TITOLO ORIGINALE: The Falcon and the Winter Soldier
USCITA ITALIA: 19 marzo 2021
REGIA: Kari Skogland
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
GENERE: azione, supereroi, fantascienza, avventura, drammatico
N. EPISODI: 6
DURATA MEDIA: 49-59 min
Ambientata sei mesi dopo gli eventi di Avengers: Endgame, The Falcon and the Winter Soldier vede il ritorno della strana coppia del Marvel Cinematic Universe, chiamata a scontrarsi con una minaccia terroristica equipaggiata col siero del supersoldato.
A distanza di sette settimane esatte dall'epilogo di WandaVision, giunge alla sua conclusione anche The Falcon and the Winter Soldier - nuova serie originale Marvel Studios e secondo addendo della neonata Fase 4. Presentata e pubblicizzata come un intenso thriller action spionistico (con venature da buddy movie), la serie creata da Malcolm Spellman si mostra invece come un'opera (indubbiamente difettosa) più di personaggi, dialoghi, relazioni e contesto - in cui l'azione e lo spettacolo sono sì presenti, ma non fondamentali. L'intenzione è infatti quella di creare un mix di stimoli, influenze, elementi ex novo e non, che concentra tutte le sue forze e speranze di riuscita sulla costruzione di sottotesti ed argomentazioni, sulla disamina di un mondo nuovamente diviso e sul tratteggiamento caratteriale dei personaggi e dei loro drammi individuali. Un ritorno all'ovile, ma non come ci si aspetterebbe.
A sette settimane esatte dall’epilogo di WandaVision [qui la nostra recensione e analisi]: il primo (importantissimo) tassello della nuova odissea televisiva Marvel - intenta ad appropriarsi anche del linguaggio seriale in senso stretto, dopo aver dato il via ad un racconto serial-televisivo, solo sugli schermi cinematografici e nell’arco di una ventina di pellicole - e della sua neonata Fase 4; ecco che torniamo ad immergerci e a parlare di quell’universo narrativo, di quelle atmosfere e di quelle icone che, in un decennio o poco più, sono riusciti ad imporsi e ad imporre il proprio disegno su industria e storia del cinema.
Abbandoniamo quindi la “quieta” cittadina di Westview, New Jersey e i (pregevoli) metadiscorsi sul medium televisivo e sui suoi poteri di influenzare, quando non stravolgere, la nostra percezione della realtà, celati dietro una storia - spesso altalenante - di memorie, ripercussioni ed elaborazione del lutto; e rivolgiamo la nostra attenzione ad un racconto che tratta, anche lui, di memorie, ripercussioni ed elaborazione del lutto, solo su un piano più collettivo e globale e con un duo protagonista che molti stavano aspettando di veder realizzarsi su schermo.
Non vi è alcun bisogno che chi scrive riassuma cosa è successo a Captain America aka Steve Rogers nel finale di Avengers: Endgame (forse l’evento cinematografico più culturalmente d’impatto degli ultimi dieci anni) e spieghi cosa questo comporta tanto per il grande mosaico Marvel quanto per i suoi equilibri interni. Così come non vi è alcuna urgenza di sintetizzare come si sia giunti allo scenario postoci all’inizio di The Falcon and the Winter Soldier e come i personaggi protagonisti di quest’ultimo siano arrivati a quel preciso punto del proprio arco narrativo.
Vi basti sapere che quello della nuova (nonché seconda) serie targata Marvel Studios [ambientata sei mesi dopo gli eventi di Endgame] è un mondo (e un’America) allo sbando, disorientato, ancora lacerato e segnato dallo scontro tra gli Avengers e Thanos, dallo “schiocco di dita” - con cui quest’ultimo ha polverizzato metà della popolazione di tutto l’universo - e dal successivo blip, vale a dire la resurrezione collettiva degli “schioccati”.
