TITOLO ORIGINALE: The Mandalorian 2
USCITA ITALIA: 30 ottobre 2020
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: azione, avventura, fantascienza
N. EPISODI: 8
DURATA MEDIA: 31-52 min
Continuano le avventure nella galassia lontana lontana di Mando e del suo Bambino, questa volta, alla ricerca di un maestro Jedi che possa addestrare il piccolo nelle vie della Forza. Jon Favreau torna in veste di showrunner per la seconda stagione di una serie che, qualche mese fa, fece tirare una boccata d’aria fresca ai fan della saga di George Lucas, delusi dall'incostante trilogia sequel. Anche se leggermente inferiore alla prima iterazione, The Mandalorian 2 si rivela essere un prodotto che conosce bene il proprio target di riferimento e i tipi di audience della piattaforma Disney+, editorialmente e produttivamente ineccepibile, concettualmente diviso tra classicità narrativa e distributiva e pionierismo effettistico. A tutti gli effetti, la (Una) nuova speranza per l’universo di Star Wars e per il suo pubblico, profano o meno.
Un esperimento azzardato, ma promosso a pieni voti, una dimostrazione della capacità creativa ed immaginifica del duo Filoni-Favreau che, unendo insieme due generi completamente antitetici tra di loro, ha imbastito un corretto mezzo di paragone sulle modalità con cui la stantia saga di Star Wars andrebbe rinnovata. Non introducendo nuove definizioni della Forza o svecchiando gli stilemi narrativi della serie, bensì mettendone in discussione quelli estetici e stilistici, allontanandosi progressivamente dalla storyline degli Skywalker. Questo e molto altro è The Mandalorian, la cosa migliore che potesse accadere a Star Wars, soprattutto dopo il disastroso Episodio IX
Queste le righe di conclusione dell’articolo che, lo scorso maggio, dedicammo alla prima serie live action dell’universo di Guerre Stellari, allora appena uscita sulla neonata (almeno in Italia) piattaforma streaming Disney+ e giunta all’epilogo della sua prima stagione. Oggi (18 dicembre 2020, ndr) la storia si ripete. Difatti, da qualche ora si è conclusa la seconda stagione delle avventure di Din Djarin (Pedro Pascal) e del Bambino che, in un momento di completo assenteismo di Star Wars e del suo mondo dagli schermi cinematografici, costituisce l’unica possibilità di accesso e rinnovata immersione in quella galassia lontana, lontana.
A tirare le fila di un mosaico di nomi, creature, pianeti sconosciuti e tutti da scoprire e colpi di scena travolgenti, come sempre, la coppia che, con la prima iterazione dello show, aveva regalato una boccata d’aria fresca ad una saga divenuta ormai stantia e fin troppo legata alla leggenda e al protagonismo degli Skywalker. Un demiurgico Jon Favreau e un enciclopedico Dave Filoni sono le menti creative dietro un secondo atto che non solo riesce ad essere all’altezza e rispettare quanto venuto prima, ma rappresenta, ora come ora, l’unica via su cui ricostruire, rinnovare e portare avanti il malandato universo creato da George Lucas nel lontano 1977 e, con lui, rimarginare la ferita ancora fresca di milioni di aficionados, sentitisi traditi da una trilogia sequel non proprio eccezionale.
N.B. Per ragioni di regia, stile, genere, struttura narrativa, pregi e difetti - e ai fini di una recensione quanto più completa ed esauriente -, siamo costretti a considerare ogni puntata come un prodotto singolo e autonomo, nonostante vi sia una trama orizzontale che si dipana di capitolo in capitolo. Inoltre, è bene segnalare come The Mandalorian 2 presenti - in modo ancor più evidente rispetto alla scorsa stagione - episodi contraddistinti da una narrazione verticalissima e old school che regala tutto ciò che può e deve in un colpo solo, senza alcun effetto o conseguenza sostanziale sulla continuità delle puntate successive. In ultima battuta, vi ricordiamo che, per condurre una disamina ottimale e funzionale, ci riferiremo ad alcuni elementi di sinossi e sviluppo dei capitoli, quindi preparatevi ad una serie di SPOILER da questo punto in poi.
