TITOLO ORIGINALE: È stata la mano di dio
USCITA ITALIA: settembre 2021
REGIA: Paolo Sorrentino
SCENEGGIATURA: Paolo Sorrentino
GENERE: drammatico
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
A vent’anni dal suo esordio alla regia e alla sceneggiatura cinematografica, L’uomo in più, Sorrentino torna a Napoli e alla sua terra d’origine per dare anima e corpo ad un racconto intimo e personale, un romanzo di formazione allegro e doloroso e forse uno dei suoi film più belli; il più privato, il più sentito, ma anche il più necessario, poetico, elegiaco, profondo, spassoso e commovente che inaugura una nuova, promettente via espressiva per il cinema dell’autore premio Oscar.
“Alla fine torni sempre qui, nel tuo fallimento. Che ci vai a fare a Roma? Solo gli stronzi vanno a Roma. Sai quante cose ci sono da raccontare in questa città? Hai una cosa da raccontare?”. Seppur parafrasato, così Antonio Capuano, famoso regista partenopeo, incalza Fabietto Schisa - interpretato da un Filippo Scotti simile, nella recitazione e nell’aspetto, al miglior Timothée Chalamet, quello di Chiamami col tuo nome (il primo ma non certo l’ultimo degli omaggi del film al recente capolavoro di Luca Guadagnino, vedasi la bellissima inquadratura finale) - in una delle più belle sequenze di È stata la mano di Dio.
Decima opera scritta e diretta dal premio Oscar (per La grande bellezza) Paolo Sorrentino, in concorso al festival del cinema di Venezia, È stata la mano di Dio è la chiusura di un cerchio umano, emotivo ed artistico apertosi vent’anni fa, nel 2001, proprio al Lido, dove il partenopeo fece il suo esordio con quel grande ed intimo film che è L’uomo in più (l’unico suo altro film ambientato a Napoli, che riprende vita e riecheggia tra le pieghe di quest’ultimo lavoro).
Spiega Sorrentino in conferenza stampa: “È stata la mano di Dio è, per la prima volta nella mia carriera, un film intimo e personale, un romanzo di formazione allegro e doloroso. Il film è costruito su di me, parla della mia storia personale, ma non sarà autobiografico [...] è un insieme di racconti di esperienze personali, di racconti inventati e di storie che mi sono state raccontate da altri”.
Parole, queste ultime, che, terminata la visione, trovano certamente un riscontro nell’intreccio e nelle immagini. Tuttavia, è anche vero che, quando un grande autore si approccia ad un’opera, mette sempre un pezzetto della propria anima all’interno della creazione e di ciò che vediamo sul grande schermo. E, permettetecelo, con È stata la mano di Dio - successivo ad un periodo di proverbialità e di ridondanza stilistica, estetica e narrativa che vede il suo culmine (peggiore) nell’inconcludente Loro - Sorrentino (ri)entra di diritto nel pantheon dei grandi autori e dei grandi registi, asciugando il proprio stile registico e spogliandosi di tutto ciò che, da Il divo in poi, lo ha portato sia verso il successo e la fama mondiale, ma anche e soprattutto verso quell’ampollosità e sentenziosità che non abbiamo particolarmente apprezzato in alcune delle sue ultime produzioni.
Il film, un coming of age che sfocia nella commedia, (solo in apparenza tra) nel solito vignettismo sorrentiniano, nel melodramma e nella tragedia reale e realistica, ma che conserva, malgrado ciò, un velo di misticismo e di mistero; è, come già spiegato dallo stesso regista, la storia di quello che indubbiamente è il suo alter ego, tale Fabietto Schisa, studente del liceo classico (e si sente) e il racconto della sua giovinezza a Napoli, tra mare, parenti, scoperta di sé stesso, del proprio corpo e dell’amore per le donne - soprattutto per zia Patrizia (una Luisa Ranieri che Sorrentino rende erotica, agognata ed inarrivabile, come la Anita Ekberg de La dolce vita), di cui è invaghito e che è “da sempre” la sua “musa”, come le rivelerà in seguito - e per il cinema… nonostante abbia visto “solo tre film”.
Ma, come ricorda Capuano in quella stessa sequenza succitata, “senza dolore (da non confondere con la speranza) non si fa cinema”, “senza conflitto non si progredisce”. Ecco quindi che, oltre al racconto di Fabietto e, attraverso i suoi occhi, della Napoli degli anni ‘80 (a cui, gli anni ‘80, per una volta, ci si riferisce, senza dipenderne ed esserne oppressi), È stata la mano di Dio diventa un’elaborazione del lutto, da parte del suo autore, per la morte dei genitori, asfissiati nel sonno dal monossido di carbonio. Una tragedia familiare che, per pura fortuna, risparmia Fabietto e risparmiò Sorrentino, il quale, in quel momento, si trovava allo stadio a vedere Maradona, che proprio in quegli anni venne acquistato dal Napoli, dando inizio ad una delle migliori stagioni del calcio partenopeo, ma anche italiano.
