TITOLO ORIGINALE: Ant-Man and the Wasp: Quantumania
USCITA ITALIA: 15 febbraio 2023
USCITA USA: 17 febbraio 2023
REGIA: Peyton Reed
SCENEGGIATURA: Jeff Loveness
GENERE: azione, avventura, fantascienza
DURATA: 125 min
Peyton Reed torna dietro la macchina da presa del terzo capitolo delle avventure di Ant-Man e Wasp, declinando la formula familiare e comedy che ha sempre caratterizzato la serie sulla scala più ampia del regno quantico ed infinita del multiverso. Peccato che, nel fare questo, Quantumania vada a rompere il perfetto equilibrio tra micro e macro che rendeva godibili e divertenti i due precedenti capitoli, non trovando mai una quadratura, una sintesi tra due manie, che diventano due approcci al prodotto blockbuster e due estetiche di racconto. A peggiorare ulteriormente le sorti di un film spaesato e smarrito come il suo regista, i suoi protagonisti e l'universo di cui fa parte, un montaggio blandissimo e lacunoso, una computer grafica vergognosa e la totale mancanza di invenzione. Di quella invenzione capace di svoltare in pieno le sorti del primissimo capitolo.
La serie di Ant-Man è sempre ruotata attorno ad un racconto familiare e alla ricerca di un equilibrio, di una riappacificazione, di una riunione tra i suoi componenti, da cui, a sua volta, dipendevano le piccole o grandi sorti del mondo e dell’umanità. In questo senso, i due film diretti da Peyton Reed - e dedicati (lo ricordiamo) alle avventure dell’ex galeotto e talentuoso topo di appartamenti, poi supereroe buffo e spensierato, scaltro, divertito e divertente, interpretato con sempre impareggiabile charme da Paul Rudd - si sono sempre fondate su un rapporto logico e narrativo estremamente lineare e semplice tra il micro e il macro della vita, tra le cose (solo apparentemente) più trascurabili e quelle, invece, più sconvolgenti e definitive che il destino poneva di fronte ai protagonisti delle loro trame.
Una serie, in altre parole, con ambizioni tutto sommato ristrette, situazioni comuni e personaggi molto concreti, terreni, fallibili, senz’altro radicalmente lontani dalle divinità e dagli idoli che abbiamo sempre visto e vediamo tuttora scontrarsi su schermo in altrettanti franchise dell’odissea superomistica del Marvel Cinematic Universe.
Fatta questa doverosa premessa, nel momento in cui una serie come quella di Ant-Man (e Wasp, quasi dimenticavamo!) decide di declinare ed ampliare quella stessa formula - l’ennesima, in un macro-universo che, in piena continuità con la tradizione del feuilleton e, ovviamente, del primigenio comics statunitense, ha fondato il suo successo proprio sul replicarsi di formule, climax, fasi, luoghi, figure - su una scala più vasta, ambiziosa, assecondando e facendosi inebriare del tutto dalla via del fantastico/fantascientifico, ebbene, bisogna stare attenti che quel perfetto equilibrio tra micro e macro non tenda a tal punto da frantumarsi irreparabilmente.
È appunto (ahinoi) un po’ quello che succede col terzo capitolo delle disavventure di Scott Lang e famiglia - che è anche il primo della neonata ed incerta Fase 5 dello sterminato progetto di casa Disney -, sempre diretto da Peyton Reed, dal titolo Ant-Man and the Wasp: Quantumania.
Un titolo decisamente azzeccato, perché proprio di mania stiamo parlando: quella micro che, in maniera tanto pretestuosa quanto imbarazzante, (ri)trascina i nostri protagonisti nel regno quantico che si è speso un film (il primo) a comprendere ed uno (il secondo) a sfuggirgli; e quella macro di una Marvel la cui nuova fissazione, chiusosi da (ormai fin troppo) tempo il ciclo di Thanos, della Guerra dell’Infinito e del blip, è il multiverso, con tutte le sue elettrizzanti possibilità e le sue pericolosissime questioni in fatto di filosofia del cinema, percezione e partecipazione emotiva dello spettatore.
Queste due manie, qui, si convertono in due toni di racconto, in due vere e proprie estetiche. Da un lato abbiamo infatti Ant-Man (serie) per come l’abbiamo sempre conosciuta, ossia come commedia ed avventura familiare dal retrogusto anni ‘80, con qualche infiltrazione nel sotto-filone dell’heist movie (specie nel caso del primo capitolo). Dall’altro, vi sono giusto gli sconfinati estremi immaginifici e narrativi di milioni di possibili universi e d’infiniti mondi, che immaginari sono ed immaginari rimangono.
Peccato soltanto che questi due approcci al prodotto d’intrattenimento blockbuster - uno più votato alle situazioni e alle gag, l’altro all’esplorazione e all’immersione - innanzitutto non trovino mai una quadratura, una sintesi, un’amalgama, tant’è che è possibile discernerle quali entità a sé, compartimenti stagni durante la visione. Ma soprattutto che non riescano quasi mai a centrare gli obiettivi che si prefiggono.