Un mondo che è passato, nel giro di un paio d’anni, dalla sovrappopolazione alla desolazione e, poi di nuovo, dalla desolazione alla sovrappopolazione - con tutto ciò che ne consegue a livello socio-politico. Che sta pian piano riprendendosi e tornando alla normalità (il che non corrisponde necessariamente ad un qualcosa di positivo), anche se la paura di una nuova invasione cosmica è sempre all’erta. Che ha perso alcuni dei suoi eroi più valorosi, non ultimo Steve Rogers, ritiratosi dall’attività supereroistica e divenuto un oggetto da museo insieme al suo leggendario scudo in vibranio. Un mondo che, proprio per questi motivi, ha un disperato bisogno di simboli, di simulacri, di miti, di icone, di (super)eroi in cui credere e che possano guidarlo, con fermezza e volontà, in un futuro non certo limpidissimo.
Questo è lo scenario che si para di fronte allo spettatore e al duo Falcon/Winter Soldier all’inizio di questa nuova avventura serial-televisiva (della durata di sei episodi) che, come vedremo, riprende alcuni elementi dalla sua predecessora per poi svincolarsene e talora superarla.
Non mentite: anche voi, come chi scrive, all’approcciarvi a The Falcon and the Winter Soldier, soprattutto dopo aver visto e vissuto quell’ottovolante di sperimentazione e metatestualità che è WandaVision; avete pensato di stare per guardare il suo fratello brutto; una serie dagli intenti ordinari e dai toni e attuazione familiari, molto più diretta, immediata e prevedibile; un film Marvel canonico, ma diviso in sei episodi; un intenso thriller action spionistico (con venature da buddy movie) à la Winter Soldier senza infamia e senza lode, unicamente finalizzato ad imbastire una trama semplice ma corretta che giustificasse la volontà di dar vita a scene d’azione vicine agli standard cinematografici (e quindi ancora sconosciute al medium televisivo). Ecco forse perché, a pelle e all’inizio, questa seconda serie marvelliana giungeva con minor fascinazione, nonostante i personaggi coinvolti e le premesse, risultando quindi in una minor attesa da parte del pubblico.
Si rivela pertanto scaltra ed intelligente la scelta dei creativi Marvel (lo showrunner Malcolm Spellman su tutti) di aprire le danze con una puntata che - conclusa una sequenza aerea d’incipit adrenalinica e produttivamente in linea con le migliori produzioni della major - preferisce puntare sui personaggi, sul dialogo, sulle relazioni e sulla contestualizzazione del mondo diegetico. Inclinazione narrativo-concettuale che si mantiene intatta ed inalterata per tutta la durata del serial, con risultati altalenanti, ma sommariamente apprezzabili. Ciò non risulta però in una completa obliterazione di azione e spettacolo: tutt’altro che insufficienti e talvolta così diligentemente confezionati ed ispirati da far impallidire - per regia, montaggio, coreografie, ritmo e tensione - la controparte cinematografica.
Eppure, a discapito di quello che si pensava sarebbe stato, delle voci e delle dichiarazioni, The Falcon and the Winter Soldier si mostra come un prodotto che va oltre il semplice intreccio, l’affabulazione narrativa, l’intrattenimento spicciolo e superficiale e lo status di mero “parco giochi”.
Fin dalla messa in scena, funzionale ma spesso ingegnosa, retta e gestita sapientemente da una neofita (all’action supereroistico) Kari Skogland - che, dietro la macchina da presa, regala tante soddisfazioni inaspettate, ma, allo stesso tempo, anche un paio di rovinose cadute di stile -; è infatti evidente come il serial desideri slegarsi dalle etichette e dalle categorizzazioni, dall’essere banalmente “il sequel spirituale di The Winter Soldier”; e dar forma ad un mix di stimoli, influenze, elementi ex novo ed altri riconducibili a generi e filoni ben precisi, che propende e concentra tutte le sue forze e speranze di riuscita sulla costruzione di sottotesti ed argomentazioni tematiche, sulla disamina di un mondo nuovamente diviso - di cui il blip, così come il siero per i supersoldati, accentua pregi e difetti - e sul tratteggiamento caratteriale dei propri personaggi, delle loro incertezze, dei loro drammi individuali e del loro paesaggio interiore.
