TITOLO ORIGINALE: Wonder Woman 1984
USCITA ITALIA: 12 febbraio 2021
USCITA USA: 25 dicembre 2020
REGIA: Patty Jenkins
SCENEGGIATURA: Patty Jenkins, Geoff Johns, David Callaham
GENERE: azione, fantascienza, avventura, fantastico
Continuano le avventure nel mondo umano della principessa Diana di Themyscira aka Wonder Woman. Negli Stati Uniti del 1984, l’eroina dovrà confrontarsi con l’instabile Max Lord, un affabulatore televisivo alla ricerca di un antico manufatto che può esaudire qualsiasi desiderio. Patty Jenkins torna alla regia (e si avvicina al tavolo della sceneggiatura) del secondo capitolo di una delle iterazioni più fortunate dell’intero universo cinematografico DC Comics. Pur partendo da ottime premesse e floridi spunti di riflessione sulla contemporaneità, il film mostra il fianco in più di un'occasione, ammorbando il risultato finale con un’attuazione sgraziata, un intreccio mal gestito e ritmicamente squilibrato, una CGI fin troppo artificiosa ed una serie di stereotipi, luoghi comuni ed aspetti prevedibili che finiscono per arenare ogni potenziale legame con l’attualità. Tolte un’ottima colonna sonora targata Hans Zimmer, alcune interpretazioni di buon livello ed un terzo atto ben costruito, Wonder Woman 1984 si conferma essere l’ennesima delusione di casa DC.
Alzi la mano chi sentiva la mancanza del DC Extended Universe e chi, nello specifico, non vedeva l’ora di assistere al proseguo delle avventure di Diana Prince aka Wonder Woman nei coloratissimi anni ‘80? Nessuno? Non vi è di che stupirsi. Ciò nonostante, è pressoché naturale chiedersi il motivo di cotanta freddezza nei confronti sia dell’ultima iterazione della supereroina più famosa di casa DC sia dell’universo superomistico Warner Bros.
Le cause sono da rintracciare in una serie di fattori intra- ed extra-filmici. In particolare, nel contesto distributivo ed industriale (messo a dura prova dall’emergenza sanitaria) in cui si è deciso di rilasciare la pellicola [distribuita in patria, per la prima volta, contemporaneamente nelle sale e in streaming sulla piattaforma HBO Max e, all’estero, direttamente nei circuiti digitali] e nell’attuale stato di salute del DC Extended Universe (Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn, l’ultimo addendo del franchise, è stato un mezzo flop) e, in generale, del filone cinecomic, che, in seguito all’ultimo capitolo dedicato allo Spider-Man Marvel/Disney, ha vissuto e sta vivendo tuttora un periodo di magra e di assenteismo dalle sale e dal dibattito pop-culturale - complice anche, e per l’appunto, l’emergenza sanitaria.
Fatta questa premessa, è però bene precisare che, se anche fosse uscito nel periodo di massimo splendore e massima gloria della corsa cinefumettistica - ossia i mesi pre- e post-Avengers: Endgame -, il nostro giudizio su Wonder Woman 1984 non sarebbe comunque cambiato di una virgola. Andiamo però con ordine.
Reduce vittoriosa dall’esperienza della prima guerra mondiale, dal suo primo contatto col “mondo degli uomini” e dal difficile scontro con Ares, Wonder Woman torna sul “grande” schermo in una veste rinnovata ed inizialmente disorientante. Infatti, ai campi fangosi e truculenti della Grande Guerra, si sostituisce un’America fatta di eccessi, di musica post-rock, disco e synth-pop, di outfit improponibili e di colori sgargianti. L’America degli anni ‘80 - più precisamente del 1984, come indicato dal titolo del film -, di Reagan; un’America in piena Guerra Fredda e in piena tele-dipendenza.
Ed è proprio in televisione che acquista notorietà Max Lord, uomo d’affari in fallimento che millanta di poter esaudire, con la propria compagnia petrolifera, ogni desiderio dei telespettatori. Questi è da tempo alla ricerca di una misteriosa pietra simil-lampada magica dalle origini sconosciute che ha il potere di avverare ogni fantasia di colui o colei che la tiene in mano, a patto che questi perda progressivamente qualcosa di sé o della propria vita. Sul cammino di Lord si frappongono la dottoressa Barbara Ann Minerva, una timida topologa, geologa e cripto-zoologa impiegata allo Smithsonian, e, ovviamente, la nostra Diana, che, quando smette gli abiti di eroina (in versione amichevole Uomo Ragno di quartiere) e non avendo ancora digerito la morte dell’amato Steve Trevor, conduce una vita solitaria e di basso profilo.