Il primo approccio di Jon Favreau alla regia di un prodotto targato Guerre Stellari è un prologo e atto d’apertura all’insegna della parola continuità. Infatti, se l’ottavo (e ultimo della prima stagione) capitolo - per la regia di Taika Waititi - aveva regalato agli spettatori un concentrato di emozioni, action frenetico e un twist che affondava le proprie radici nelle precedenti The Clone Wars e Rebels (serie TV animate ideate da quello stesso Dave Filoni, qui in veste di produttore e sceneggiatore) - con un Moff Gideon (Giancarlo Esposito) che sovrastava il suo fighter abbattuto e distrutto con in mano una darksaber -, al contrario, il primo episodio di questa seconda serie (finora il più lungo del serial) potrebbe apparire come un filler bello e buono.
Tuttavia, esso assume un valore pressoché opposto, se inteso come proseguimento di quanto avvenuto nella puntata di Waititi, piuttosto che come pilot in senso stretto. Lo sceriffo infatti ribalta l’abituale e solita concezione del primo episodio come assaggio affabulatorio e invitante di quanto accade nella stagione a cui apre le porte (la puntata è anche questo, vedi il cliffhanger finale con il ritorno di un emblematico personaggio della trilogia originale), preferendo porsi come semplice e avvincente avventura di passaggio. Emblematica, a proposito di continuità, la scelta di non azzerare la numerazione dei capitoli.
La puntata“pilota” di questa seconda iterazione presenta una sequela di aspetti che saranno ricorrenti per le restanti sette (è quindi nostra premura illustrarveli, per non risultare ripetitivi). Primo fra questi, il già citato ritorno di personaggi appartenenti al canone “starwarsiano” non solo cinematografico e televisivo, ma anche letterario. E’ questo il caso di Cobb Vanth (Timothy Olyphant), sceriffo del villaggio di Mos Pelgo (Tatooine) a cui fa riferimento il titolo - presentato e apparso per la prima volta nel romanzo Aftermath -, il quale, in possesso della leggendaria armatura mandaloriana di Boba Fett (Temuera Morrison), giura a Din di restituirgliela in cambio di un favore. Ecco quindi palesarsi la seconda caratteristica summenzionata, ossia lo scambio di favori come escamotage per far progredire la narrazione - elemento che, alla lunga, diventa ridondante e fin troppo artificioso. Per quanto riguarda Lo sceriffo, i due "oggetti di scambio" sono, da un lato, l’armatura di Boba Fett - che, basandosi sulle parole di Mando, dovrebbe viaggiare e stare con un guerriero mandaloriano -, dall’altro, la sconfitta di un gigantesco verme/drago delle sabbie in pieno stile Dune.
E, proprio con questo verme, arrivano a porsi in essere gli ultimi due stilemi ricorrenti di questa seconda serie di avventure: il fatto che ogni episodio di The Mandalorian - anche il più verticale e autoconclusivo - sia utile ai fini della serie per via della sua azione espansiva, a livello di percezione e immaginario, nei riguardi della galassia lontana, lontana [per questo, abbiamo deciso quindi di abolire il termine “filler” da questa recensione, ndr] e il pastiche di generi e stili - già presente nei primi otto episodi. A tal proposito, l’episodio in questione - come indicato dal titolo - formula una crasi tra un’anima (spaghetti-)western dura e pura - tra botte da orbi, l’arrivo al villaggio da parte dello straniero alla Per un pugno di dollari e stalli alla messicana - e un’altra puramente fantastica (tipica di Star Wars fin dalle origini), con il cavaliere “senza macchia e senza paura” che deve sconfiggere la creatura malvagia per riscattare la principessa, o, in questo caso, un’armatura.