A tal proposito, anche in The Falcon and the Winter Soldier, così come (o ancor più che) in WandaVision, si è deciso di intraprendere la via del grigio, dell’ambiguità, della via di mezzo, del contrasto intimo e morale, prima che supereroistico e muscolare. In tal senso e soprattutto quando è chiamata a camminare con le proprie gambe, sciogliere i legami con il passato, evolversi, e quindi introdurre e costruire, dalle fondamenta, personaggi e storyline nuove, la serie trova terreno fertile per maturare, mostrarsi nel pieno delle forze e dell’ispirazione ed imprimere la propria identità, spesso eccedendo e soffocando il proprio stesso retaggio e i suoi stessi titolari - la cui trattazione non procede sempre di pari passo e che escono pertanto malandati da questo continuo confronto con le new entry, specie negli episodi centrali.
A dimostrazione di quanto sostenuto, vi basti pensare anche solo all’arco narrativo di una figura come John Walker - ex soldato pluridecorato, investito dal governo statunitense della carica (e dell’eredità simbolica) di Captain America - e alla cura che sceneggiatura e messa in scena, sostenute, a loro volta, da un ottimo Wyatt Russell: detestabile quanto basta, ma fondamentalmente comprensibile; riservano ed infondono al suo sviluppo ed evoluzione. Conducendo inoltre l’universo cinematografico Marvel - e, con esso, il pubblico - ad uno dei momenti più drammaturgicamente efficaci della saga e a tutt’altro livello di auto percezione e di maturità di racconto e rappresentazione (quest’ultima costruita secondo canoni iconografici prettamente fumettistici).
O a quello dell’altra new entry Karli Morgenthau (una Erin Kellyman rivelazione), leader del gruppo terroristico dei Flag Smashers, che, seppur presentata inizialmente come villain, riesce pian piano a ritagliarsi un suo spazio di coerenza di intenti e solidarietà spettatoriale, purtroppo frettolosamente distrutto da un episodio finale bisognoso di un nemico a tutto tondo per enfatizzare l’ascesa e il culmine narrativo del personaggio di Falcon.
Oppure ancora a quello di un “comprimario” come Isaiah Bradley [direttamente estrapolato da La verità, una delle storie migliori e più significative di Captain America e della contemporanea Marvel fumettistica], il cui background e passato - equivalenti all’anima morale e moralizzante del racconto e alla spinta propulsiva che porterà poi Sam a prendere coscienza del retaggio e del patrimonio (di luci ed ombre) dello scudo e a promettere e ripromettersi di fare meglio; di non essere l’erede di una tradizione discriminatoria, oscura e razzista - culmineranno in una delle sequenze più emotive ed intense di tutti e sei gli episodi.
Non solo, The Falcon and the Winter Soldier costituisce infatti anche il naturale prolungamento di quel processo - già intavolato in WandaVision - di sfruttamento di una serialità scandita settimanalmente (con tutte le sue peculiarità in termini di caratterizzazione, empatia spettatoriale e possibilità di espansione e approfondimento) al fine di una ricostruzione, di un rilancio e di una rimessa in discussione di personaggi originariamente relegati ad un ruolo marginale o secondario, quando non di spalla o macchietta. Un processo che, in questo secondo serial Marvel, forse non viene condotto e gestito con la stessa sensibilità e perizia del predecessore (dobbiamo ricordarvi quel gioiello di Negli episodi precedenti?), ma che, ad ogni modo, assurge egregiamente ai propri scopi.
