TITOLO ORIGINALE: Doctor Strange in the Multiverse of Madness
USCITA ITALIA: 4 maggio 2022
USCITA USA: 6 maggio 2022
REGIA: Sam Raimi
SCENEGGIATURA: Michael Waldron
GENERE: azione, avventura, fantastico, fantascienza, orrore
A quasi dieci anni di distanza dal visionario Il grande e potente Oz, Sam Raimi torna dietro la macchina da presa in Doctor Strange nel Multiverso della Follia, ventottesimo inserto dell'erculeo Marvel Cinematic Universe, sequel del film del 2016 di Scott Derrickson (rimasto in veste di produttore esecutivo). Una convivenza comprensiva, fatta di concessioni e compromessi reciproci, tra due spinte teoricamente antitetiche, tra le necessità macro-narrative del disegno Marvel, perorate da una sceneggiatura verbosa, scriteriata e fin troppo limitata del Michael Waldron di Loki, e l’espressività di una grande mente creativa, ritrovabile invece nei marchi di fabbrica, firme compositive, contrassegni artigianali, punteggiature, sfizi e rimandi ai più grandi successi del cineasta, è il paradigma alla base di una pellicola che è, in fondo, la costruzione crescente e costante di uno showdown finale, in cui lo stile e l'estetica di Raimi esondano in un tripudio autoalimentato di idee registiche creative e grandi soluzioni visive; in una vera e propria incursione dei feticci del suo cinema.
C’è un momento, in Doctor Strange nel Multiverso della Follia - ventottesimo inserto del grande Marvel Cinematic Universe, sequel del film del 2016 di Scott Derrickson (che rimane come produttore esecutivo e consigliere) -, durante il quale chi scrive ha ritrovato quella Follia promessa nel titolo. È quando, a circa venti minuti dalla fine, il nostro Doctor Strange affronta il suo sé di un altro universo, corrotto dal potere di un libro d’incantesimi maledetto, a colpi di Bach e Beethoven, trasformando la musica in attacchi e difese mistiche.
Un momento di pura estasi cinematografica e musicale, in cui le immagini e l'immaginario proposti dal regista Sam Raimi - coadiuvato a sua volta dal direttore della fotografia John Mathieson (X-Men L'inizio, Logan) - entrano in perfetta sinergia con la colonna sonora di Danny Elfman (il folletto della composizione; collaboratore sodale dello stesso Raimi, da lui preteso per questo film), qui davvero folle e spericolato, nonché impegnato in entusiasmanti citazioni (prima che ai già citati Bach e a Beethoven, a sé stesso e a Michael Giacchino, curatore delle musiche della origin story di Derrickson).
Peccato che, volente o nolente, Doctor Strange nel Multiverso della Follia sia - sempre nell'idea di chi vi scrive - un film complessivamente frenato e represso, in balia di due spinte presenti in modo e maniere differenti tra loro.
Da un lato infatti, ci si trova di fronte ad un ouverture, un’anticipazione, un assaggio, ma anche una spiegazione del concetto di Multiverso, con tutti i suoi paradigmi, le sue dinamiche, i suoi punti fermi, i suoi termini tecnici; ad una prosecuzione di quanto visto in serie come WandaVision e Loki, oltre che nel precedente capitolo Spider-Man: No Way Home. In altre parole, al nuovo tassello di una Fase 4 di cui si comprendono gli intenti, ma, ad oggi, non ancora la direzione.
Dall’altro, invece, Doctor Strange nel Multiverso della Follia è anche e soprattutto il ritorno dietro la macchina da presa (a dieci anni di distanza dal visionario Il grande e potente Oz) di Sam Raimi, mente dietro La casa, Darkman, L'armata delle tenebre; colui a cui Kevin Feige (tenutario di questo mosaico di storie e personaggi) e i Marvel Studios sono e dovranno essere eternamente grati, poiché, senza la sua trilogia di Spider-Man e il suo lavoro di nobilitazione espressiva e commerciale del filone cine fumettistico, oggi, questa loro grande saga non esisterebbe.
