TITOLO ORIGINALE: The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring
USCITA ITALIA: 18 gennaio 2002
USCITA USA: 10 dicembre 2001
REGIA: Peter Jackson
SCENEGGIATURA: Peter Jackson, Fran Walsh, Philippa Boyens
GENERE: epico, fantastico, avventura, drammatico
PREMI: 4 OSCAR tra cui MIGLIORE FOTOGRAFIA e MIGLIOR COLONNA SONORA
Il malvagio Sauron, sovrano oscuro di Mordor, forgia 20 anelli magici e li dona ai signori dei vari popoli che abitano la Terra di Mezzo. Tuttavia, egli tiene per sé l'Unico, l'anello che permette a chi lo indossa di comandare tutti gli altri. Scoperto l'inganno, i 19 signori ingaggiano una dura e sanguinosa battaglia contro il Signore Oscuro, ma, dopo averlo sconfitto, Isildur, re degli Uomini, si rifiuta di gettarlo nel Monte Fato e così porre fine al suo potere corruttore e, allo stesso tempo, impedire a Sauron di fare ritorno...
Recensire ed analizzare Il Signore degli Anelli: una delle trilogie migliori della storia del cinema, uno dei mondi più vivi e vibranti che mai siano stati creati (su carta e su schermo), un’autentica rivoluzione del modo di fare e concepire il blockbuster; non è certo cosa semplice.
Confrontarsi con un’opera che non solo è riuscita a sdoganare il fantasy presso il grande pubblico, librandolo e liberandolo quindi dalla nomea e dalla reputazione di “cosa da nerd” quando ancora alla parola corrispondeva un’accezione sminuente, ma che aveva altresì il compito - a dir poco titanico - di trasporre e tradurre per il grande schermo uno dei testi più complessi, vasti, articolati e venerati della letteratura del Novecento, è una sfida equiparabile al viaggio intrapreso dal nostro Frodo per distruggere l’Unico Anello e così salvare la Terra di Mezzo dalle mire e dall’oscurità di Sauron.
Ciò nonostante, pur non sapendo ancora quale sarà l'esito e come questo nostro tris di articoli verrà recepito, sarà questo il viaggio che Cinemando intraprenderà nelle prossime settimane. Si avvicinano infatti i 20 anni dell’uscita de La Compagnia dell’Anello nelle sale italiane e, per l’occasione, tutti e tre i film torneranno in sala, per la prima volta, nella versione rimasterizzata in 4K. È e sarà quindi un onore, da parte nostra, accompagnarvi in questo ritorno nella mitica Terra di Mezzo con una retrospettiva dedicata ad ognuno dei tre capitoli di questo miracolo cinematografico, che poi non è altro che il racconto e il compimento di un sogno.
Di chi? Di Peter Jackson, ovviamente.
Iniziamo perciò questa nostra recensione e analisi dello storico primo capitolo del “trittico dell’Anello” con una frase dello stesso regista, contenuta in uno degli innumerevoli dietro le quinte e documentari sulla realizzazione della trilogia:
Lessi il libro quando avevo 18 anni e la prima cosa che pensai fu: "Non vedo l'ora che ne traggano un film". Ho atteso questo momento per 20 anni.
Risale infatti al 1978 il primo contatto del cineasta con il mondo ideato e proposto da J. R. R. Tolkien, scrittore, filologo, glottoteta, accademico e linguista originario di Bloemfontein nello Stato Libero dell'Orange (oggi Sudafrica), considerato uno dei padri del (high) fantasy, insieme al contemporaneo C. S. Lewis e a George MacDonald. Più precisamente, alla trasposizione animata che Ralph Bakshi realizzò dell’opera al tempo e che Jackson, nonostante tutto, ringraziò e ringrazia per averlo spinto alla lettura del testo originale e per averlo illuso successivamente della possibilità che “Disney o registi come George Lucas o Steven Spielberg” potessero tirarne fuori una versione live action. Illusione che lasciò spazio ben presto alla constatazione dell’impossibilità ed infattibilità di una trasposizione del manoscritto con le tecniche e tecnologie cinematografiche dell’epoca.
