TITOLO ORIGINALE: Dune
USCITA ITALIA: 16 settembre 2021
REGIA: Denis Villeneuve
SCENEGGIATURA: Eric Roth, Denis Villeneuve, Jon Spaihts
GENERE: avventura, fantascienza, drammatico
Presentato fuori concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Dopo Jodorowsky (che neanche è riuscito a produrlo) e Lynch (autore di un adattamento fallace e monco ma non completamente da buttare), il canadese Denis Villeneuve prova ad adattare il romanzo simbolo di Frank Herbert. Un cast stellare, un comparto visivo ed estetico che ci fanno ricordare il potere del grande schermo e grandi ambizioni narrative e cinematografiche: cosa potrebbe mai andare storto? Ve lo diciamo noi, un po’ di cose.
Pilastro della letteratura fantascientifica e non, vincitore, tra i tanti, di premi come il Nebula e l’Hugo, primo capitolo di un ciclo di opere equiparabile, per complessità narrativa, spessore argomentativo e magnificenza di visione, a quanto composto da Tolkien ne Il Signore degli Anelli (pubblicato giusto un decennio prima), Dune di Frank Herbert è sempre stato un mito (ed un libro) irriproducibile ed impossibile da trasporre per Hollywood e dintorni. Come sostiene Sandro Pergameno nella sua prefazione all’edizione Fanucci: “Nessun autore di fantascienza era riuscito a realizzare l’impresa di Frank Herbert, e cioè la creazione, fin nei minimi dettagli, di un ecosistema e di un universo completo”.
Dune non è solo la storia di un mondo e di un impero dalle reminiscenze carolingie, suddiviso e popolato da casate nobiliari (gli Atreides e gli Harkonnen, su tutti) che combattono tra di loro (apertamente o subdolamente) per il controllo di un pianeta arido e desertico, Arrakis, che custodisce la risorsa più preziosa di tutte, la spezia (conosciuta anche come melange), droga capace di allungare la vita, offrire la facoltà di prevedere il futuro e sbloccare tutte le potenzialità della mente umana, nonché carburante essenziale per il commercio, la comunicazione e, dunque, l’economia intergalattica.
Quella di Frank Herbert è infatti “la prima opera di fantascienza ecologica in senso stretto, probabilmente il primo romanzo che pone la coscienza dei lettori di fronte alle terribili conseguenze del consumismo estremo imposta dal sistema capitalistico”, e quindi - aggiungiamo - rappresenta quasi un monito alla popolazione della Terra da parte di un autore che già nel 1960 (la pubblicazione del libro risale invece al 1965) aveva previsto e vedeva ciò di cui oggi si sente parlare in ogni dove.
Se questo non dovesse bastare, vi basti sapere che, insieme all’ecologismo, Dune affronta ed intreccia tra di loro tematiche appartenenti alla filosofia, alla religione, alla politica e al mondo della tecnologia (per dirne alcune), sulla base sempre e comunque di una scrittura intensa, vivida e viva di emozioni, sentimenti, pensieri e percezioni.
Pertanto, capite bene come una complessità contenutistica, una copiosità di particolari e dettagli ed una magniloquenza narrativa e descrittiva simili possano mettere in crisi anche il più abile dei cineasti.
Il primo a provarci veramente, nel 1974, è il maestro cileno Alejandro Jodorowsky, che (ancor prima di leggerlo) decide di produrre una trasposizione del romanzo di Frank Herbert, dandone un’interpretazione metafisica ed estremamente personale (per tutti i dettagli e i retroscena, guardate il documentario Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich), mettendo insieme un cast di personalità di spicco del cinema e della musica da far girare la testa: Mick Jagger, Salvador Dalì, Amanda Lear e Orson Welles; e commissionando la colonna sonora nientepopodimeno che ai Pink Floyd. Purtroppo, non si riescono ad ottenere tutti i soldi per produrlo e il progetto finisce nello scantinato (insieme a ciò che di esso ne rimane tuttora, ovvero qualche copia della sceneggiatura, storyboard e alcuni studi preparatori).
