a livello prettamente semantico, la grande inversione dei ruoli della puntata.
Non mancano infine grandi sviluppi narrativi - in primis, quello riguardante Monica Rambeau, ad un passo dal diventare Photon/Spectrum -, l'introduzione di rapporti impensabili e dall'insospettabile chimica, come quello tra Visione e Darcy (che prosegue nel suo percorso di nobilitazione); e la completa distruzione di ogni nostra speranza in merito ad una prima introduzione e contatto col Multiverso.
Un episodio un po' più Wanda e meno Vision, certamente più ragionato ma non per questo del tutto fallimentare o deludente. Almeno, non ai livelli di quarto e sesto.
Se Infrangere la quarta parete è la classica "quiete prima della tempesta", Negli episodi precedenti potrebbe essere visto come un'ulteriore e ben più marcata "quiete". Non fosse che, secondo il nostro modesto parere, la puntata in questione è forse la migliore delle nove complessive.
"Non c'è futuro senza passato". Sono queste le parole che Agatha Harkness (interpretata da una Kathryn Hahn così brava e "a briglia sciolta" da rubare spesso la scena alla stessa Olsen) rivolge a Wanda - ancora una volta protagonista assoluta di questi 40 minuti -, presentandole quello che le attende. Negli episodi precedenti si costruisce infatti su un tanto classico quanto funzionale viaggio nel passato e, per l'appunto, "nelle puntate precedenti" della vita di Wanda, che, in poco più di mezz'ora, riesce a restituirci un profilo ed una caratterizzazione del personaggio mai così vividi. Quasi ex novo. Di fatto, l'universo filmico ha sempre relegato Wanda (ma anche Visione del resto) ad un ruolo prettamente secondario. Di conseguenza, tutto ciò che concerneva il suo passato e la sua psicologia è sempre stato affidato a dialoghi, sentito dire, voci di corridoio e (quasi) mai mostrato con così tanta forza, spessore emotivo e amore per il personaggio.
Facciamo quindi un salto indietro nel tempo e ritorniamo alla fantomatica notte in cui i genitori della sokoviana vennero uccisi da un missile Stark Industries. Vediamo il primo contatto di Wanda con la Gemma dell'Infinito, che le ha risvegliato i poteri (nei film, questa dinamica è stata sempre semplificata e riservata a due linee di dialogo risicatissime). Assistiamo al primo avvicinamento sentimentale di Wanda e Visione. E riscopriamo infine la visita di Scarlet Witch (ora per davvero) alla base dello Sword e, con essa, il definitivo voltafaccia del direttore Hayward, così come dell'organizzazione tutta.
Cos'hanno in comune queste quattro "porte" e strascichi di passato? La televisione come sottofondo, falso specchio, contrasto e sogno infantile e latente di Wanda. Ed è proprio questo il fil rouge dell'intera serie, ossia il rapporto che Wanda intrattiene con il sogno americano sbandierato in sitcom come il Dick Van Dyke Show, Lucy ed io, Vita da strega, Tre nipoti e un maggiordomo, Malcolm in the Middle. Questo diventa dunque una sorta di illusione/speranza repressa nei confronti di una normalità, di una quotidianità, di una realtà (che è e sarà sempre sempre frutto di finzione e figlio di una sceneggiatura, così come la stessa anomalia dello e lo show stesso) in cui i problemi si risolvono e tutto torna allo status quo entro la fine della puntata. Un sogno che l'inconscio e i poteri di Wanda ripescano nel momento in cui crea l'anomalia a Westview (creando quindi la nuova Visione di una città in decadenza).
Pertanto, ciò che si viene a creare - e che concerne, ripetiamo, tanto i personaggi del serial quanto noi spettatori - non è altro che un intreccio ed un giocoforza tra realtà e finzione (ripreso anche nella medesima finzione di WandaVision, quando viene mostrato l'effettivo set delle riprese del primo episodio) in cui è pressoché scontata la vittoria della prima. Ricordi, dolori e demoni infatti sovrastano e straripano oltre e rispetto alla finzione sul lungo termine.