Fu però solo grazie ad uno dei capolavori dello stesso Spielberg - Jurassic Park (1993) - e al cambiamento che questo apportò rispetto all’uso della computer grafica e degli effetti visivi, che il neozelandese (allora reduce da un corpus di pellicole abbastanza indefinibile, sospeso tra il fiabesco, il satirico e il grottesco) si decise a buttare giù, insieme alla moglie Fran Walsh, una prima bozza di soggetto per un adattamento a cui, meravigliandosene, “nessuno sembrava pensare”. Tuttavia, i primi baluginii di produzione si palesarono solo qualche anno più tardi. Più esattamente nel 1997, quando la Miramax di Bob e Harvey Weinstein acquistò i diritti del libro per due film da tre ore, a seguito dello stop dei lavori su un remake di King Kong.
A far partire la lavorazione una volta per tutte, fu però il dietrofront degli stessi Weinstein (che l’anno seguente pretesero che Jackson condensasse l’opera di Tolkien in un solo film da tre ore), che condusse il neozelandese alla porta della New Line Cinema. Quest'ultima, dopo una chiacchierata di 45 minuti con il cineasta, non solo concesse al neozelandese la regia di ben tre film (uno per libro), ma gli permise, come se non bastasse, di girarli tutti e tre insieme (dicasi anche, per essere più tecnici, back-to-back). Un vero e proprio primato per l’industria hollywoodiana.
Dopo un lungo e meticoloso periodo di pre-produzione - tra varie stesure della sceneggiatura, casting, ideazione visuale ed iconografica della Terra di Mezzo con l’aiuto dei disegnatori Alan Lee e John Howe, e sua ricerca in termini di location [il destino volle e Jackson stesso pretese, per ragioni di realismo, che fosse la Nuova Zelanda, sua madre patria, lo sfondo delle avventure di Frodo & co.] -, nell’ottobre del 1999 ebbero inizio i 274 giorni di riprese, a cui seguirono poi quasi due anni di post-produzione e rifinitura effettistica presso gli studi della Weta Digital (fondata dallo stesso Jackson) ed infine, il 10 dicembre 2001, la première de La Compagnia dell’Anello a Londra.
Il resto, come si suol dire, è storia. Il primo capitolo dell’epopea della trilogia dell'Anello sorprende oltre ogni aspettativa, incassando più di quanto ci si sarebbe aspettati [più di 800 milioni di dollari], raccogliendo il plauso unanime di critica e pubblico e dando così inizio alla lunga ed impervia conquista, da parte dell'universo jacksoniano, dell’immaginario collettivo e cinematografico. Detto ciò, quello che chi scrive è chiamato a definire ed individuare nelle righe che seguono (e in quelle che seguiranno nelle prossime settimane) è però il motivo, o i motivi, per cui Il Signore degli Anelli e, in questo caso, La Compagnia dell’Anello lo hanno conquistato, quell'immaginario.
Come anticipato sopra, trasporre uno dei testi più complessi, vasti, articolati e venerati della letteratura del Novecento, che ha influenzato innumerevoli saghe letterarie (tra cui Dune, Shannara, La Torre Nera o anche solo Harry Potter) e filmiche, come lo stesso Guerre Stellari di George Lucas, è un’opera a dir poco titanica, oltre che estremamente rischiosa. In tal senso, l’amore di Jackson per il mondo creato da Tolkien ne ha influenzato nel miglior modo possibile la traduzione per il grande schermo. Un amore, quello del neozelandese, che fortunatamente non è sinonimo di rispetto incondizionato e di pedissequità. Anzi, è in primis nell’adattamento del manoscritto originale che Jackson dà prova di un approccio alla materia (e alla Terra di Mezzo) totalmente asservito alla resa filmica e alla fruizione del grande pubblico.
Ne conseguono pertanto scelte difficili, ma cinematograficamente necessarie, come la completa rimozione del personaggio di Tom Bombadil (e dunque l’elisione di una buona parte del viaggio dei quattro hobbit) o il condensamento di tutta quanta la backstory ideata dall’autore, qui ridotta ad un paio di sequenze, tra cui figura una di battaglia che, a suo modo, rimedia l’esiguità e pavidità dei conflitti quivi contenuti, anticipando invece quelle magniloquenti e magistrali che vedremo ne Le due torri e ne Il ritorno del re.
Ed è proprio in merito a suddetto prologo e alla battaglia di Barad-dûr che riscontriamo un altro passaggio fondamentale di questo rapporto di Jackson con l’epica tolkieniana, con la sua prosa (universalmente nota per la sua ricchezza lessicale e per la sua pomposità sintattica) e la sua dettagliatezza. Elementi, questi ultimi - a cui ci sentiamo di aggiungere anche le magnifiche illustrazioni dei già citati Lee e Howe -, che, se da un lato hanno aiutato notevolmente il regista nella visualizzazione e creazione della Terra di Mezzo filmica, dall’altro non gli hanno di certo reso la vita facile.