Ad un prologo dall’elevata caratura spettacolare, effettistica ed intrattenitiva, segue forse l’episodio meno incisivo dell’intera stagione, se non di tutta la serie. All’inizio della puntata, un abbattuto e sconfortato - visto il parziale insuccesso della missione su Tatooine - Mando fa la conoscenza di Lady Frog (il passeggero, o meglio passeggera in questione), personaggio nuovo di zecca che afferma di avere informazioni su un gruppo di mandaloriani. Tuttavia, per ottenerle, Din dovrà scortarla fino alla luna di Trask, dove questa potrà ricongiungersi col marito e iniziare la schiusa delle uova che si porta appresso. Mando, Baby Yoda e Lady Frog abbandonano quindi Tatooine e si dirigono alla meta prefissa. Purtroppo, sulla via per la luna, i tre vengono intercettati da due caccia della Nuova Repubblica con cui, dopo una breve fase di persuasione, inizia un inseguimento che li condurrà al pianeta ghiacciato di Maldo Kreis. Qui, il trio rimarrà intrappolato e, in seguito ad una serie di fortuiti eventi, incapperà in uno stormo di ragni che gli daranno parecchio filo da torcere.
Peyton Reed è l’occhio registico dietro uno dei capitoli che, più di tutti, rispettano quell’idea di espansione percettiva, faunistica e immaginifica dell’universo di Star Wars espressa poco sopra, dando vita ad un prodotto che ripesca a piene mani da una delle IP di punta di Lucasfilm, Indiana Jones, e dall’immaginario horrorifico. Sì, avete capito bene horrorifico, in quanto è palese il rimando ad Alien (1979) di Ridley Scott e alla celeberrima sequenza del ritrovamento delle uova di xenomorfo.
Ciò nonostante, il mix avventuroso-horrorifico de Il passeggero non regge il confronto con le puntate precedenti, configurandosi soltanto come un’odissea pretestuosa, anche se divertente e particolarmente indicata ad un pubblico infantile, per via delle sue gag (Baby Yoda che continua a mangiare le uova di Lady Frog a sua insaputa) e dei brividi ingenui, viscidi e mediamente claustrofobici che provoca.
A Bryce Dallas Howard (figlia del ben più noto Ron) spetta quasi sempre, in ottica The Mandalorian, la direzione di episodi dall’azione frenetica e sostenuta. Era questo il caso del capitolo 4 (Il rifugio) - in cui appariva per la prima volta il personaggio di Cara Dune (Gina Carano) - ed è questo il caso de L’erede.
Giunta, non senza qualche problema, alla luna di Trask, Lady Frog riabbraccia il marito, il quale consiglia a Mando e Baby Yoda di chiedere dei mandaloriani alla locanda del porto. Il tutto sfocia in un’imboscata da parte di alcuni pirati della zona che intendono mettere le mani sull’armatura in prezioso Beskar - materiale indistruttibile forgiato su Mandalore - del nostro Din. In loro aiuto, giungono Bo-Katan (Katee Sackhoff) e i suoi compagni Koska e Axe - già visti nella summenzionata The Clone Wars - che rompono la millenaria tradizione dei mandaloriani (mai togliersi l’elmo e rivelare il proprio volto in pubblico). Contrariato e confuso, Din, dopo l’ennesimo attacco subito e esser scampato di nuovo a morte certa, chiede loro dove possa trovare un maestro Jedi che possa addestrare il suo piccolo amico. Bo-Katan rivela di conoscerne uno(a), tuttavia, in cambio della sua posizione, vorrebbe che Mando li aiutasse ad assaltare e depredare una navicella di carico imperiale.
Oltre ad introdurre un personaggio amato dai fan come quello di Bo-Katan e costruire un’avventura adrenalinica, dal montaggio frenetico e ricca di rimandi al filone action-spionistico - con tanto di sparatorie e countdown all'autodistruzione -, Bryce Dallas Howard è anche colei che riporta sotto i riflettori della serie la figura di Moff Gideon - che qui appare sottoforma di ologramma, ordinando all’ufficiale a comando della navicella assaltata di suicidarsi (con una capsula elettromagnetica posta in un dente, in pieno stile 007) piuttosto che rivelare informazioni preziose.
