TITOLO ORIGINALE: The Suicide Squad
USCITA ITALIA: 5 agosto 2021
USCITA USA: 2 agosto 2021
REGIA: James Gunn
SCENEGGIATURA: James Gunn
GENERE: azione, fantascienza, commedia
La squadra di supercattivi comandata da Amanda Waller si riunisce per infiltrarsi in un’isola dell’America Centrale governata, col pugno di ferro, dallo spietato Silvio Luna e dal suo braccio destro Mateo Suarez, e distruggere una risorsa aliena a potenziale uso militare.
In seguito al divorzio con i Marvel Studios, James Gunn, acquistato dalla concorrenza, dirige il seguito di Suicide Squad di David Ayer, film abbastanza deludente, confuso e talora fin troppo serioso, che contribuì a "lanciare nell'iperuranio" il personaggio di Harley Quinn e renderla un'icona pop. Cambiato di titolo, di cast, di rating e di intenzioni, il brand della Squadra Suicida va incontro ad una nuova primavera sotto la guida di James Gunn, il quale scrive e dirige un film che arriva ad abbracciare i toni del war movie, le atmosfere della commedia romantica, l'iconografia del junkie movie e lo spettacolo del monster movie. Un'opera che taglia i rapporti con la sua predecessora e (superficialmente) con lo sgangherato disegno DC/Warner, concentrandosi piuttosto sul confezionare e mettere in scena una bella storia, con personaggi carismatici ed immediatamente memorabili, ed un intrattenimento senza freni inibitori. Non per tutti i palati.
È con una battuta inaspettata, ma ben piazzata “(meglio) Task Force X, Suicide Squad è degradante” che James Gunn mette fin da subito le cose in chiaro e taglia i ponti con tutto ciò che, di “degradante” appunto, è venuto prima. Alias il Suicide Squad di David Ayer, un cinefumetto deludente, disordinato, a volte falsamente puerile e sopra le righe, altre volte dannatamente e noiosamente serioso, con personaggi deboli e poco carismatici - all’infuori forse di Harley Quinn - e villain a dir poco ridicoli.
Ma se quella (quasi) impercettibile scoccata non dovesse rendere abbastanza l’idea, allora vi basterebbe guardare anche solo i primi 10 minuti di The Suicide Squad per capire di cosa stiamo parlando. Incipit che, dopo l’attacco di Folsom Prison Blues di Johnny Cash in versione live, si apre con una sequenza il cui unico protagonista è nient’altri che il Savant di Michael Rooker. Una scelta, quella di cominciare con Rooker, non certo casuale od involontaria. Fermate però la curiosità, perché per scoprirne il motivo, dobbiamo prima fare qualche passo indietro ed introdurre, a chi di voi non dovesse conoscerle, la figura e la carriera di James Gunn.
Nato e cresciuto (cinematograficamente parlando) a pane e stranezza nella Troma di Lloyd Kaufman e Michael Herz, casa di produzione e distribuzione di film low-budget indipendenti (principalmente di genere orrorifico) all'insegna dell'eccesso - sia esso sotto forma di violenza, nudità, oscenità, scurrilità o provocazione -, Gunn collabora, con lo stesso Kaufman, a pellicole come il cult Tromeo & Juliet (di cui firma la sceneggiatura) e Terror Firmer, ritenuto da molti la summa dello stile, dell’iconografia e delle tematiche tipiche della house.
Qualche anno dopo (un primo approccio con il filone superomistico, sceneggiando The Specials di Craig Mazin), più precisamente nel 2002, riesce però a fare la sua prima apparizione sulla scena hollywoodiana, firmando la sceneggiatura dei due film live action dedicati a Scooby-Doo e de L’alba dei morti viventi, l’esordio-remake di Romero di un certo Zack Snyder (che andrà anche a Cannes). Questo non significa però un abbandono delle origini e della propria natura da provocateur: è del 2008 infatti la webserie parodica ad argomento pornografico James Gunn's PG Porn.
Il 2006 è l’anno dell’esordio alla regia (solista) cinematografica, con Slither, un horror a basso budget dalle influenze carpenteriane che si converte fin da subito in una piccola perla dell’indie cinema. È invece di qualche anno più tardi, Super - Attento crimine!!!, pellicola incentrata sulla cruda e realistica storia di un "supereroe senza poteri", in cui Gunn gioca e sperimenta a briglia sciolta con il genere supereroistico e con i suoi numerosi cliché, affermando con fermezza il proprio stile e la propria poetica.