Si sa, l’operazione nostalgia anni ‘80, con prodotti come Stranger Things, Ready Player One, Guardiani della Galassia e Super8, è ormai giunta al limite massimo di sopportazione, tanto da convertirsi in un luogo comune e in un cliché dell’odierno audiovisivo pop. In tal senso, Wonder Woman 1984 rappresenta probabilmente la perversione di tale procedimento elegiaco, configurandosi come un film, sì, ambientato negli anni ‘80, ma nel quale tal contesto socio-culturale si limita al ruolo di mero contorno, di facciata, di giustificazione estetica e stilistica dell’accattivante e vivace locandina. Un film sugli e negli anni ‘80, ma in cui non si respira affatto l’atmosfera tipica di quell'annata smodata e talvolta ridicola.
L’assenza di un’impronta temporale e contestuale forte e ben precisa, riconducibile sia ad una colonna sonora che preferisce intraprendere la via dell’epicità poetica - più che del riarrangiamento di brani d'epoca - sia ad un’estetica che, tolto quanto concernente l’eroina protagonista, non si mostra quasi mai incisiva ed accattivante, fa di Wonder Woman 1984 un prodotto che, già a 30 minuti dall’inizio e all’infuori dei meri sviluppi narrativi, perde qualsiasi forma di appiglio e attrazione nei confronti di un pubblico oramai abituato a cinecomic dalla forte personalità.
Tuttavia, i veri difetti di questa seconda iterazione non si esauriscono o limitano alla sola estetica o carenza di una marcatura temporale definita - difetti, questi ultimi, che potremmo considerare quasi di contorno rispetto a quanto stiamo per analizzare -, bensì si situano ed attecchiscono ben più in profondità.
Reduce anch’essa - come Wonder Woman - dalla fortuna del primo capitolo, Patty Jenkins torna dietro alla macchina da presa delle avventure della principessa di Themyscira, pronta a replicare il successo e il clamore della pellicola precedente. A quanto pare però, non tutto sembra essere andato per il verso giusto. Infatti, se l’esordio dell’eroina DC aveva mostrato una Jenkins al suo primo approccio con l’action superomistico, riuscendo, ciononostante, a confezionare una regia incredibilmente solida (soprattutto nei momenti più concitati); in Wonder Woman 1984, in qualche modo, il suo stile, la sua tecnica e il suo ingegno paiono essersi “adagiati sugli allori”.
Salvo il terzo tempo - in cui riappare un barlume di idea compositiva -, la macchina da presa segue i personaggi nell’intreccio e scioglimento dei nodi narrativi in modo passivo e senza alcun tipo di empatia o indole, quasi come fosse un osservatore svogliato ed indolente privo di qualsiasi idea circa il suo coinvolgimento nel mosaico filmico. Patty Jenkins pare dunque limitarsi all’esecuzione di quanto indicato nel découpage, rinunciando ad ogni benché minima forma di ingegno o particolare volontà drammaturgica e lasciando alle sole interpretazioni (ovviamente, a quelle che riescono ad essere all’altezza) il compito di esprimersi e legittimarsi su schermo e agli occhi dello spettatore.
Lo stesso discorso è estendibile all’allestimento e alla realizzazione delle scene d’azione (come affermato sopra, uno dei punti di forza dello scorso film), che da patrimonio si convertono in scivolone deleterio e inefficiente rispetto all’affabulazione e alla fruizione del prodotto. Mal concepite e sviluppate, montate peggio, sgraziate e confusionarie, fondate su dinamiche spesso ridicole e fuorvianti (la conclusione della sequenza dell’inseguimento nel deserto ne è l’esempio lampante) - sempre eccezion fatta per la prova centrale di vogleriana memoria -: i frammenti action di Wonder Woman 1984 ci portano inevitabilmente ad una rivalutazione dell’operato di Cathy Yan in Birds of Prey. Il che è tutto un dire.
Se a ciò uniamo una durata impegnativa (151 minuti) e perlopiù squilibrata - dopo un prologo fin troppo allungato (dalla durata di un’ora) ed inconcludente all’atto pratico, il racconto inizia ad ingranare e preparare il terreno per un climax soddisfacente sia a livello di tempistiche sia in termini di costruzione -, una CGI artificiosa e riconoscibile in quanto tale, alle volte neanche propriamente ultimata o completamente renderizzata, ed una messa in scena spesso puerile ed involontariamente comica (la sequenza “di volo” di Diana su tutte), al comparto tecnico-estetico di Wonder Woman 1984 rimangono ben pochi tasselli veramente riusciti o convincenti. E, sfortunatamente, i dolori non finiscono qui.