In tutto questo tripudio di metatelevisione, anche Agatha Harkness non manca all'appello del "back to the past", favorendo forse il salto temporale più remoto dell'intero Marvel Universe ed una delle sequenze che mostrano palesemente e veramente quanto sia minimo lo scarto produttivo tra televisione e cinema in ambito MCU.
Ricostruire un personaggio - o meglio due: Wanda e Visione - da zero, ridandogli una personalità, uno spessore, una profondità finora impensabili e mai sperimentate è forse il maggior pregio di un episodio densissimo ed efficace - seppur molto semplice, strutturalmente parlando -, emozionale ed emozionante, che dimostra, una volta per tutte, l'inefficienza e la mediocrità della quarta puntata e di come si possano scrivere e creare puntate "di ripasso" senza cadere nello spiegone facile, nella ripetizione o, semplicemente, nella noia più totale.
Il premio Nobel per la letteratura Thomas Stearns Eliot sosteneva che “Quel che conta è il percorso del viaggio e non il suo arrivo”. Tuttavia, pur non scomodando nomi di rilievo come quello del celebre poeta statunitense, possiamo affermare con certezza che, se WandaVision si fosse conclusa con l’ottavo episodio - magari allungato di una ventina di minuti -, saremmo di ben altri pensieri e ben altre emozioni. Il che non significa necessariamente che Finale della serie - tanto per rimanere in ambito metatelevisivo - sia una brutta o, addirittura, la più brutta puntata delle nove. Anzi, essa si mostra piuttosto come la conclusione più logica, coerente e ragionevole.
In fondo, WandaVision è sempre stata pensata come una miniserie. Quindi, come un prodotto autoconclusivo ma comunque provvisto di alcuni ritagli [vedasi la scena mid- e quella post-credit] che sarebbero poi stati ricuciti e si ricuciranno ad un arazzo, ad un qualcosa di ben più grande e vasto della semplice Westview e della semplice anomalia creata dalla nostra Scarlet.
In tal senso, Finale della serie si dimostra essere una sorta di “ritorno sul tracciato”, ad una tradizione e consuetudine produttiva e narrativa in pieno stile MCU: un interminabile showdown fisico e verbale (interessante, in tal senso, il rovesciamento dei canoni: il fatto che, ad arrivare muso a muso, siano principalmente Wanda e Agatha - dunque le parti femminili - e che invece la controparte maschile - che arriva a discutere anche di massimi sistemi e concetti, come quello della nave di Teseo - sia ben più intellettuale, dialogica e mentale) è seguito da una delle sequenze più emozionanti, commoventi e significative - nonostante uno scambio di battute che si potrebbe definire scontato e fin troppo melenso - che il duo Schaeffer-Shakman potesse partorire, nonché, probabilmente, dell’intera odissea Marvel.
A livello tecnico-estetico (effetti, trucco, costumi, regia, fotografia e montaggio), l'episodio è veramente un gioiellino, uno dei punti più alti e prestigiosi della serie insieme al capitolo precedente. Tuttavia, non ci sentiamo di definire Finale della serie una puntata compiuta ed esauriente rispetto alle proprie potenzialità emotivo-narrative.
Complice di questo alone di accettazione mista a delusione, un aspetto che, sì, esula dalla dimensione filmica, ma la condiziona indirettamente: le troppe aspettative. Con riferimento ad un articolo di Collider, WandaVision fallisce nel partorire e consegnare allo spettatore cose che non gli erano mai state promesse. Si viene a creare dunque una sorta di circolo vizioso, forse provocato dalla qualità della scrittura e dalla caratura delle rivelazioni contenute negli episodi precedenti che hanno, come affermato sopra, innescato un processo di teorizzazione e ipotesi. Ipotesi che hanno poi condotto, a loro volta, ad un clamore e ad un chiacchiericcio riguardo a possibili apparizioni e twist, ma della cui presenza non vi è mai stata la certezza e la conferma.