Successivamente, nel 1984, arrivano i De Laurentiis, i quali affidano ad un David Lynch allora al suo terzo film, la regia e la sceneggiatura di una trasposizione autoconclusiva della durata di poco più di due ore. Purtroppo, il risultato è nientemeno che una maldestra ed irregolare sintesi delle quasi 600 pagine a disposizione, che, seppur forte di una produzione di tutto rispetto (almeno sulla carta), di un budget a prova di flop (cosa che il film infine è) e tra i più dispendiosi della storia del cinema, disseminato di trovate ed escamotage ingegnosi, e caratterizzato da un impiego innovativo degli effetti e da un visual e art design talora sbalorditivo, si rivela essere uno spreco clamoroso e abbastanza infelice del capolavoro di Herbert.
Detto ciò, se nelle sue trasposizioni, Dune, come detto in apertura, è divenuto quasi un mito ed una costante di fallimento all’interno della storia del cinema, lo stesso ha però avuto un grandissimo impatto ed un’influenza sostanziale su altre storie ed universi del grande e piccolo schermo. George Lucas, per esempio, ha sempre considerato il romanzo di Herbert come una delle maggiori fonti di ispirazione del suo Guerre Stellari, ma si potrebbe citare, tra i principali beneficiari dell’opera herbertiana, titoli come Star Trek, Le cronache di Riddick, Futurama e, addirittura, Nausicaa della Valle del vento del maestro Hayao Miyazaki.
Ma torniamo ai giorni nostri. Più precisamente, al Lido di Venezia e alla 78ª Mostra del Cinema, dove qualche giorno fa si è tenuta la prima mondiale del terzo tentativo (il secondo a vedere la luce) di adattamento cinematografico del racconto di Paul Atreides & co., quello prodotto, diretto e co-scritto da Denis Villeneuve, autore canadese che (secondo noi) ha raggiunto la sua piena maturità con alcuni dei thriller migliori degli ultimi anni, quali l’angosciante Prisoners, il criptico e labirintico Enemy e il travolgente Sicario.
Meno fortunato e ben più divisivo è stato invece il suo approccio alla fantascienza, inaugurato nel 2016 con l’intrigante Arrival, proseguito poi con Blade Runner 2049: film che, per un’interpretazione sbagliata del brand ed una promozione fuorviante, si è rivelato essere un inconcepibile flop al botteghino, con cui Villeneuve riesuma, con carattere, consapevolezza e grande senso di spettacolo visivo, un capolavoro intoccabile della storia del cinema, pur sbagliando il finale; e che oggi appunto vede l’arrivo del suo ultimo addendo.