Unitamente alla regia, la Jenkins firma - insieme a Geoff Johns e David Callaham - anche la sceneggiatura del film, sulla quale sembra riporre tutte le proprie forze e speranze. Probabilmente, se non avesse sognato così in grande e se non si fosse (o fosse stata) posta come demiurgo assoluto delle sorti del progetto, Wonder Woman 1984 sarebbe stata un’opera più quadrata, sincera e degna di nota (chissà?). Detto ciò, una cosa è certa: così come nel caso della direzione, anche lo script prodotto dal trio Jenkins-Johns-Callaham ci fa rimpiangere il lavoro svolto su Birds of Prey da parte di Cathy Yan.
Giunti a questo punto, ci terremmo però a spezzare una lancia a favore degli sceneggiatori, giacché i presupposti della pellicola si presterebbero - almeno sulla carta - ad una miriade di sotto testi, di possibilità drammaturgiche e di emozioni cinematografiche. Tuttavia, il vero problema del film e del suo racconto non è tanto il cosa, ma il come; il modo in cui tali presupposti vengono elaborati ed inclusi all’interno di un intreccio che deve rispondere a svariate finalità. Posto ciò, tra gli ormai consueti buchi di trama e i risvolti semplicistici (in tal senso, viene in nostro soccorso la tanto adorata sospensione dell’incredulità), abbiamo quindi isolato tre aspetti esemplificativi, nel loro piccolo, della generale mediocrità del comparto narrativo di Wonder Woman 1984.
Tra tutti, è sicuramente d’obbligo citare la caratterizzazione insipida, blanda e superata di gran parte dei personaggi, nello specifico, della dottoressa Minerva: convenzionale e di maniera; la classica secchiona impacciata, un po’ bizzarra e stravagante, rigorosamente meno attraente della protagonista - peccato solo che ad interpretarla abbiano chiamato l’incantevole Kristen Wiig, di cui si tenta (inutilmente) di celare la bellezza, con un paio di occhiali ed un andamento goffo e sgraziato -; e del villain Max Lord, salvato dal baratro di origini tanto scontate quanto ridicole da un Pedro Pascal sopra le righe e perfettamente in parte che, per carisma ed incisività, riesce a far impallidire, a più riprese, anche la stessa Gal Gadot.
Parzialmente correlata al discorso sulle caratterizzazioni, vi è poi la questione attinente al ritorno di Steve Trevor (Chris Pine), un vero e proprio segreto di Pulcinella - anticipato tra l’altro dallo stesso trailer del film. Le ragioni dietro la resurrezione del capitano (e dietro la ricomparsa di Chris Pine a vestirne i panni) sono così insensate e fortuite da arrivare a rompere definitivamente quella sospensione dell’incredulità summenzionata.
In breve, il manufatto-lampada magica soddisfa il più grande desiderio di Diana, riportando in vita Steve. Tuttavia, per permettere la resurrezione, la pietra trasferisce l’anima (e la voce) del pilota nel corpo di un'altra persona. In teoria, Wonder Woman dovrebbe così sentire soltanto la voce di Trevor, non vederlo interamente e fisicamente. Diversamente da quanto ipotizzato, con un escamotage tanto agevole quanto ingenuo, quest’ultimo viene però mostrato sempre e solo attraverso gli occhi di Diana che, a detta sua, non vede per niente il corpo dell’altro uomo, ma riesce a vedere solo lui (a vedere quindi solo Chris Pine). Esposti i fatti, traete pure le vostre conclusioni a riguardo.
Quanto appena illustrato tuttavia, non raggiunge affatto la gravità di ciò che segue e di quello che, a nostro modesto parere, è uno dei peccati più significativi ed ingenti di Wonder Woman 1984 e della sua sceneggiatura. Difatti, se film come Aquaman, Shazam! o lo stesso Birds of Prey si proponevano come puri e semplici prodotti d’intrattenimento (riusciti o meno è un altro paio di maniche), questa seconda avventura della principessa Diana - semplicistica e fuorviante in molte sue scelte - non si accontenta di una facile e sicura affabulazione.