Laddove allora la parte più scanzonata, puerile e melò trova i suoi rappresentanti in due figure marginali già pronte e consapevoli di diventare virali e oggetto di meme (un essere alieno con una curiosa, ma adorabile fissazione per i buchi, ed un villain di ritorno da uno dei due film, obbrobrio esistenziale e di computer grafica, lo scarto digitale di uno dei film d’animazione di Zemeckis), a sopperimento di una comicità estenuata ed estenuante, sempre e comunque prevedibile (tutt’altra storia Paul Rudd che imita Michelle Pfeiffer, o ancora i monologhi di un volatilizzato Michael Peña e delle sue labirintiche chiacchierate coi cugini), prodotto di uno stampo scaduto e avariato; d’altro canto, la parte più propriamente visiva, visionaria, favolosa, fantascientifica e di design tradisce una totale mancanza di originalità, aderendo e replicando - talora attestandosi sulla simpatica citazione, altre volte rasentando il livello del plagio - modelli d’ispirazione e riferimenti polverosi e secolari (ovvero il ciclo di Marte e tutto ciò che ne è venuto dopo, da Dune a Guerre Stellari), quando non endogeni come i marvelliani Guardiani della Galassia e i due Thor di Taika Waititi, oppure ancora più recenti ed interessanti come il disneyano Strange World (di cui il film riprende anche l’elemento familiare). Un continuo ed incrollabile rifarsi e rimescolare post-moderno che riduce il sapore avventuroso e il sense of wonder ad un’esposizione anacronistica, stantia e priva di qualsivoglia intuizione ed invenzione cosiddetta.
A sbilanciare ulteriormente la pellicola, un montaggio lacunoso e raffazzonato, costumi al limite della paccottiglia ed una realizzazione effettistica che definiremmo - in coro con le lamentele di artisti, tecnici e mestieranti per il carico insopperibile di lavoro richiesto dai Marvel Studios - vergognosa, così come abbastanza vergognoso ed inconciliabile, trattandosi pur sempre di un film votato all'escapismo e di soggetto fantastico, è la preponderanza ingessante di primi piani e diaframmi ampi (una mossa per venire incontro alle richieste materiali e tecniche di un film girato per la sua quasi interezza su blue e green screen) su volti e corpi di attori che, malgrado ce la mettano tutta nel regalare la migliore interpretazione possibile sulla base del fiacchissimo, verboso, didascalico (mai però quanto Doctor Strange nel Multiverso della Follia) e apatico copione di Jeff Loveness, restituiscono in pieno lo spaesamento e lo smarrimento di Peyton Reed, il quale, da regista di commedie qual è ed è sempre stato, è dovuto venire a capo di un compito di direzione e messa in scena più grande delle sue potenzialità ed effettive capacità in quanto film-maker.
Spaesato e smarrito, insieme a difettoso, stanco ed irrisolto sono dunque gli aggettivi che meglio descrivono Ant-Man and the Wasp: Quantumania, un'opera che, spersa e sparsa tra palazzi che si muovono e sparano, formiche che costruiscono civiltà tecnocratiche ed un Bill Murray che interpreta lo stesso personaggio già interpretato da Benicio del Toro in Guardiani della Galassia e Jeff Goldblum in Thor: Ragnarok, e viceversa una gravitas ed una tensione che vorrebbero rifarsi proprio ai bei vecchi tempi di Infinity War ed Endgame, ed un intreccio la cui posta in gioco è forse la più alta di sempre; si dimentica di valorizzare l’unico e singolo elemento che avrebbe potuto renderlo memorabile ed effettivamente accattivante.
Stiamo parlando nientemeno che del villain su cui si fonderà il futuro del Marvel Cinematic "Multiverse": di Kang, già incrociato nell’ultimo episodio dell’interessante Loki in una veste più inquietante e farsesca, che, malgrado la consacrazione interpretativa di Jonathan Majors (che avremmo preferito più in sottrazione), finisce proprio per incarnare quella stessa tensione irrisolta di cui sopra e a risultare, in ultima istanza, un cattivo sì temibile e potente, ma di passaggio. Uno che, non si sa per quale arcano motivo, si è deciso debba essere la prossima nemesi degli Avengers, vecchi (ed inscalfibili) e nuovi (a cui si aggiunge, a suon di slogan, la debolissima Cassie Lang di Kathryn Newton).
Forse perché lui lo sa come finisce, perché lui ha già visto tutto. Un’abilità che i Marvel Studios, superata una Fase 4 disorientata e disorientante, ancora non sembrano avere. Loro e soprattutto lui, Kevin Feige, che ha compiuto qualcosa di mai visto e sperimentato prima nella storia dell’industria hollywoodiana, potrebbero allora perire della loro progettualità singolare e dell’editorialismo impeccabile che ne ha tratteggiato l’ascesa e favorito il successo? Staremo ad osservare e, come sempre, a giudicare.
Intanto però non possiamo fare a meno di chiederci chi mai abbia deciso che fosse accettabile passare da un ladruncolo simil Robin Hood, che ruba in casa di una techstar, ex-membro dello SHIELD, da palazzi rimpiccioliti e trasportati come valigie e trenini Thomas che distruggono case, a tutto questo. A questa poco lisergica, poco vertiginosa e così poco divertente Quantumania.
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