A ciò si sono unite, in ultima battuta, alcune dichiarazioni fuorvianti, ma fondamentalmente ingannevoli dello stesso Paul Bettany che preventivano l’apparizione di un personaggio fumettisticamente famoso e amato (probabilmente, Reed Richards aka Mr. Fantastic) nel finale della miniserie. Pertanto - tra chi affermava che avremmo visto Benedict Cumberbatch nei panni di Doctor Strange, chi vedeva Mephisto dietro ogni angolo ed inquadratura e chi, invece, si era illuso della veridicità delle parole di Bettany -, il tutto è risultato in una delusione e amarezza generale e più o meno sentita, di cui i Marvel Studios - con, per l’appunto, le notizie e i rumor rilasciati di settimana in settimana, al fine di creare interesse e coinvolgimento, e poi smentiti dalle stesse puntate - sono implicitamente responsabili.
Il legame tra realtà e finzione e il modo in cui si influenzano reciprocamente superano dunque il quadrato dello schermo; scavalcano i confini dell’immaginazione e della costruzione seriale, di WandaVision, del suo racconto e dei suoi sottotesti, giungendo, compromettendo e comunicando con la nostra realtà, il nostro mondo e il nostro rapporto e giudizio rispetto a tale finzione. Sia la dimensione considerata quella immaginata e seriale o quella terrena e nostra, il minimo comune denominatore che permette suddetti legame ed influenza è sempre uno: la televisione, che, unitamente a ciò e al messaggio meta propugnato dall’ottavo episodio - nonché alla base della stessa fondazione dall’anomalia - si declina e può estendersi - nella sua forma più o meno oggettuale e concreta - a varie sfere semantiche ed interpretative.
In e guardando WandaVision, la televisione può essere intesa quindi come decostruzione e recupero tecnico-estetico della cultura e storia televisiva, attraverso i suoi vari decenni di vita e secondo fini pseudo-autoriali, personalizzanti ed identitari [la riscoperta dell'evoluzione della sitcom - uno dei formati fondativi e nobilitanti il mezzo televisivo - diventa un elemento caratteristico e proprio della miniserie, nonché utile ai fini affabulatori dell’intreccio].
Il mezzo televisivo può essere inteso e tradotto anche in termini di fruizione e di finestre distributive del prodotto. Così come per tutti gli altri original Disney+, si è deciso di andare controcorrente rispetto alla politica binge-watching varata e consolidata da Netflix, rilasciando un episodio a settimana e tornando perciò ad una concezione originaria e old school del mezzo televisivo e della sua fruizione. Detto ciò, rispetto a The Mandalorian (in cui si tornava ad una classicità non solo distributiva, ma anche e soprattutto narrativa), la fabula di WandaVision è ben più compatta, coesa e allacciata - nonostante le evidenti mutazioni visivo-estetiche che intercorrono da episodio a episodio e alcuni frammenti lievemente riempitivi ed evitabili. In ogni caso, questa release a cadenza settimanale ha fatto di WandaVision un vero e proprio evento, un ritorno alle discussioni nei forum e nelle aree di dibattito social e un ottimo ripiego alla mancanza dei supereroi nelle vite e nella quasi quotidianità di tutti gli spettatori - più o meno affezionati. Dunque, un qualcosa di sociale, oltre che culturale.
Quella di WandaVision è infine una televisione che punta al cinema. Era quantomeno evidente, nonché largamente anticipato, che, una volta conclusisi questi nove capitoli, non ci sarebbe potuti aspettare una seconda stagione e che, fin da Girato davanti ad un pubblico in studio, la meta ardita e destinataria era il grande schermo e, con esso, la monumentale e attesissima Fase 4. Una televisione, quella della miniserie Disney+, che quindi punta al cinema, ma che - non soddisfatta - arriva ad oltrepassarlo, ponendosi sul suo stesso piano e rivendicando così la propria centralità. Che aumenta le proprie dimensioni e la propria valenza di puntata in puntata.