Ciò detto, questo dualismo, questo scindersi tra due spinte e due esigenze teoricamente antitetiche, tra le necessità macro-narrative dell'universo marvelliano e l’espressività di una grande mente creativa; è, in realtà, tutt’altro che violento o nervoso. Anzi, a giudicare anche da quanto riportato dallo stesso Raimi in numerose interviste, ha più che altro l’aria di una convivenza comprensiva, fatta di concessioni e compromessi reciproci.
Per tutta la prima metà, infatti, il cineasta sembra intenzionato a ricreare la sensazione, lo spirito, il clima di un tipico film Marvel, quasi dovesse riacquistare un posto all’interno di un mondo che lo aveva abbandonato e gli era avverso, mostrare devozione ad un filone che riabbraccia dopo tanti anni e riprendere sicurezza con le proprie possibilità. Ciò nonostante, già dal prologo, si percepisce qualcosa di diverso, di bizzarro, di eccentrico in alcune scelte compositive. Scelte dietro cui, una volta arrivati allo scontro con Gargantos, una gigantesca creatura tentacolare, per le strade di New York, è praticamente impossibile non riconoscere la mano e lo sguardo di Sam Raimi. Solo lui, infatti, sa riprendere la Grande Mela in quel modo, sa utilizzarne le altitudini e la densità per dar vita ad adrenalinici scontri volanti, riesce a farla sentire viva, popolosa, strabordante di persone che diventano periodicamente bersagli della benedizione/maledizione del supereroe (la filosofia familiare e riconoscibile che guidava anche le primissime sceneggiature fumettistiche di Stan Lee).
Soltanto sua, e di pochi altri, può essere inoltre l’ossessione per una costruzione dell’inquadratura in cui la componente mostruosa, viscida, gargantuesca, strisciante è così ingombrante, invadente, soffocante. E così, fino all'ultima mezz'ora, continua l’avventura del Maestro delle Arti Mistiche (riportato su schermo da un Benedict Cumberbatch chiamato ad interpretare quattro versioni del suo personaggio, che egli riesce a distinguere e caratterizzare modulando le tonalità della propria recitazione e del proprio corpo) attraverso lo sconosciuto Multiverso, questa volta in compagnia di America Chavez (una simpatica Xochitl Gomez), ragazzina proveniente da un’altra dimensione dotata del potere, seppur abbia ancora problemi a controllarlo, di viaggiare liberamente tra gli universi.
Raimi si mostra accondiscendente e mimetico, meno anarchico e più di maniera, meno imprevedibile e più citazionista, nella trasposizione della sceneggiatura di Michael Waldron, tuttavia tinteggiando, in modo elegante e misurato, alcuni momenti specifici, con marchi di fabbrica, firme compositive, contrassegni artigianali, punteggiature, sfizi, riproposizioni e rimandi visivo-estetici ai suoi maggiori successi.
Come non citare, pertanto, l’attacco di Kamar-Taj, la fuga di Wanda, in pieno stile Drag Me To Hell, dalla trappola in cui Strange e Wong tentano di rinchiuderla, i momenti di spiegazione ed esposizione, spesso coloriti da un montaggio che vira verso il videoclip, come sottolineato e sostenuto dalle sonorità rock elettriche, psichedeliche e squillanti di cui si intinge la soundtrack di Elfman. O ancora, la brutale irriverenza, seppur produttivamente controllata, con cui si decide di uccidere le guest star più attese dai fan dell’universo Marvel - neppure si trattasse di un dito medio al sentimentalismo nostalgico su cui si fonda invece Spider-Man: No Way Home, anche a partire da Raimi -, le pseudo-rotture della quarta parete, la presenza copiosa di sangue e orrori vari, più o meno espliciti graficamente, o anche solo il fatto che tutto venga poi ricondotto ad un libro maledetto, alla stregua del Necronomicon Ex-Mortis nella trilogia de La casa.
In tal senso, Doctor Strange nel Multiverso della Follia assume dunque le fattezze di una costruzione crescente e costante, tratteggiata qua e là, appunto, da fugaci, ma inconfondibili indizi, che confermano e ribadiscono ossessivamente come un film del genere non possa che essere frutto di Sam Raimi, della sua mente, del suo gusto, ma pure della sua insuperabile capacità di far coesistere i toni tra il serio e il faceto, tipici dei film Marvel, ed un’estetica trash e camp, senza mai scadere nel ridicolo.