A differenza del sequel del film di Ridley Scott [in cui il regista non doveva fare altro che prendere tutto ciò che di buono, sia in termini narrativi sia a livello visivo ed estetico, aveva fatto Scott ed integrarlo, aiutato da un Deakins eccezionale in fotografia, con la propria visione ambiziosa e monumentale, il proprio stile geometrico ed una mano estremamente salda in un racconto che si prestava e si presta bene ai toni seriosi, allentati ma, al contempo, coinvolgenti e maestosamente soffocanti, tipici del suo cinema], in Dune Villeneuve è chiamato a (ri)costruire cinematograficamente da zero un mondo vasto, tanto geograficamente e morfologicamente, quanto in ottica di narrazione e semantica. Ebbene, dopo averlo visto, possiamo affermare con certezza che, purtroppo, la missione è riuscita solo a metà e che inoltre quegli stessi toni seriosi, gravi e stolidi (che in Blade Runner 2049 aggiungevano quel quid in più, prestandosi con maggior coerenza e conformità alle premesse del film) qui costituiscono un grave attentato all’affabulazione di un universo che risorge dalle ceneri per proporsi anche ad un pubblico mainstream che probabilmente la trasposizione di Lynch non l’ha vista e che (cosa ancora più verosimile) del libro di Herbert non sa praticamente nulla
In tal senso, Denis Villeneuve non si smentisce, traslando nel suo Dune quell’imponenza, magnificenza ed eleganza visiva appena accennata in Arrival e sviluppata al meglio con il già ampiamente citato BR2049, costruendo, a partire da ciò, una visione del mondo di Herbert e, in particolar modo, di Arrakis che punta a strabiliare e ricordare allo spettatore la forza del grande schermo. Come? In primo luogo, mediante una fotografia (di Greig “Rogue One” Fraser) che si esprime ed esprime al meglio questo principio di grandiosità visuale nel campo lunghissimo, effetti visivi impercettibili in quanto tali e ben amalgamati con le scenografie medio-orientaleggianti e asettiche di Patrice Vermette e costumi estrosi e sofisticati (forse l’elemento più curato e di maggior pregio della produzione). Secondariamente, andando a comporre, insieme alle già citate scenografie, all’oggettistica (materiale o meno), a navicelle, armi e chi più ne ha più ne metta, un’estetica metallica e plumbea, compatta ed omogenea - seppur (a nostro avviso) inferiore a quella fluida, morbosa, talora schizofrenica, altre volte alienata del film di Lynch (da cui Villeneuve riprende moltissimo, soprattutto a livello iconografico).
Purtroppo sul lungo termine, questa continua ricerca di un’estasi visiva, unita ad una seriosità nei toni e nelle atmosfere reiterata e sostenuta fino allo sfinimento (tra i tanti, anche dalla stessa fotografia di Fraser che, seppur comunicativa e ciclopica, finisce per appiattire il tutto sotto una formale limitatezza cromatica), finiscono per fare del film e di questa visione e visualità titanica niente più che una masturbazione (dello spettatore, come dello stesso Villeneuve) fine a sé stessa e abbastanza pretestuosa. Soprattutto se a questa magniloquenza e sontuosità d’immagine corrisponde un gusto ed un valore immaginifico che, come detto sopra, saranno sì compatti, omogenei e meravigliosi, ma che non fanno altro che prendere ed occultare abilmente le proprie influenze e i propri riferimenti, risultando essere del tutto derivativi da capolavori dell’arte quali il Cristo del Mantegna e da altri prodotti audiovisivi ben più pregevoli (e non solo fantascientifici) quali Star Wars, Apocalypse Now, lo stesso Il Signore degli Anelli o, per citare un esempio relativamente più recente, Avatar di James Cameron (ironia vuole che Guerre Stellari e quest’ultimo debbano al libro di Dune gran parte della propria iconicità). In un film di questo calibro e di queste pretese, l’intuizione più originale non può essere un ratto che si procura l’acqua per sostentarsi attraverso il sudore che si deposita sulle sue orecchie. E, sempre in un film del genere, la colonna sonora (tra le peggiori di Hans Zimmer) non può essere così sciapa ed ingombrante o il sound design così banale ed approssimativo.
Ciò nonostante, le più grandi insidie di questo Dune risiedono nella sceneggiatura, co-scritta da Villeneuve insieme a Eric Roth e Jon Spaihts, la quale, sotto l’effetto di quella seriosità e pesantezza del comparto tecnico-estetico, opera un adattamento pedissequo, enciclopedico, zelante, sottomesso e, alla lunga, abbastanza noioso della prima metà del primo libro (fino all’incontro con Stilgar e Chani, per intenderci).