Uno stile ed una poetica che egli traspone e mitiga nel momento in cui Kevin Feige, lungimirante aziendalista e direttore creativo di quell’operazione titanica che è il Marvel Cinematic Universe, lo contatta per scrivere e dirigere la origin story di un team di improbabili supereroi che, fumettisticamente parlando, non godeva di chissà quale popolarità. Stiamo parlando, ovviamente, dei Guardiani della Galassia, testata e personaggi che Gunn comprende appieno, fa suoi, stravolge e trapianta in una delle pellicole più fresche, personali ed irriverenti (pur dovendosi rivolgere anche ai più piccoli) del grande disegno Marvel. Talmente riuscita da costituire un vero e proprio rinascimento per il brand (dei Guardiani, s'intende) e da fare del nostro regista di St. Louis (solo qualche mese prima, considerato “di nicchia”) una delle personalità più in vista e più richieste del panorama hollywoodiano.
L’inaspettato successo di pubblico di Guardiani della Galassia porta i Marvel Studios ad ordinare immediatamente un sequel che, per quanto ci riguarda, altro non è che un’evoluzione in tre e più dimensioni degli svariati pregi di cui si fregiava il primo capitolo.
Poi, il colpo di scena (come in tutte le migliori storie, d’altronde). Il 20 luglio 2018, la Disney annuncia il licenziamento di Gunn a seguito del ritrovamento di alcuni suoi tweet (risalenti al periodo Troma) in cui questi ironizzava su temi come lo stupro e l’Aids.
Molti pensavano allora che il regista non avrebbe mai più lavorato a Hollywood e sarebbe forse tornato alla scena indipendente. Al contrario, Warner/DC prende la palla al balzo e commissiona a Gunn la scrittura e la regia del seguito del Suicide Squad di David Ayer - che “lanciò nell’iperuranio” la figura di Harley Quinn, ma deluse a destra e manca -, permettendogli inoltre numerose libertà sia in termini produttivi sia dal punto di vista creativo, come, ad esempio, portare con sé la quasi totalità dei propri sodali collaboratori.
Uno di questi è appunto Michael Rooker, la cui presenza iniziale assume pertanto una valenza completamente nuova. Infatti, oltre ad essere uno dei feticci di Gunn sin dai tempi di Slither, l’attore ha interpretato Yondu, uno dei personaggi principali e più riusciti dei due film sui Guardiani. In tal senso, Rooker rappresenta, in questa prima sequenza di The Suicide Squad, non solo l’eredità Marvel (Savant/Rooker definisce i propri colleghi, prima concorrenti, dei “principianti”), ma anche il “furto” compiuto, ai danni della Disney, da parte di un Gunn comprensibilmente indispettito e amareggiato dal comportamento della major.
Un’idea che questi ostenta impudentemente, quasi ad affermazione del predominio e di una rivincita della visione e della personalità dell’autore contro la politica e l’egemonia ubiqua dello o degli studios, e che, a sua volta, oltrepassa i confini della sequenza, divenendo pilastro imprescindibile e permeando ogni singolo fotogramma di questa sua nuova avventura in casa DC.
Quella di Gunn è dunque una duplice sfida: da un lato, dimostrare alla Disney (con cui si è da poco riappacificato) quello e colui al quale hanno rinunciato, dall'altro, fare meglio e far dimenticare l'esordio (già dimenticabile di suo) del team di supervillain gestito da Amanda Waller. Magari partendo da una premessa pedissequa a quella del primo film, ma ridotta all’osso, così da permettere ai personaggi (e allo spettatore) di entrare fin da subito (a differenza di quanto avveniva in Ayer) nell’azione, uno degli aspetti in cui la mano di Gunn e le libertà concessegli si percepiscono con più forza e vividezza.
Un’azione, quella di The Suicide Squad, che fuoriesce direttamente dalla fucina e dal periodo Troma del regista: violenta nel vero senso della parola e in tutti i sensi che potreste avere in mente (dunque graficamente, verbalmente, psicologicamente e chi ha più ne metta) e (finalmente) senza alcun tipo di complesso o vergogna. Vero, Ayer?
Smembramenti, teste tagliate a metà, nudità, scurrilità ogni due per tre, battute a sfondo sessuale (quella di Harley “Adoro la pioggia. Sono gli angeli che si fanno una sega su di noi” su tutte), satira e critica socio-politica, la morte più vicina ad una mercificazione, una Waller veramente spietata, una regia funzionale e asservita, ma tutt’altro che restia dall’ intraprendere e dal comporre inquadrature ricercate, stravaganti ed imprevedibili o scenari del tutto folli, quando non sognanti e quasi poetici:
The Suicide Squad è quello che il film di Ayer avrebbe dovuto essere, ma che purtroppo al tempo non ebbe il coraggio di essere.