E proprio con riferimento a Bo-Katan, vorremmo compiere una breve digressione su uno degli argomenti più spinosi riguardanti la serie e la valutazione di un prodotto Star Wars in genere: il tanto chiacchierato e odiato fan service. Molti infatti, nel vedere il ritorno sul piccolo schermo e in forma live action di personaggi già introdotti e sviluppati in serie e prodotti precedenti (un altro esempio è quello di Ahsoka), potrebbero obiettare che tutto ciò non sia che una mossa facile e pretestuosa da parte di Disney e degli stessi sceneggiatori, per emozionare e abbuonare la scocca dura dei fan. E su questo, seppur in minima parte, saremmo pure d’accordo. Tuttavia - anche non prendendo in considerazione il lavoro di integrazione e coesione produttiva ed editoriale voluto e iniziato dalla casa del Topo e dalla Lucasfilm nei confronti dell’universo di Lucas e del nuovo canone -, bisogna innanzitutto stabilire se e come funzionino tali introduzioni nell’economia del racconto. In tal caso, è possibile notare quanto incisive e funzionali - seppur appena accennate - esse siano all’interno dell’ecosistema di The Mandalorian. E questo, anche senza una conoscenza precedente o enciclopedica della loro identità o biografia.
Incisività e funzionalità che ripagano poi sul lungo termine, fungendo da nuovo punto di partenza (sul piccolo schermo) per questi personaggi e da promotori di un recupero, da parte di quella fetta di pubblico più interessata, delle ricce e ottime serie animate.
Ad un capitolo pregno d’azione e di presentazioni segue un episodio altrettanto caotico e pregno di contenuto ed eventi importanti ai fini della trama orizzontale. Ottenuta la posizione di una Jedi di nome Ahsoka Tano, Mando e Baby Yoda tornano a Mon Calamari (una delle ambientazioni principali della prima stagione) per far riparare la navicella, ancora danneggiata dallo scontro con i ragni de Il passeggero. Per ingannare l'attesa, Mando offre un aiuto ai suoi vecchi alleati Greef Karga e Cara Dune - ora governatori e sceriffi del pianeta, del quale hanno migliorato le condizioni di vita - per una missione di infiltrazione e distruzione di una base imperiale fuori servizio. Come prevedibile, la struttura si rivela essere ancora operativa e presieduta da un manipolo di stormtrooper. Il gruppetto penetra così al suo interno e ne innesca il processo di autodistruzione, non prima però di aver scoperto una stanza contenente alcuni soggetti clonati e, con essa, il motivo per cui, nella prima stagione, l’Impero desiderava così avidamente il sangue del povero Baby Yoda. Ne L’assedio, ritorna infatti il concetto di midichlorian, introdotto e inventato da Lucas per giustificare il potere smisurato e la stessa nascita di Anakin nella trilogia prequel.
Tra sparatorie, fughe rocambolesche ed inseguimenti convulsi - che, a livello visivo e di costruzione, ricordano Mad Max: Fury Road (2015) di George Miller -, l’intervento “starwarsiano” di Carl Weathers dà vita ad una delle puntate più riuscite dello show, arricchita e fortificata, in secondo luogo, da un sottotesto politico per niente banale, racchiuso nella sequenza della scuola - costruita sulle ceneri del conflitto, visto nel capitolo 8, e, di conseguenza, della sua ignoranza implicita -, e dall’evoluzione apportata al personaggio di Cara Dune (di cui si esplora lo shock post-traumatico conseguente alla distruzione di Alderaan - vista in Una nuova speranza (1977) - di cui ella è stata testimone).