Come sostenuto sopra infatti, Jackson riesce a distaccarsi dal manoscritto, quando è chiamato a costituire una visione della storia quanto più cinematograficamente fruibile. Ciò nonostante, è in momenti come l’incipit de La Compagnia dell'Anello che il neozelandese recupera e omaggia il retaggio letterario e l’essenza lirica del materiale che sta trasponendo, traendo interi passaggi dalle pagine di Tolkien e facendoli letteralmente recitare da una voce off (quella di Galadriel) a commento e narrazione di quanto rappresentato su schermo.
Quindi, se da una parte una buona parte dell’esito di questo primo capitolo della trilogia dell'Anello è da riconoscere ovviamente all’immaginazione e alla precisione di Tolkien, dall'altra altrettanto è da attribuire allo stesso Jackson e alla sua accortezza nel confezionare una visione che potrebbe apparire sommariamente devota a primo acchito, ma che in realtà potremmo definire più come un “piede in due scarpe”, come una via di mezzo perfettamente bilanciata tra l’omaggio e insieme il massimo sfruttamento del materiale originale e l’ideazione di un universo in cui si riconosce la firma jacksoniana e che, come anticipato sopra, ha poi turbato e sovvertito, nel miglior modo possibile, la percezione del fantasy presso il grande pubblico.
Difatti, il secondo fattore che ha permesso alLa Compagnia dell’Anello di conquistare l’immaginario collettivo e cinematografico è appunto la visione registica e la concreta resa filmica della Terra di Mezzo, sia orizzontalmente sia verticalmente.
Superato un prologo che, come detto sopra, predice tutta la magniloquenza, grandiosità ed epicità dei due capitoli successivi, Jackson restringe notevolmente il campo (e, ironicamente, la fisicità dei protagonisti del quadro filmico), immettendoci veramente e per la prima volta nella Terra di Mezzo. Il punto di partenza è quindi la Contea, patria degli Hobbit e del nostro Frodo, che il cineasta propone e presenta allo spettatore con una grazia, un incanto ed un'innocenza simili a quelli dei bambini al loro primo approccio ed immersione nel mondo delle fiabe. Pian piano e per mezzo di incantevoli piani lunghi su questo mondo incontaminato e riservato, veniamo così a conoscenza di Hobbiville, dei suoi abitanti, delle sue dinamiche interne e, mediante primi piani ed interpretazioni eloquenti, dei “protagonisti iniziali” di questa avventura.
Facciamo quindi la conoscenza di Frodo, giovane hobbit e protagonista tanto atipico quanto assoluto, con cui il pubblico si immedesima ed immedesimerà fin da subito, giacché profano di tutto ciò che si trova oltre la soglia di casa sua. Di Gandalf il Grigio, sul cui disvelamento si fondano i 20/30 minuti iniziali: presentatoci inizialmente come “disturbatore della quiete”, come uno stregone specializzato non tanto in incantesimi nel senso stretto del termine, quanto più in trucchi pirotecnici, egli , in realtà, è ben più potente e saggio di quanto si potrebbe immaginare. Di Bilbo Baggins, zio di Frodo, il cui ermetismo ed equivocità appaiono, a differenza di Gandalf, fin dalla prima comparsata su schermo e si faranno sempre più vividi e chiari con l'incedere dei minuti. Ed infine dei tre hobbit che accompagneranno Frodo nel suo viaggio attraverso la Terra di Mezzo: Sam, che, diversamente da quanto avverrà già solo ne Le due torri, qui è ancora e perennemente scritto e raffigurato come un aiutante; e Merry e Pipino, i due veri ed unici comic relief (e aizzatori dell’intreccio) della pellicola, talora anche troppo insistenti ed insistiti.
Una volta conclusa la sequenza della festa di compleanno di Bilbo, la grazia, l'incanto e l'innocenza sopracitati - così come formulati dalla messa in scena dolce e festosa di Jackson, dall’espressivo lavoro fotografico di Andrew Lesnie e sottolineati dal commento musicale pizzicato e soffice di Howard Shore - lasciano spazio a quelli che saranno i toni e le atmosfere che la pellicola abbraccerà per la restante porzione, salvo qualche frammento (gran parte di quello ambientato a Gran Burrone, per esempio), in cui si riscoprono, per l'appunto, il fascino, la suggestione e il lirismo naturale e spirituale per e della Terra di Mezzo.