Ma tornando alla questione della “premessa pedissequa”, possiamo dire che anche ciò che Gunn fa in sede di sceneggiatura su soggetto e racconto è di per sé una “violenza”. Se astratta, la pellicola è infatti perfettamente inquadrabile nelle tre fasi del viaggio dell'eroe, nella forma sostenuta dallo studioso Joseph Campbell e ribadita dallo sceneggiatore Christopher Vogler. Ciò nonostante, il regista, allo stesso modo dei suoi personaggi, si diverte a dissezionare la continuità e dar vita ad un intreccio complesso, discontinuo e frammentato, ma non per questo complicato.
Merito anche e soprattutto di un montaggio eclettico e sciolto che spezza il naturale corso di quella che è, essenzialmente, una missione di infiltrazione - in un’isola dell’America Centrale (Corto Maltese) governata, col pugno di ferro, dallo spietato Silvio Luna e dal suo braccio destro Mateo Suarez - e distruzione - di una risorsa aliena a potenziale uso militare di cui l'establishment statunitense, nella figura di Amanda Waller, ha paura possa scagliarsi contro la nazione - con flashback e parentesi, alternando e congiungendo punti di vista e pezzi del racconto a proprio piacimento.
Sempre mantenendoci nei lidi del racconto, con un occhio però anche alla messa in scena, un’altra “violenza” (più simile ad una profanazione) che il nostro di St. Louis compie è quella concernente il mix di stimoli, influenze, iconografie ed atmosfere che questi riesce a condensare in poco più di due ore di film. Grandi cult come Quella sporca dozzina (che viene citato anche da una delle locandine), Quel maledetto treno blindato, Patton, generale d’acciaio (nella sfilatainiziale della Task Force X di fronte ad una gigantesca bandiera americana), fino ad arrivare al più recente Salvate il soldato Ryan sono solo alcuni dei titoli che The Suicide Squad richiama e a cui fa palese riferimento nelle sequenze relative e precedenti allo sbarco del team sulle spiagge di Corto Maltese. Riferimenti e strizzatine d’occhio comunque vagliate e contraddistinte da un’estetica ed una messa in scena (vedasi i travelling velocizzati quasi da reperto di guerra) totalmente emancipate e parimenti riconducibili alla mano e all’occhio di Gunn dietro la macchina da presa.
Seguono poi un segmento totalmente ambientato nella giungla dell’isola caraibica, in cui fungono da palese rimando film come (per l’azione e per come viene costruita) Rambo 2 e (per la fotografia umidiccia e livida) Platoon di Oliver Stone; e sezioni, una centrale ed una finale, in cui si torna su atmosfere più pertinenti ad un team supereroistico che ad un plotone di soldati scelti, nel quale però Gunn riesce ad adottare (ed adattare) i toni della commedia romantica, di una via di mezzo tra un trip da junkie movie e l'animazione (in quella stupenda sequenza di evasione di Harley Quinn, in cui il sangue dei nemici si trasforma in uccellini e fiori) e del kaiju movie.
L’ultima grande ed eclatante “violenza” che il nostro regista di St. Louis compie è sicuramente quella, a volte, a favore o, altrimenti, ai danni dei propri personaggi. In un universo cinematografico, quello DC, caratterizzato, fin dai suoi primi baluginii, da giganteschi complessi di inferiorità, proporzionalmente opprimenti, e da insensate, ma necessarie dimostrazioni di una conoscenza enciclopedica riguardo alla mitologia e alla storia editoriale dei personaggi trasposti su schermo, la visione efferata e sadica di un Gunn più simile ad un macellaio costituisce quantomeno una miracolosa boccata di aria fresca.
Prima grande nota di merito di The Suicide Squad e del modo in cui costruisce i propri paladini risiede nel fatto che questi vengano caratterizzati non tanto attraverso dialoghi illuminati o monologhi amletici, alla lunga pedanti e didascalici, quanto piuttosto attraverso un character design di prim’ordine e grandi interpretazioni.
Successivamente, è bene far presente che, alla stregua di quanto fatto con Guardiani della Galassia, anche in questo caso il cineasta ha preso la controparte cartacea, l’ha fatta sua, stravolgendola completamente, e l’ha trasposta su schermo, dando vita a quella che, per lui, era ed è la versione migliore e più funzionale di quei determinati personaggi e delle loro storie.