Dave Filoni è regista e sceneggiatore della puntata che, più di tante altre, esalta al meglio le vaste potenzialità e le influenze rappresentativo-iconografiche concentrate nel calderone che è The Mandalorian. Un capitolo, il tredicesimo, ricco di risposte ad interrogativi posti tempo ed episodi prima, calibrato nell’azione e nella sua componente esplicativa, fondamentale in termini di presentazioni e caratterizzazione di Grogu (finalmente Baby Yoda ha un nome) e del suo rapporto affettivo con Mando, semplicemente magnifico dal punto di vista registico e fotografico. Come anticipato dal titolo, l’episodio apre la strada del live action ad Ahsoka Tano - padawan di Anakin Skywalker creata dallo stesso Filoni come personaggio principale di The Clone Wars e Rebels -, interpretata da una Rosario Dawson azzeccata e completamente immedesimata nei panni delLa Jedi. A partire dalla meravigliosa sequenza in cui si fa largo tra un manipolo di soldati a colpi di spada laser fino ad arrivare agli intimi e intensi momenti con Grogu e Din, il fisic du role della Dawson e la sua recitazione convincente fanno di Ahsoka il protagonista indiscusso di questo episodio, riuscendo a rubare la scena più volte all’amato e amabile Baby Yoda.
In questi 47 minuti di puro spettacolo per gli occhi e per la mente, Mando si alleerà con la fu padawan per sconfiggere e porre fine al regime della perfida e dispotica Morgan Elsbeth, servitrice e vassallo (o almeno, così pare) dell’ammiraglio Thrawn (di cui sentiremo presto parlare, visti gli annunci seriali del recente Disney Investor Day).
Ed è proprio nello scontro finale duplice tra Din e il capo delle guardie Lang e tra Ahsoka e la Elsbeth che The Mandalorian raggiunge uno dei suoi apici veri e propri. Attraverso un montaggio alternato di inquadrature dilatate ed emotivamente e concettualmente efficaci, Filoni destruttura (e divide con una cinta muraria) le due anime compositive e fondative dello spaghetti-western (una delle influenze maggiori della serie fin dalle sue prime puntate): da una parte, abbiamo il western, incorniciato nello stallo - e nella tensione che ne consegue - tra i due pistoleri sopracitati; dall’altra, i film di samurai, iconograficamente e scenograficamente ricordati dallo scontro all’arma bianca/laser tra la Jedi e l’autocrate. Non sprechiamo dunque ulteriori parole per descrivere e analizzare quella che, a tutti gli effetti, è forse una delle cose più riuscite in tema Star Wars degli ultimi anni; il punto da cui spicca veramente il volo questa seconda stagione di The Mandalorian.
Titolo indicativo e sintetico del contenuto, quello della puntata firmata (nientemeno che) dal grande Robert Rodriguez (Dal tramonto all’alba, 1996, Sin City, 2005). La nostra “coppia che scoppia” viene indirizzata da Ahsoka ad un altare Jedi sul pianeta Tython, dal momento che questa si rifiuta di addestrare un Grogu già fin troppo legato emotivamente a Din. Qui, i due fanno la conoscenza di un Boba Fett invecchiato (lo stesso visto nel finale del pilot) e incontrano una rediviva Fennec Shand (Ming-Na Wen), introdotta nel quinto episodio della prima stagione. In seguito ad un primo momento di stallo armato, si calmano gli animi e il primo chiede indietro la sua armatura (quella ottenuta da Mando su Tatooine). In cambio, Boba e Fennec supporteranno il duo nel compimento della propria missione. Din non ha il tempo di acconsentire che, sul pianeta, cominciano ad arrivare delle navicelle imperiali di trasporto truppe, le quali aprono il fuoco sui nostri eroi e, nonostante la controffensiva, riescono a rapire Grogu e portarlo a Moff Gideon.
Seppur benedica, con il suo tocco e le sue idee compositive, una sequenza di sparatoria che non concede alcuna tregua allo spettatore - a metà tra film di guerra e western -, Rodriguez firma il capitolo meno incisivo di questa seconda iterazione - subito dopo Il passeggero di Reed -, salvato solo dal gigantesco cliffhanger finale. Sì, La tragedia presenta al suo interno un gradito ritorno, è assolutamente spettacolare ed intrattente ed è contraddistinto da un ripristino dell’orizzontalità narrativa, tuttavia, questi pochi elementi non bastano ad elevare la puntata dalla mera funzione di raccordo.