Oltre agli ovvi Sam “Falcon” Wilson e Bucky “Winter Soldier” Barnes, che - dopo un prologo che li presenta sotto una luce inedita (più umana, concreta e perciò fragile) ed una porzione centrale in cui vengono sottomessi dall’incisività dei “nuovi” - recuperano terreno, mordente e centralità nelle due ore conclusive con uno degli scambi di battute (tra loro due) ed uno dei monologhi (quello di Sam ai membri del GRC) migliori dello show e forse dell'intero Marvel Cinematic Universe; il serial rispolvera, riesuma e riabilita figure come il barone Zemo (un Daniel Brühl carismatico e sensazionale), altro personaggio grigio sprecatissimo e sminuito come villain di Captain America: Civil War, quivi così affascinante - anche grazie a qualche intuizione in termini di estetica e look e (ovviamente) all’interpretazione di Brühl - da bucare lo schermo e concorrere in più di un’occasione al ruolo di protagonista. E come Sharon Carter (un Emily VanCamp che non risplende): forse l’elemento più sacrificabile del lotto, dalle finalità narrative abbastanza risicate e dall’appeal inesistente.
Detto ciò, è alquanto chiaro che il cuore vero e proprio e i motivi per cui The Falcon and the Winter Soldier può considerarsi una serie più che riuscita non risiede quindi nell’azione e nello spettacolo, nella complessità dell’intreccio o nell’originalità dei cliffhanger (necessari e, per questo, presenti, anche se non sempre validi e potenti come dovrebbero), quanto piuttosto nei personaggi, nei conflitti individuali e caratterizzanti e nelle argomentazioni e questioni proprie di una collettività e di una società come quella statunitense (e non solo), di cui tali personaggi, così come le loro singole individualità ed esperienze, arrivano ad essere incarnazioni concrete e tangibili e dimostrazioni sintomatiche e fallibili.
Sam, ma ancor di più Bucky, Sharon, ma ancor di più Zemo, Karli, ma ancor di più Walker e Isaiah (che, nonostante tutto, condividono molti aspetti in comuni) sono personaggi fragili, incerti e mutevoli che - come, del resto, gran parte del parterre Marvel - non possiedono poteri innati o congeniti ma si mostrano e rivelano per lo più come creazioni o nobilitazioni di qualcuno o qualcosa ben più potenti, abili o anziani di loro. Questa profonda debolezza (anzitutto morale) dell'uomo prima e del superuomo poi è egregiamente sviscerata e affrontata - quando non si incorre nella forzatura - in The Falcon and the Winter Soldier, che, sempre secondo questo stesso principio, propone un parterre di figure che vorrebbero abbracciare la dottrina individualistica ed intima tipica del superomismo, ma che devono - inizialmente, loro malgrado - aprire gli occhi e scontrarsi con l’appartenenza ad una collettività e ad un mondo, di cui devono affrontare problemi, perversioni, contraddizioni e urgenze.
In tal senso, la serie di Malcolm Spellman segue il percorso tracciato tre anni or sono dal Black Panther di Ryan Coogler (il primo cinecomics a prendere una posizione politica chiara e ben definita), intercettando - allo stesso modo della tradizione fumettistica Marvel - le incertezze, le questioni e le difficoltà del presente (americano e non solo) ed intrecciandole con una trama supereroistica di facciata dotata di tutti gli stilemi e i paradigmi del filone.
Per quanto riguarda l’intercettazione del presente, quello di The Falcon and the Winter Soldier è dunque un mondo proprio come il nostro: indebolito e debilitato da una crisi mondiale (blip o pandemia che sia), in cui il potere politico, delle istituzioni e del sistema è praticamente equivalente “a quello di un Dio folle o di un’adolescente confusa”, in cui razzismo, discriminazione e stereotipo sono purtroppo ancora ben vivi e radicati nel tessuto sociale, in cui brand e confezione sono ben più importanti di contenuto ed intenti comunicativi (nel finale, alcuni giornalisti si affannano per chiedere a Sam come lo debbano chiamare) e dominato da una generale assuefazione ed ipertrofia di modelli, miti ed idoli da imitare e a cui aspirare.
Questo discorso sull’attualità condivisa, all’interno del racconto (superomistico) della serie, vede nello scudo di Captain America il suo principale condotto semantico e argomentativo, nonché una sua concretizzazione. Quest’ultimo infatti, da allegoria, effigie e simbolo portatore di ideali e valori ben precisi, coincidenti con quelli del sogno americano, si converte in una materializzazione della perversione e della corruzione (data dall’assuefazione sopracitata) di suddetti valori e di suddetto sogno, di un'aspirazione quasi utopica.
