TITOLO ORIGINALE: Thor: Love and Thunder
USCITA ITALIA: 6 luglio 2022
USCITA USA: 8 luglio 2022
REGIA: Taika Waititi
SCENEGGIATURA: Taika Waititi, Jennifer Kaytin Robinson
GENERE: azione, avventura, fantastico, fantascienza
Taika Waititi torna dietro la macchina da presa delle avventure del Dio del Tuono in Thor: Love and Thunder, ventinovesimo inserto cinematografico del Marvel Cinematic Universe. Un intreccio esile e minato da innumerevoli tagli, tuttavia funzionale, è il giusto pretesto di un testo che racconta fondamentalmente la crisi d'identità ossimorica di un personaggio che non ha mai avuto un'identità precisa, il quale si mette alla ricerca del motore dell'esistenza (e, di conseguenza, del film stesso): l'amore. Malgrado i numerosi difetti ed alcune visibile imprecisioni, Love and Thunder si rivela essere una scombinata, piaciona e, per certi versi, miracolosa fiaba glam rock, con un cuore da eterno Peter Pan. Un'opera che sta e starà a voi scegliere se amare o combattere, scagliando tuoni e saette o bussando alle porte del paradiso.
Alienante. È questo, nel bene e nel male, l’aggettivo con ci sentiamo di descrivere Thor: Love and Thunder, ventinovesimo inserto cinematografico del (mai così) variegato, vivo, altalenante, singolare, unico, smisurato, multimiliardario, storico Marvel Cinematic Universe e quarto capitolo della saga norrena-galattica dedicata a quel Dio del Tuono, Thor Odinson, che Stan Lee, Larry Lieber e Jack Kirby trasmutarono in un supereroe e in un'icona pop del loro nuovo e frizzante universo a fumetti, nel lontano 1962.
Ed alienante, Thor: Love and Thunder, lo è forse perché proprio il suo protagonista è alienato, estraneo al suo stesso habitat naturale, esistenzialmente insoddisfatto, frustrato, colto da un insopprimibile senso di amarezza, delusione, se non addirittura depressione rispetto a ciò che è e ciò che ne sarà di lui. Il Thor che ritroviamo all’inizio di questo secondo matrimonio del Dio col "regista emblema della contemporaneità” [Francesco Alò] Taika Waititi, ossia con colui che lo ha ridefinito dalle fondamenta, e in modo a dir poco dirompente (vedi il precedente e controverso Thor: Ragnarok), ha attraversato e sta attraversando infatti una profonda crisi di identità.
Nato, non solo anagraficamente, ma anche spiritualmente e politicamente, negli anni ‘60, sotto la stella dei primi venti di contestazione e rivoluzione, il nostro Thor ha da tempo smarrito la via e sente lentamente l'incedere di quella solitudine, di quella necessità di dare una ragione a ciò che si è oggi e per cui si è lottato ieri, di quegli iniziali sintomi di vecchiaia che accolgono un po’ tutti noi, una volta giunti alla fine del primo tempo della nostra vita. E questo, pur trattandosi di un personaggio che un'identità (cinematografica) ben definita non ce l'ha mai avuta e malgrado né lui, né tantomeno Chris Hemsworth (sempre convincente, divertito e preciso nel dar corpo agli intenti di Waititi) si possano dire tutt’altro che vecchi od avvizziti, specie dal punto di vista fisico.
Ciò nonostante, il figlio di Odino (e, attenzione, stiamo parlando esclusivamente della versione del personaggio ripensata e desacralizzata da Waititi) prova in tutti i modi a sentirsi ancora utile, importante, vivo, innanzitutto facendo squadra con i suoi prodromi estetici, immaginifici e comici, i Guardiani della Galassia (in un cameo di cortesia), i quali gli rivelano la chiave ultima della felicità umana; la destinazione e il fine ultimo di quelli che saranno poi, a tutti gli effetti, l’avventura e l’intreccio di Thor: Love and Thunder: l’amore.
Amore, come quello che Gorr, l’ultimo superstite di una razza aliena dalla pelle biancastra, prova, da un lato, per la figlia, morta dolorosamente di stenti, e provava, dall’altro, per una divinità dionisiaca che tradisce ogni sua certezza e promessa di fede, rivelandosi in tutta la sua falsità, spietatezza ed arroganza, rivelandogli inoltre che non esiste alcun paradiso dopo la morte.
Dunque, un amore doppio ed intrecciato, che porterà l’alieno (un Christian Bale un po’ Jim Carrey, un po’ Tim Curry, che torna al cinefumetto con l’esatta antitesi, in termini di scrittura e interpretazione, del Batman della trilogia nolaniana) a giurare vendetta, sangue e morte a tutti gli dei dell’universo, tra cui anche il nostro Thor. Questi, d’altro canto, riabbraccia, dopo “otto anni, sette mesi e sei giorni”, l’amore più intenso e grande della propria, lunghissima e divina vita, ovvero la dottoressa Jane Foster (una Natalie Portman deliziosa e divertita), da poco trasformatasi nella potente Thor nella speranza di poter trovare un rimedio ad un cancro all’ultimo stadio che la sta pian piano uccidendo.