Il mandaloriano invia Cara Dune a prelevare Migs Mayfeld (lo avevamo visto nel sesto capitolo, Il prigioniero; il migliore della scorsa stagione) da un campo di lavoro della Nuova Repubblica. Din necessita infatti delle sue abilità e del suo servizio tra le fila dell’Impero per estrarre le coordinate della nave di Moff Gideon da un complesso imperiale sul pianeta Morak e liberare così Baby Yoda dalle grinfie dell’ufficiale.
Rick Famuyiwa scrive e dirige un episodio nettamente superiore rispetto subito prima, in termini di argomentazioni e sottotesto, tensione ed evoluzione dei personaggi. Il processo di infiltrazione di Din e Migs all’interno della struttura diventa infatti un pretesto per parlare di guerra, potere, bene e male e labilità di entrambi. Tuttavia, la vera e propria trattazione tematica della puntata è il conflitto derivato dagli ideali, dal dogma, dai tabù che trova espressione e compimento nel gesto definitivo del personaggio di Mando. Questi infatti, pur di salvare il suo compagno, è disposto a togliersi il casco e rompere per sempre il giuramento fatto ai suoi salvatori, la Death Watch, che ha determinato la sua intera esistenza.
Inseguimenti mozzafiato e combattimenti ottimamente coreografati, che ricordano ancora una volta Mad Max e pescano a piene mani dall’iconografia western (in questo caso, dal topos dell’assalto al treno o alla diligenza); momenti dialogicamente tesi alla Bastardi senza gloria, 2009 (nel modo entusiastico con cui si riferisce e descrive scene di morte e omicidio e nel comportamento, l’ufficiale Valin Hess è identico ad Hans Landa); uno sguardo più da vicino alla realtà dell’Impero - rappresentata in modo molto simile a quella ribelle nella trilogia originale -; e una fuga in cui ogni membro della squadra di Mando riesce ad essere valorizzato sono gli ingredienti di uno dei capitoli di miglior fattura non solo della stagione, ma dell’intera serie. Denso, tagliente e appagante: il perfetto antipasto per un finale coi fiocchi.
Ottenuta la posizione di Moff Gideon, il team composto da Mando, Cara Dune, Fennec Shand, Boba Fett e Bo-Katan & co. si lancia all’attacco della nave da guerra imperiale in cui si trova prigioniero Grogu.
Sarà riuscito Peyton Reed nell’arduo compito di chiudere (quasi) tutte le trame e le storyline, risultando, al contempo, pari o superiore allo standard imposto da Waititi nel finale della scorsa stagione? Decisamente sì, grazie anche all’apporto narrativo di un Jon Favreau in una delle sue composizioni migliori in ambito Star Wars; un Favreau ispirato che riesce, per giunta, a dare un senso ed una continuità a quasi tutti gli elementi e le piccolezze precedentemente espressi o introdotti (dall’armatura in beskar all’incontro con Bo-Katan, dalla questione della darksaber alla lancia sottratta ad Elsbeth nel tredicesimo capitolo).
Un’irruzione rocambolesca e ingannevole tra le fila nemiche è la nota iniziale di un crescendo nervoso e indiavolato di sequenze che non ammette parole come distensione e riflessione - merito di un montaggio, prima alternato poi estremamente classico, preciso e puntuale. Proiettili sparati e ricevuti, combattimenti all’arma bianca splendidamente coreografati e colpi di scena imprevedibili e sconcertanti (uno di questi parzialmente rovinato da una CGI facciale non proprio azzeccata): Peyton Reed riesce a riabilitarsi dopo il minore capitolo 10, donando allo show e alla saga intera sequenze e momenti che entreranno di diritto nell’immaginario e nel cuore degli spettatori e che faranno discutere per mesi aficionados e non.
Il tutto è corredato, elevato e arricchito da una colonna sonora trionfante e decisa (firmata da Ludwig Göransson), che non si limita nella citazione o riproposizione arricchita di senso e significato, da interpretazioni sublimi (soprattutto da parte di un Pedro Pascal che riesce ad essere espressivo anche con il solo ausilio della voce) e da un atteggiamento revisionista nei confronti dei significati dicotomici e ideali di lato chiaro e lato oscuro - sostanziale, in tal senso, il breve scambio di battute tra Cara Dune e un pilota imperiale ad inizio puntata.