Sintomatici, a tal riguardo, la scelta di affidare ad una serie (e non ad un film) il racconto delle vere e proprie origini di personaggi del calibro di Wanda [verso cui, proprio grazie al discorso della fruizione sopra riportato, lo spettatore adotta atteggiamenti ed indoli differenti con l’incedere degli eventi: essa viene vista inizialmente come un villain egoista e manipolatore, per poi convertirsi nell’idolo di chi guarda, in una personalità (forse solo) da noi compresa ed accettata, di cui si conoscono a menadito passato, interiorità ed intenti], Visione o Monica Rambeau (che sarà vitale per la prossima iterazione di Captain Marvel e, presumiamo, per la miniserie Secret Invasion); la costruzione del prologo effettivo di Doctor Strange in the Multiverse of Madness; la nobilitazione e rimessa in discussione di personaggi di contorno o secondari [vedasi Darcy Lewis e Jimmy Woo], per quanto caratterialmente bidimensionali e prevedibili; e - ultima, ma non per importanza - l’omologazione dei vari reparti produttivi - dagli effetti visivi alla fotografia - ai livelli dei prodotti destinati al grande schermo.
Omologazione che spesso si tramuta in superamento, facendoci sognare (o sperare) che, in un futuro quanto più prossimo, tutte le produzioni MCU riescano a raggiungere gli standard qualitativi dei primi tre episodi di WandaVision.
Posto ciò, pur allontanandosene in alcuni suoi virtuosismi produttivi - per poi riallacciare i rapporti subito dopo per convenienza sotto testuale -, scegliendo, infine e comunque, la via del successo e delle origini cinematografiche, WandaVision non può sottrarsi dall’essere ricondotta, in sede di giudizio, a parametri e modelli televisivi precostituiti, giacché il medium serial-televisivo è (e sarà sempre) la propria patria d’origine produttiva - a prescindere dalla sua parentela ed appartenenza ad un mosaico trans-mediale ben più imponente e composito.
Conclusasi pertanto questa (speriamo estenuante) analisi/recensione, ci chiediamo però quale potrebbe essere la definizione più calzante di WandaVision e di tutte queste sue nature e chiavi d'accesso. Una grande prova di coraggio da parte di major, produttori e autori? Un prodotto che - dimostrando dunque una grande auto-consapevolezza - conosce così bene il proprio pubblico di destinazione da saperlo ingannare, affabulare, infastidire, sconvolgere, emozionare e soddisfare? Un ottimo banco di sperimentazione per una nuova costola della produzione Marvel Studios, che, col tempo - e se prodotto con una tale lucidità -, potrebbe avvicinarsi, se non equiparare il successo della controparte cinematografica? Tutto giusto.
Unitamente a ciò, essa può essere vista anche come un serial che sfrutta una componente mystery a là Twin Peaks per catturare l’attenzione di un ampio spettro spettatoriale - facendogli superare così un possibile blocco mentale legato al recupero estetico, alla riproposizione di forme e modelli agée e old school -, per poi svelare ed esternare il suo nocciolo denso ed emozionale; la vera natura del suo racconto. Ossia, una storia d’amore, di dolore, di disillusione, di presa di coscienza che diventa ed è, a tutti gli effetti, una (re)origin story di Wanda - già divenuta, grazie allo show in questione, una paladina del grande pubblico ed uno dei personaggi più amati dell’intero universo Marvel.
Ma non solo. WandaVision può essere definita altresì come una miniserie che procede per diminuzione, produttivamente parlando - la qualità, l'ingegno e l’estetica dei primi episodi vengono man mano abbandonati, a favore di un rientro nei ranghi, di una reintroduzione e di un riconducimento rispetto ad una data poetica ed editorialità identificative e ad un dato stile attuativo tanto scontato quanto riconoscibile -, e, viceversa, per estensione, a livello narrativo, giacché la caratura, l’incidenza degli eventi e l’importanza stessa del serial ai fini del MCU si amplia e cresce a dismisura di puntata in puntata.
Una cosa è certa però: essa non è né il capolavoro sbandierato da molti, né la serie più insulsa, prevedibile e difettosa dell’anno, bensì un prodotto cosciente delle proprie potenzialità e del proprio valore che, pertanto, non si tira mai indietro (tranne sul finale) dal compiere scelte potenzialmente ostiche e difficili da gestire. In parole povere, la riprova che l’universo cinematografico Marvel può essere molto altro che semplice intrattenimento; che duro e puro action con botte da orbi, uomini in calzamaglia dalla morale di ferro ed effetti visivi strabilianti e pionieristici. Basta solo avere un po’ di Visione.
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