È quindi l’amore, come forse avrete intuito, il motore che muove l’esile ma funzionale trama di Thor: Love and Thunder e, anzitutto, l’immaginazione, la penna e la macchina da presa del neozelandese Taika Waititi. Perché - forse un po’ troppo retoricamente - è proprio l’amore a guidarci ogni giorno ed è sempre l’amore la via di fuga per ogni crisi e da realtà che - Sorrentino ci perdonerà - è scadente. Oppure ancora, come affermano due personaggi imprevedibili e pittoreschi in una delle sequenze più riuscite della pellicola, è l’amore e, con esso, la necessità di rileggere, rappresentare, inscenare e dissacrare la realtà il modo migliore per non affogare nelle sue bieche acque. Per non affogare, in altre parole, in un reale, in una verità, in un qui e ora che si mostrano (e mettono in mostra) in tutta la loro mediocrità e il loro squallore. Un abbandono ed una miseria, questi ultimi, perfettamente concentrati e raffigurati dal personaggio di Zeus, interpretato da un esilarante, eccentrico, untuoso e sessuato Russell Crowe, che parla come un gangster e sul cui stardom Taika Waititi gioca in maniera dissacrante e ridicola, secondo la migliore tradizione delle commedie nere.
Ciò detto, è comprensibile, anzi addirittura sacrosanto distruggere, indignarsi e sentirsi delusi in merito alla pellicola più eccessiva, anarchica, caotica, puerile, cartoonesca e, soprattutto, discutibile e problematica dei Marvel Studios. Ed è giustissimo lamentare la pochezza e la mancanza di ingegno narrativo, una componente drammatica, epica e d’azione che sembra inserita forzatamente e controvoglia, afflosciando di conseguenza tutto il terzo atto, una messa in scena che non sempre rispetta gli standard raggiunti in questi anni dal pantheon cinefumettistico (c'è da dire infatti che Waititi e il direttore della fotografia Barry Idoine se la cavano più che altro nella composizione della singola inquadratura), un montaggio spesso non idoneo e talora frettoloso ed una CGI che mostra più di una volta i suoi limiti.
Sarebbe tuttavia parimenti ingeneroso non riconoscere e premiare i lampi di assoluto genio di una mente dinamica, frizzante, iperattiva (e, per questo, potenzialmente estenuante) come quella di Taika Waititi, che, quando azzecca ritmo e tempi comici, dà vita a parentesi di pura e divertentissima follia (basti pensare alla sequenza dentro la navicella dei Guardiani). Di una mente e di un cinema la cui cifra peculiare sta nel modo in cui quest'ultima sa innestare e mescolare così bene linguaggi e generi (la rom-com che ridefinisce o la fiaba che fa da cornice alla narrazione sono gli esempi eccellenti di questo discorso), omaggiando intelligentemente interi immaginari - dal glam rock dei Guns N’ Roses all’europop degli ABBA, ovvero quella sregolatezza e quel ridicolo così sovrabbondanti ed eccessivi che fanno il giro e diventano classici - e i (qui meno soffocanti) anni ‘80/’90, che rivivono nei ricordi favolosi, infantili, bambineschi di un cineasta nato e cresciuto con Jean Claude Van Damme, Arnold Schwarzenegger (e il qui citato Last Action Hero), con le iconiche commedie dei Monty Python, le grandi e colorate space opera o i piccoli e siderali horror nello spazio (come Punto di non ritorno), e la mania animatronica di un cinema analogico ed artigianale.
Un cinema, un passato ed un ricordo che, ogni tanto, qua e là, fanno capolino tra le pieghe di un mondo, al contrario, artificioso, finto, costruito, impeccabile, sontuoso ed ideale, pronto per essere demolito assieme alle sue ossessioni, ridendo… o urlando, come fa, in maniera comicamente impeccabile, una coppia di capre-groupie.
Ciò che è certo è che, mai come questa volta, nemmeno nel caso di Ragnarok, ci troviamo di fronte ad un prodotto che, per alcuni, potrebbe addirittura essere il migliore di una Fase 4 ancora editorialmente indefinita, ma senz’altro variopinta, per altri invece, la prova definitiva dei limiti, all’interno del filone cinecomics, di Taika Waititi.
Tuttavia, se siete tra coloro che hanno esultato per la creatività e libertà autoriale concessa a Sam Raimi nel precedente Doctor Strange nel Multiverso della follia, dovreste essere, se non soddisfatti, quantomeno contenti della libertà accordata, seppur non sempre per il meglio, allo stesso Waititi in Thor: Love and Thunder. Un film a dir poco unico nel suo genere, con un livello di eccesso, ironia e sguaiata demistificazione che finora non si era mai visto in casa Marvel. Una scombinata, piaciona e, per certi versi, miracolosa fiaba glam rock, con un cuore da eterno Peter Pan. Un'opera che sta e starà a voi scegliere se amare o combattere, scagliando tuoni e saette o bussando alle porte del paradiso.
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