Ad annunciare queste gradazioni drammatiche, pessimistiche, finanche catastrofiche è la fuga di Bilbo da Hobbiville che - sorpreso da un Gandalf che inizia a rivelare anch’esso il suo vero potere, la sua conoscenza, il suo ruolo da maestro ed infine il suo peso decisivo ai fini della trama - si rivela e insieme rivela allo spettatore l’entità della missione che la Compagnia sarà chiamata a compiere e l’irrefrenabile forza corruttrice dell’Unico Anello.
Aspetti, questi ultimi, già epicamente anticipati dal prologo, ma concretizzati ed espressi in tutto il loro fatalismo in un segmento che Jackson e la sua macchina da presa compongono mediante una perversione ed un’estremizzazione dei punti macchina (si fanno sempre più frequenti le varie inquadrature dal basso verso l’alto, le soggettive inquiete, l’avvicinarsi millimetrico, dalle coordinate quasi horrorifiche, ai volti degli attori, ad espressione del generale clima di ansia e terrore) ed un’enfasi, in sede di montaggio, sul particolare della mano nervosa di Bilbo che armeggia nel taschino, oppure ancora sul dettaglio dell’Anello nella mano (o tra le mani) che sembra richiamare l’attenzione di filmico, pro-filmico e pertanto del pubblico. (Composizione, quest'ultima, dai fini irrequieti ed angosciosi che tornerà immutata per tutta la durata del racconto.)
Perciò, l’occhio e le fantasticherie del Jackson-bambino cessano di esistere (quasi) del tutto e vengono soppiantate da una forma filologicamente realistica, specie per quanto riguarda le scenografie, i props e le coreografie - corrispondenti a stili di combattimento distinti e diversificati a loro volta - delle ridotte, ma ben collocate sequenze di combattimento, a loro modo entusiasmanti, seppur ancora grezze e circoscritte; e da un’accentuazione grave e sfrontatamente mitica delle vicende. Un intreccio, quello trasposto e composto dal trio Jackson-Walsh-Boyens, che ciononostante non disdegna, anzi integra, in modo equilibrato e coerente, elementi umoristici e farseschi, quando non grotteschi, capaci di sfiorare talora i confini del cartoon [vedasi l’ingresso dei Nazgul al villaggio di Brea e il guardiano che viene letteralmente “stirato” sotto il portone], già sfruttati e “maneggiati” da Jackson nella sua filmografia precedente.
La Compagnia dell’Anello imbocca così la via del viaggio omerico - nel senso di esperienza che restituisce un senso al mondo e alla vita, di scoperta della realtà, di prova di sé stessi e di tensione verso l’ignoto - e ritrova l’epica cavalleresca, il folklore e l'iconografia medievale (quella dei cicli dei Nibelunghi o della Tavola Rotonda) nei personaggi che chiudono il cerchio dell'improbabile combriccola (presente nel titolo, ma quasi mai vincente e/o indiscutibilmente dominante).
Parliamo quindi di Aragorn: l’Ulisse del nostro racconto, un anti eroe (qui ancora “visto di sbieco”) oscuro e tenebroso protagonista di un personale viaggio per diventare l’eroe che è destinato ad essere; un personaggio dal background inizialmente indefinito e fumoso, ma che, con il passare dei minuti - come tanti altri, d’altronde -, si svela in tutte le sue molteplici sfumature e nell’attrito tra un retaggio infame e disonorevole ed un trono da reclamare. Di Boromir, cavaliere, viceversa, socialmente riconosciuto ed accettato che farebbe di tutto per il proprio popolo; incarnazione condensata dei compagni di Ulisse, incapaci di resistere al canto delle sirene, che qui si trasmuta nel richiamo luciferino dell’Anello. Di Legolas ed infine di Gimli, personaggi ancora marginali, il primo unico, grande baluardo di quell’azione spettacolare che la farà da padrone a partire da Le due torri, il secondo protagonista di uno dei momenti più emozionali ed emozionanti del film.