E del retaggio di un paese oscuro, corrotto, percorso da conflitti (interni ed esteri) ancora non propriamente affrontati, in cui "un nero non può essere Captain America", in cui le vecchie abitudini sono dure a morire, ma dove, prima o poi, qualcuno è chiamato a dimostrare che la speranza è (la sola) dura a morire. La materializzazione quindi di un passato personale (per Sam e Bucky) e collettivo e di un presente fatiscente ed instabile, ma anche di un futuro votato al cambiamento e al sovvertimento (per il meglio) degli ideali che hanno portato a suddetta devianza. Da costruire sui fantasmi di ieri e sulle rovine dell'oggi.
Eredità, razzismo e stereotipia, assuefazione, patriottismo (equivoco e multiforme, quando non perverso), ambiguità, (a)moralità, responsabilità, idolatria, speranza: questi sono solo alcuni dei punti nodali attorno a cui si costruisce l’anima argomentativa di The Falcon and the Winter Soldier e su cui dipende l’esito di una serie con la quale i Marvel Studios - così come con WandaVision - dimostrano un incredibile coraggio (che potrebbe convertirsi in deleteria presunzione, una volta tornati al cinema?) ed una fiducia notevole nel proprio pubblico e nella portata mediatica delle proprie opere, affidando nuovamente ad una serie TV - quindi ad un prodotto con un’audience, per ora, statisticamente inferiore a quella del grande schermo - uno scossone drastico (che, se fece scalpore quando venne presentato sulla carta stampata, figuriamoci se fosse stato proposto sul grande schermo) alla tradizione e al mito di un personaggio, così amato ed universalmente riconosciuto da essersi convertito probabilmente nell’istituzione pop culturale per antonomasia.
Se la tanto amata WandaVision si offriva come una serie matura a livello concettuale e formale, quasi sperimentale per i canoni Marvel, quello di Malcolm Spellman si dà invece come uno show maturo dal punto di vista contenutistico. Un male e un difetto? Solo se questa mancanza di innovazione di modello e formula non viene collimata da un cuore tematico soddisfacente e ben sviscerato e da una costruzione narrativa coerente e poco problematica.
In tal senso, The Falcon and the Winter Soldier si pone in una via di mezzo: se da un lato infatti apporta alla narrazione un collettivo di concetti, riflessioni ed intuizioni da non disdegnare, dall’altro si scontra invece con una trattazione che può sì essere accettabile, vista la natura del prodotto e l’ampiezza del suo target di riferimento, ma che non può definirsi certo particolareggiata ed esauriente.
A ciò, aggiungiamo per l’appunto qualche episodio più riuscito di altri, puntate in cui l’equilibrio introspezione-azione è gestito peggio, alcune forzature (tra cui, la più sentita, la condizione economica di Sam e famiglia), una leggera confusione nella strutturazione del racconto - soprattutto, nei capitoli centrali - ed un finale galvanizzante, ed emozionalmente superiore a quello di WandaVision, ma comunque frettoloso nello sciogliere alcuni nodi di trama e fin troppo (palesemente) sistematico nell’impianto.
Elementi, questi ultimi, che ciononostante non distolgono e non fanno perdere interesse in quello che è, a tutti gli effetti, un ottimo prodotto d’intrattenimento (sicuramente da vedere); uno dei vertici spettacolari della serialità televisiva contemporanea; ed uno dei migliori addendi del Marvel Cinematic Universe (per chi scrive addirittura superiore e più efficace del predecessore, in certe sue espressioni e momenti drammaturgicamente alti). Sì, stiamo parlando di un ritorno all’ovile e ad una Visione della saga supereroistica e del modello Marvel più formalmente convenzionale e narrativamente prevedibile. Ma, come si suol dire, l’abito non fa il monaco. E Captain America (and the Winter Soldier) non fa certo eccezione.
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