Anzi, essa sembra voler ostentare, a tutti i costi, un legame con la contemporaneità ed una capacità di legarsi e comunicare con fenomeni, problematiche ed ideologie del nostro tempo come, ad esempio, la difficile e belligerante situazione medio-orientale, l’emancipazione femminile e la condanna del femminicidio e della violenza sulle donne, oppure ancora il potenziale scoppio di una guerra nucleare per colpa di una mascolinità tossica, naturalmente violenta e agonistica: tutti ottimi punti di partenza per una serie di riflessioni e argomentazioni, svolte e portate avanti mediante una materia ed una lettura supereroistica.
Peccato che a intenzioni tanto lodevoli e sostanziali corrispondano un approfondimento ed un’elaborazione, viceversa, così parziali, buonisti ed esasperati. Una mascolinità tossica fin troppo accentuata e veicolata a colpi di “ehi, bellezza”; “sei uno schianto”; “fammi compagnia”; sequenze contraddittorie da un punto di vista semantico e d’intenti [vedi ad esempio quella in cui Minerva, una volta acquisiti i poteri, pesta a sangue l’ubriacone che la sera prima aveva tentato di violentarla. Essa dovrebbe rappresentare una sorta di rivendicazione d’indipendenza e presa di coscienza della propria forza da parte della dottoressa, ma viene fatta coincidere con l’ascesa di lei in quanto villain del racconto, velandosi pertanto di malvagità e cattiveria]; ed una rappresentazione stereotipata di tutti i personaggi esterni ai confini statunitensi - quelli di origine araba su tutti - costituiscono i tre principali motivi di fallimento del progetto argomentativo di Jenkins & co. e di qualsiasi speranza di riflessione costruttiva sull’oggi.
Se siete arrivati fin qui, vi starete domandando se vi sia qualcosa di effettivamente e pienamente valido in questo Wonder Woman 1984. In tal senso, basterebbero anche solo l'entusiasmante ed adrenalinica colonna sonora di Hans Zimmer (con tanto di riarrangiamento del celebre tema di Diana, originariamente composto da Junkie XL), le interpretazioni di quasi tutto il cast - fatta eccezione per un Chris Pine insapore - ed un terzo tempo che non provoca altro che rimpianto e rincrescimento per quanto avvenuto precedentemente, per rispondere che, sì, Wonder Woman 1984 presenta dei punti di forza, ma che essi purtroppo non bastano a risollevare e riqualificare l’intera “baracca”. E’ quindi una vera sfortuna che tutto il resto non raggiunga la benché minima sufficienza, viste le premesse e quello che il film sarebbe potuto essere, se solo ci si fosse impegnati maggiormente nella stesura e nella messa a punto di alcuni aspetti tecnico-narrativi.
La pellicola aveva tutte le carte in regola per diventare la migliore del DC Extended Universe. Sfortunatamente per lei, il 1984 del titolo non si riferisce tanto all’ambientazione spazio temporale dell’opera, quanto piuttosto alla sua fattura complessiva: antiquata, fin troppo tradizionale, fuori tempo massimo, ignara delle eccellenze, degli sviluppi e delle derive recenti del proprio filone di appartenenza.
Certo, il DC Fandome, tenutosi lo scorso agosto, ha generato, com'è giusto che sia, attesa, aspettative, desideri e trepidazione sia nei fan della DC fumettistica sia negli aficionados del genere cinecomic, spalancando le porte di un universo ancora tutto da esplorare e da scoprire che ha di fronte a sé infinite potenzialità (così come infiniti sono i multiversi che si potrebbero trasporre sul grande/piccolo schermo). In questo scenario di sogni ad occhi aperti, Wonder Woman 1984 non è altro che un gigantesco tonfo che porta ad una prima disillusione rispetto a quell'utopia e reitera, ancor più, la sfiducia, maturata col tempo, nei confronti dell’universo cinematografico DC - soprattutto se confrontato con la controparte Marvel.
I multiversi e le possibilità potranno sì essere innumerevoli, ma, finché il livello è questo, il massimo a cui si potrà aspirare e che ci si potrà aspettare sarà un prodotto leggermente al di sopra della delusione più cocente. Un film che, a differenza di Wonder Woman 1984, non si inserisca (si spera) nel flusso fondato su e composto da un passabile film di Superman, “Martha”, una squadra di cattivi fintamente malvagia, un action sulla Grande Guerra alla stregua di Capitan America - Il primo Vendicatore, una pellicola dalla produzione travagliata che necessita di una petizione per essere vista nella maniera in cui fu inizialmente concepita, una tragedia shakespeariana fallimentare ed artificiosamente sott'acqua, un buddy movie caduto ben presto nel dimenticatoio ed un action/botte da orbi female power che quasi nessuno ha visto.
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