Lo stesso che, viceversa, una volta guadagnatosi quel consenso e quella riabilitazione di cui sopra, esonda e prende il controllo del palcoscenico in un tripudio autoalimentato di idee registiche creative e grandi soluzioni visive, che, flirtando con le musiche di Elfman, spinge finalmente l’acceleratore della Follia, dando vita ad un estatico, ma futuribilmente pericoloso precedente; ad una vera e propria incursione dei feticci del cinema raiminiano, tra demoni urlanti, zombie che escono da terra, bracieri sputafuoco che ricordano esplicitamente il fucile di un simpatico Ash, terzi occhi demoniaci e… uno Strange affettuoso e piacione che si muove per le strade di New York, in borghese, come faceva Tobey Maguire vent'anni fa.
Meno piaciona, per non dire piacevole, è purtroppo la sceneggiatura del già citato Michael Waldron, già autore di Loki: l’anello debole e forse la scelta meno indicata non solo per un film di questo tipo, ma proprio per un film in generale. Tre sono i peccati di cui si macchia il suo script.
Primo fra tutti, la fissazione per i dialoghi, i monologhi, le spiegazioni, che aveva già largamente esibito nella serie sul Dio dell'Inganno, con la sola differenza che, in quel caso, si parlava, per l'appunto, di un prodotto seriale che, oltre alle limitanti esiguità di budget, in quanto tale, poteva ammettere un maggior numero di momenti statici, riflessivi, affidati tutti alla scrittura dei dialoghi. Una fissazione che, al di là di una qualità drammaturgicamente davvero scadente (al contrario di Loki), in Doctor Strange nel Multiverso della Follia finisce per limitare il tutto ad una sconsiderata e catastrofica verbosità che indugia in sin troppi “spiegoni”, riconducibili anche e soprattutto alla missione introduttiva e propedeutica di cui è insignito.
Il secondo peccato risiede invece nella limitatezza e modestia di questo Multiverso, che, al di fuori di un tunnel inebriante che lascia assaporare qualcosa che non verrà poi servito, quasi si trattasse del buco di una serratura di cui non si ha la chiave, viene mostrato in una versione che definiremmo “castrata” e “castrante” per l’esperienza. Difatti, sono soltanto tre (se non proprio due e mezzo) i mondi che immagina lo script di Waldron e che Strange e America percorreranno, al fine di trovare un modo per sconfiggere Wanda Maximoff aka Scarlet Witch.
E mai avremmo pensato di dirlo, ma quest'ultima è forse il terzo grande problema di Doctor Strange nel Multiverso della Follia. Infatti, dopo averci offerto forse la sua migliore interpretazione in WandaVision [la cui visione preventiva, è bene precisarlo, è consigliata, più che necessaria], una magnifica e suadente Elizabeth Olsen torna a rivestire i panni della strega più potente di tutte, in un film che, proprio a partire dalla sceneggiatura da cui lei stessa cerca e talora riesce a riscattarsi, banalizza tutta la complessità, la problematicità e il fascino del lavoro fatto da Matt Shakman, Jac Schaeffer & co. nella miniserie Disney+, soprattutto nel meraviglioso Negli episodi precedenti.
Il sogno di un'operazione che sembrava inevitabile e logica nella correlazione regista-personaggio e l’incubo di un film al di sotto delle aspettative coesistono in Doctor Strange nel Multiverso della Follia, un imperfetto ibrido produttivo che ciononostante, se affidato in mani diverse da quelle di Sam Raimi - che riesce comunque ad architettare la migliore trasposizione di una sceneggiatura scriteriata e catastrofica -, non avrebbe senz’altro raggiunto gli stessi livelli di godibilità, intrattenimento e spettacolo. Aspetti, questi ultimi, che valgono in sé il prezzo del biglietto.
Seppur l’incantesimo non si possa dire compiuto, ma neppure recitato, al meglio delle proprie possibilità, e sia, anzi, abbastanza facile da rompere, il ventottesimo numero della grande saga Marvel riesce nell’arduo compito di offrire un’altra dimensione ed una nuova prospettiva ad un progetto che sembrava ormai aver esplorato ogni sua latitudine. È finito!
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