In tal senso, il titolo È stata la mano di Dio si riferisce proprio alla leggenda argentina e al goal che segnò, aiutandosi con la mano, contro l’Inghilterra nei quarti di finale dei Campionati del Mondo di Messico ‘86, che qui trova la sua sublimazione poetica nell’intervento di colui che, per Fabietto e Sorrentino, è il Dio del calcio e non solo. Colui che, di fatto, salva, nel film, la vita del nostro protagonista e ha graziato, nella realtà, anche lo stesso regista, che, in quel momento, si trovava allo stadio a tifare per il suo idolo, invece che a Roccaraso con i genitori.
Sorrentino dunque mette tutta la sua vita, tutto il suo essere, nonché le motivazioni che lo hanno spinto ad intraprendere una carriera nel cinema in un testo che fa della rappresentazione (colpisce moltissimo la dolcezza e la commozione con cui questi si immagina e mette in scena la presunta morte di mamma e papà) una sorta di metodo di riappacificazione con i demoni del passato e, al contempo, un ritorno che è anche una lettera d’amore commossa, commovente e romantica, ma non per questo pretestuosa e svenevole, per Napoli, i suoi scorci, le sue strade, il suo tacito equilibrio tra bene e male, le sue superstizioni (perspicacemente e comicamente rielaborate), la sua luce, la sua oscurità (Fabietto verrà a contatto marginalmente anche con l’ambiente della malavita), gli incontri che essa offre e la stramba fauna umana che ospita. Ma non solo.
È stata la mano di Dio è anche il ricordo di coloro che, ad un certo punto, sembrano essere i fantasmi della sua infanzia, siano essi veramente esistiti o meno. A tal riguardo, uno dei maggiori punti di forza della pellicola è proprio la scrittura indubbiamente perfetta, estremamente divertita, ma parimenti sentita dei personaggi, i quali, seppur contraddistinti, nel primo dei due principali macro segmenti della pellicola (collocati rispettivamente prima e dopo la morte dei genitori), da quel vignettismo e quella caricatura tipica del cinema sorrentiniano che guarda a Fellini e a I Vitelloni, pian piano (e, in particolare, nel secondo segmento) rivelano drammi, tragedie e profondità di caratterizzazione inimmaginabili e sempre trattati con il giusto afflato e la giusta misura.
Se poi a questo uniamo interpreti - nomi del calibro di Toni Servillo, Teresa Saponangelo e Renato Carpentieri - che riescono ad autoeliminarsi come attori e (specie nel caso di Servillo) come divi e celebrità del grande cinema italiano, dando vita inoltre ad un rapporto quasi simbiotico con i personaggi che sono chiamati a recitare; e dialoghi che fanno del realismo e della concretezza talora anche sboccata il proprio vanto, allora Saverio, Maria, Franco, Alfredo, Marchino e pure lo stesso Fabietto diventano in tutto e per tutto delle figure veraci e genuine, memorabili e trascinanti.
Una volta morti papà Saverio e mamma Maria, per Fabietto giunge il tempo della maturità, che può rispondere essere intesa anche come perdita della verginità; e del dolore, il quale però assume in lui una vena di speranza, di immagine, di una necessità di fare ed essere o, più banalmente, del futuro.
Un futuro che ciononostante non può esistere senza aver fatto pace e aver assorbito la lezione dei fantasmi del proprio passato e di un’esperienza di vita luttuosa e solitaria e senza il superamento dei miti e dei lumi della propria giovinezza. Vale a dire Maradona, Capuano e Fellini. Dal primo, simbolo di perseveranza, Fabietto inizia a non essere più così coinvolto. Il secondo, per il protagonista, ma soprattutto per Sorrentino, ha funzione di mentore e funge da avversario dialettico in una sequenza più simile ad una seduta di psicoanalisi, la quale ha “sé stesso davanti e dietro la macchina da presa della vita” come oggetto di studio ed osservazione. Il terzo invece, massimo riferimento cinematografico del Sorrentino regista, esprime il motivo per cui Fabietto (e quindi Sorrentino) decide di muovere i primi passi nel mondo del cinema.
“Il cinema ti distrae dalla realtà, che spesso è scadente”, così dice il giovane Schisa, citando Fellini, nelle note finali di È stata la mano di Dio. Tuttavia, per quanto scadente e cattiva possa essere la realtà e nonostante il desiderio del nostro Fabietto di rifugiarsi nell’immaginazione, sono proprio la realtà e la vita concreta, reale, vissuta sulla propria pelle ad aver permesso a Sorrentino di firmare forse uno dei suoi film più belli, oltre che il più privato, il più sentito, ma anche il più necessario. Un’opera poetica, elegiaca, profonda, insieme spassosa e commovente, che inaugura una nuova, promettente via espressiva per il cinema sorrentiano - che finalmente “tiene qualcosa da raccuntà” - e che porta l’autore ad un passo dal palmares, dalla vittoria del Leone d’Oro e probabilmente, anche grazie alla distribuzione Netflix, all’avvento di un grande successo internazionale.
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