Villeneuve & co. buttano alle ortiche quindi l’insegnamento di Peter Jackson, che (a differenza del canadese), con la trilogia de Il Signore degli Anelli, ha creato la sintesi perfetta tra un approccio rispettoso dell’opera originale e del suo mondo ed una propria visione cinematograficamente funzionale. Al contrario, Villeneuve gioca sul sicuro e si assicura di non fare lo stesso errore di Lynch (il cui Dune di fatto finisce un po’ a tarallucci e vino), prendendosi i suoi tempi per introdurre per filo e per segno ogni singolo elemento e forza in gioco, tuttavia mai concentrandosi ad approfondirne qualcuno in particolare, di conseguenza, soffocando definitivamente il ritmo della pellicola (contraddistinta inoltre da una durata fin troppo esosa), il senso dell’avventura e quindi il brivido del pericolo e della tensione (sbagliato non far mostrare l’Imperium), la scoperta intuitiva e spontanea (qui invece cattedratica e verbosa) di un mondo nuovo e, per ultimo, l’affabulazione nei confronti di ciò che vuole mostrare.
Se a tutto ciò aggiungiamo, in seconda battuta, una caratterizzazione generale e generalista, inconclusa e preferenziale dei personaggi positivi (dei villain non parliamo neanche, dal momento che non esistono), una componente semantica ed argomentativa appena accennata e superficiale (l’ecologia, la critica al capitalismo, il parallelo con la situazione araba - quanto mai attuale - sono tutti limitati ad una trattazione epidermica) ed un cast che, all’infuori di un Timothée Chalamet credibilissimo (sul cui fisico Villeneuve marcia molto e accenna una minima analisi), si limita a fare presenza per staccare qualche biglietto in più; fare il compito assegnatogli senza quel calore, quella passione e quella immedesimazione necessaria per coinvolgere il pubblico nel loro destino e nelle loro propaggini future.
A proposito di futuro, uno degli aspetti che più abbiamo detestato del Dune di Denis Villeneuve (e, in questo caso, anche della sua campagna pubblicitaria) è la sua inconcludenza e la slealtà - specie se il film dovesse essere un flop - nei confronti del pubblico. Difatti, non solo una buona parte delle scene più epiche dei vari trailer (e la presenza della stessa Zendaya, qui pedina meramente promozionale) sono frutto di brevissime visioni di Paul e fungono, nel racconto, da semplici anticipazioni di quello che verrà, ma, ancor prima che lo schermo si illumini con le immagini e i (pochi) colori di Arrakis, compare il titolo del film seguito da un Parte 1, a sottintendere ovviamente la possibilità che, tra qualche anno, potremmo vedere un Dune - Parte 2 e che quindi, anche in base a quello riferito dallo stesso Villeneuve, si possa chiudere il cerchio e completare la trasposizione del primo libro. Mossa, quella di inserire occultamente “Parte 1” e dunque di non produrre un film parzialmente risolutivo, commercialmente comprensibile, ma (a nostro avviso) deleteria e (specie nell’esempio succitato delle visioni teaser) di pessimo gusto in termini cinematografici.
La pellicola infatti è molto più simile all’interminabile e prolisso pilot di una serie televisiva (dove sono i detrattori Marvel quando servono?), ad un coito iniziato e subito interrotto, ad un assaggio, monco, deludente e squilibrato, di un secondo film che, ricordiamo, non è ancora entrato in pre-produzione; all’introduzione di un qualcosa che verrà, ma della cui venuta non siamo ancora completamente certi, dal momento che i capoccia Warner decideranno il da farsi in base agli incassi di questo Atto Primo.
Una prospettiva che assume toni sempre più preoccupanti considerato il budget impiegato (165 milioni di dollari), un periodo, quello pandemico, di incassi magrissimi e di insuccessi cocenti al botteghino (anche di prodotti insospettabili come Black Widow e The Suicide Squad) e, in particolar modo, la nebulosità riguardo al tipo di pubblico a cui un film del genere - che è una via di mezzo tra il blockbuster, il kolossal e il cinema arthouse - dovrebbe essere rivolto. È dunque bene riflettere e domandarselo: Dune supererà la prova dell’attesa?
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