Pertanto, se la visione che Jackson ha dell’adattamento dell’opera di Tolkien, del racconto del contesto de Il Signore degli Anelli e della composizione e rappresentazione dettagliata e accorta dell’universo della Terra di Mezzo - in riferimento al ritorno di Sauron e al viaggio di Frodo & co. - costituisce un fattore essenziale ai fini della succitata conquista dell’immaginario, parimenti importanti, in tal senso, sono anche gli stessi personaggi, che, ne La Compagnia dell’Anello (ma non solo), possono essere visti e letti come l’espressione di una tensione tra “persona” e “personaggio”, risultante in un compromesso tra il fantasy aureo e splendente ed uno più realistico, più incentrato sulle sfumature interiori e psicologiche e sull’”umanizzazione” di suddetti personaggi.
Se esteticamente quasi tutti rispondono ad esigenze e canoni estetici ben precisi e riconoscibili (quelli dell’high fantasy tolkeniano, per l’appunto), d'altro canto la sceneggiatura riesce a superare la regalità e l’elevatezza delle descrizioni e della prosa di Tolkien e dar vita ad un parterre di personaggi che, seppur abitante di un mondo magico-fantastico, risponde ad assiomi, ad ansie, inquietudini e bisogni propri dell’uomo e con cui, perciò, è facile immedesimarsi.
In questa parvenza di fragilità e fallibilità caratteriale, il discorso di Jackson è puntellato da un casting altrettanto meticoloso e metodico, nonché fisionomicamente impeccabile. Un Elijah Wood eloquente, seppur acerbo, un Ian McKellen radioso ma tutt’altro che intoccabile ed un Viggo Mortensen che non fa altro che bucare lo schermo guidano un ensemble di attori che è, a tutti gli effetti, un perfetto mix tra volti semisconosciuti, lontani dallo stardom e pertanto semanticamente perfetti per quel contrasto “persona-personaggio”, e volti noti, ma a cui (guarda caso) vengono solo affidati ruoli autoritari o di potere. E’ questo, per esempio, il caso di Hugo Weaving nei panni di Elrond, re degli Elfi, o di Cate Blanchett, semplicemente perfetta nel ruolo della mistica e fatata Galadriel.
Come potete ben leggere, non si finiscono mai gli argomenti quando si parla di un’opera come Il Signore degli Anelli o anche solo prendendone in considerazione i singoli capitoli, come, in questo caso, La Compagnia dell’Anello.
Potremmo e avremmo potuto parlarvi quindi del perfezionismo quasi maniacale nella creazione e nell’impiego degli effetti speciali da parte della Weta Workshop. O dell’uso innovativo dei vfx ad opera dei tecnici della Weta Digital, ancor oggi metro di paragone per tutte quelle (poche) produzioni che tentano (spesso invano) di replicare l’incantesimo della trilogia di Jackson. Perché non citare altresì i modi con cui il neozelandese adatta per il grande schermo e riesce a rendere memorabilmente toccanti sequenze come la morte di Boromir o il sacrificio di Gandalf? Dobbiamo proprio ribadire la capacità, da parte del regista, di gestire e valorizzare tutte le varie anime compositive della pellicola (tra cui l’epocale e migliore colonna sonora di Howard Shore e il montaggio monumentale di John Gilbert), senza però venir meno ai bisogni intrinseci e primari di quello che è, in fin dei conti, un film di largo consumo? Allora perché non elencarvi tutte le varie curiosità contenute già solo all’interno di questo primo capitolo? Perché per questo esistono i siti appositi e non avremmo mai voluto e vogliamo che questo articolo si riduca ad una banalizzazione di un'opera che, di banalizzazioni, non ne sento certo il bisogno. In terzo e ultimo luogo, non vorremmo approfondire e così privarci, fin da subito, di papabili e future argomentazioni su cui ci sarà tempo e spazio di indugiare, tra cui gli effetti che la trilogia ha avuto sul mondo del cinema e non solo.
Desidereremmo dunque concludere questo primo viaggio tra le lande della Terra di Mezzo, offrendovi quelle che, a nostro avviso, sono tuttora le tre perfette definizioni de La Compagnia dell’Anello: una visione rispettosa e devota all'opera letteraria, ma tutto fuorché asservita, il perfetto esempio di come gli adattamenti dovrebbero essere concepiti e realizzati, ma soprattutto uno degli apici del blockbuster hollywoodiano, che, proprio con questa pellicola, si slega dal pregiudizio della commercialità bieca ed artisticamente mediocre, ritrovando una dimensione autoriale e cinematograficamente impegnata che, tuttavia, non pregiudica un potenziale successo di pubblico.
La strada è tutta in salita, il viaggio è appena iniziato. A rilleggerci sotto Le due torri!
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N. B. La recensione è riferita alla versione cinematografica del film