Con The Mandalorian, Jon Favreau, Dave Filoni e la Disney hanno dato vita ad un esperimento curato nei minimi dettagli, sia dal punto di vista produttivo sia da quello editoriale, che testimonia nuovamente una lucidissima consapevolezza del target a cui ci si vuole rivolgere e un'efficace azione di omologazione e adattamento di quanto ideato, rispetto alla restante porzione di pubblico non inclusa originariamente in quello stesso target. Lo show nasce infatti come serial per famiglie (aspetto, quest'ultimo, che, per forza di cose, deve ricoprire un ruolo di primaria importanza nella valutazione e analisi del prodotto in questione). Attenzione però: questo carattere “family friendly” non sfocia, come ci si aspetterebbe, in una scrittura e rappresentazione infantile e ingenua. Al contrario, The Mandalorian si configura come una narrazione e un'avventura che può essere apprezzata appieno anche da un pubblico adulto e maturo, grazie a tutta una serie di sottotesti e sottintesi e ad un intrattenimento che non scema mai d’intensità.
Da un punto di vista concettuale, la serie presenta, fin dai suoi aspetti pre-produttivi, un assetto che risponde perfettamente alla natura dualistica che, da sempre, caratterizza Star Wars, insita e propria del genere fantasy sin dalla notte dei tempi. Stiamo parlando della lotta tra il bene e il male, che in The Mandalorian diventa equilibrio tra classicità e innovazione. Classicità, dal momento che il serial riporta in auge un tipo e modo di fare televisione old school e che molti potrebbero ritenere trapassato, ma che invece ha il pregio di ribadire, con forza e decisione, l’unicità e peculiarità del medium televisivo. Difatti, le serie ormai vengono concepite come lunghi film dalla durata di 8/10 ore e, di conseguenza, si stanno sempre più omologando al binge watching, riducendosi pertanto a prodotti e racconti fondati su narrazioni orizzontalissime che devono risultare godibili, anche se “assunti” in un colpo solo.
Contrariamente a ciò, quasi come esploratori alla ricerca del Sacro Graal, lo showrunner e gli sceneggiatori di The Mandalorian ritornano alle origini del mezzo e recuperano un metodo di distribuzione - un episodio a settimana - e di visione inusitati ma efficaci, a livello di memorabilità dei singoli episodi e delle loro identità e, ovviamente, da un punto di vista commerciale. Ciò nonostante, questa classicità nell’impostazione del racconto (dopo una parte iniziale e centrale che accetta di buon grado la verticalità, la serie torna “ai giorni nostri”, dando origine a tre episodi dalla trama perfettamente orizzontale) non preclude una spettacolarità visivo-estetica che ad avercene.
Spettacolarità resa possibile da un comparto tecnico a tenuta stagna, a partire dalla regia - che, nonostante l’alternanza di personalità dietro la macchina da presa, si mantiene sempre costante e spettacolare - fino ad arrivare alla pionieristica tecnologia Stagecraft [la proiezione di un autentico set virtuale che immerge gli attori in un mondo realistico e dinamico, perfezionando così lo statico green screen e semplificando così il lavoro di post-produzione]. Infine, ci teniamo a ripetere quanto sostenuto per la prima stagione, ossia che The Mandalorian e il suo amore produttivo sono stati e sono tuttora la scintilla che ha fatto e riaccenderà l’interesse e la passione di molti nei confronti dell'universo di Guerre Stellari - purtroppo annientati da un triplice ricordo filmico che, ahinoi, era sprovvisto di un’idea editoriale e concettuale veramente coesa e coerente.
Nel 1977, faceva la sua comparsa sul grande schermo Una nuova speranza. Nel 2020, su un supporto dalle dimensione ben più ridotte, viene rilasciata invece La nuova speranza. Ma non per i Ribelli, bensì per tutti quegli spettatori e fan che speravano in un ritorno in pompa magna del vero Star Wars. Disney, Lucasfilm, registi, produttori, sceneggiatori che si sono approcciati o che si approcceranno alla saga… questa è la via!
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