Tuttavia, a differenza di quanto avvenuto in Marvel, qui la scelta dei personaggi da trasporre (con ogni probabilità) è stata - salvo eccezioni - del tutto sua. Gunn ha quindi ripercorso tutta la storia editoriale del super gruppo e fatto una cernita dei membri (tra i tanti che hanno popolato le fila del team dal 1959 ad oggi), selezionando quelli che più lo stimolavano o che meglio potevano adattarsi e donare qualcosa di unico, stravagante od insolito alla sua Suicide Squad.
Quindi sì Harley Quinn (qui in una veste completamente nuova, meno reginetta del ballo e più succube della mascolinità tossica), Captain Boomerang (poraccio!), Rick Flag (arricchito di maggiori sfumature e ben più convincente) e i due nuovi (e veri) protagonisti: Bloodsport (il leader e la figura paterna che il Deadshot di Will Smith, poiché soffocato dal carisma dello stesso attore, non riuscì ad essere nel film di Ayer) e P(e)acemaker (un antieroe caratterizzato come si deve, un personaggio ridicolo che desidera essere preso sul serio costi quel che costi e il portavoce della poetica del film).
Ma anche personaggi finora di nicchia come King Shark (ben più divertente, nella sua feroce innocenza, di Groot, a cui presta la voce, così come il supereroe albero, un’icona del genere action), Ratcatcher (l’anima emotiva del film), Polka-Dot Man (il personaggio più “gunniano”, caratterizzato dallo stesso complesso che, probabilmente, funesta Zack Snyder e il suo cinema), Thinker, il già citato Savant, Javelin, TDK (un Nathan Fillion memorabile, seppur nel suo poco screentime) e tanti altri.
Con The Suicide Squad quindi James Gunn realizza la summa della sua idea di cinecomics, dando vita ad un’opera dal retrogusto dolcemente malinconico, che, dal cartaceo, riprende ben più dei soli personaggi (vedasi le scritte di raccordo e/o di chiarificazione temporale). Assistere ed accompagnare la missione suicida (che è finalmente “il nostro mestiere”) di Bloodsport e compagni regala una sensazione simile a quella che si può provare quando, nel momento del trasloco, si ritrovano e riscoprono scatoloni pieni di vecchi fumetti, giocattoli, magari neanche nostri, magari neanche bellissimi o di chissà quale valore, che avevamo accatastato lassù a prendere polvere, ma che una volta ripresi in mano risvegliano in noi una miriade di sensazioni diverse, ma indiscutibilmente agrodolci.
Sempre restando in ottica fumettistica, la storia di James Gunn, se inserita nel grande(?) progetto DC, può apparire quasi come un addendo minore e di poca importanza; come un trip allucinato e pulp più interessato a raccontare una bella storia e divertire il pubblico con uno spettacolo senza freni inibitori.
Tuttavia, è proprio questo suo essere al di fuori e non dover rispondere alle logiche creative e produttive di una major come la Warner che fanno di The Suicide Squad non solo il miglior film dell’universo cinematografico DC (non che ci volesse molto), ma anche uno degli esponenti più godibili ed originali del filone cinefumettistico... ma non il migliore. Infatti, seppur estraneo alla sgangherata macro trama del mondo DC/Warner, il finale è parso a chi scrive come un timido, seppur mascherato, ritorno all’ovile. Allo stesso modo, è abbastanza evidente come alcuni personaggi (Harley Quinn, ad esempio) non possano finire sotto la scure del regista, per ragioni di contratto o per esigenze commerciali.
A questi difetti, si sommano, in ultima istanza, una colonna sonora concettualmente troppo simile a quelle dei due Guardiani e talora neanche così travolgente ed una durata fin troppo sbrodolata (soprattutto, sulle note finali). Incrinature comunque minime rispetto ai pregi complessivi di una pellicola che, proprio per i motivi sopraelencati, potrebbe non piacere a tutti e non è certamente adatta (e neanche fatta) per ogni tipo di palato. Ed è proprio per questo motivo che il giudizio finale su The Suicide Squad verte su una domanda dalla risposta alquanto soggettiva: tu, lettore, preferisci un film libero e libertino che spazia dallo splatter alla commedia demenziale, dall’art house al blockbuster, dal cinefumetto al dramma dalla forte dialettica (sistematicamente) anti-americana e anti-imperialista, ma più consueto nell’epilogo; o un film più abbottonato e asservito ad un grande progetto, ma (possibilmente) ligio alla propria natura dall’inizio alla fine?
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