TITOLO ORIGINALE: Spider-Man: No Way Home
USCITA ITALIA: 15 dicembre 2021
USCITA USA: 17 dicembre 2021
REGIA: Jon Watts
SCENEGGIATURA: Chris McKenna, Erik Sommers
GENERE: azione, avventura, fantascienza
Dopo mesi di rumor, false notizie ed una situazione di isteria collettiva, fa la sua comparsa nelle sale Spider-Man: No Way Home, la 27ª iterazione dell'iconico Marvel Cinematic Universe. Il risultato finale è un'impresa evidentemente nostalgica che, da un lato, abbraccia le strutture narratologiche del videogioco, dall’altro accompagna ai soliti toni della commedia romantica a tinte teen, con qualche fugace (e mal diretto) sprazzo action, una vena drammatica a dir poco insolita e rischiosa. Tuttavia, se Tom Holland riesce a venire incontro a queste esigenze, talora anche in modo molto soddisfacente, dalla parte della lama si trova invece il regista, Jon Watts, nella cui completa mancanza di gusto estetico per l’immagine e di comprensione dell’iconologia ed iconografia cinematografiche risiede la principale ragione di un’imperdonabile inesistenza di grande pathos. Egli infatti riduce il tutto ad una royal rumble sciocchissima, ai limiti del cartoon, del cui cuore non si può affatto dubitare, ma che, di veramente suo, ha proprio poco.
Iniziamo subito col dire che Spider-Man: No Way Home creerà un importante precedente. Una frattura addirittura più grande di quella causata dal multiverso, ma all’interno della storia del cinema. Infatti, è bene precisare anzitutto quanto tutto ciò che sta al di fuori di questa terza trasposizione MCU - ad opera sempre di Jon Watts - del personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko nel 1962 in termini strettamente filmici, risulti, per chi scrive, nettamente più affascinante.
In sintesi, tutto quello che Spider-Man: No Way Home è: a livello produttivo, come fenomeno di costume, in qualità di secondo, storico e grande traguardo, subito dopo Avengers: Endgame, di un’impresa industriale ed editoriale più unica che rara, finanche per come riesce a sintetizzare la nostra attualità socio-culturale, tra media, fake news, rumor, leak, meta- ed inter-testualità ed un’isteria di massa che - lo sappiamo già - rappresenterà, per moltissimo tempo, un evento pressoché insormontabile; sono elementi che, da amanti e studiosi del mezzo, del mondo cinematografico e di come esso possa plasmare la realtà e la quotidianità, ci mandano giù di testa ben più delle piroette del supereroe tra i grattacieli di New York.
Dal momento però che siamo perfettamente consapevoli del motivo per cui vi trovate qui, sarà bene iniziare a parlare con più concretezza di quest’ultima iterazione dell’ormai biblico Marvel Cinematic Universe; la 27ª di questo universo condiviso che, a ragion veduta, non intende proprio fermarsi.
Trattasi forse di una curiosa coincidenza il fatto che Spider-Man: No Way Home prenda il via proprio da una situazione di isteria collettiva, quasi fosse un riflesso della realtà dei fatti là fuori, oltre il grande schermo. Come sapete, questa situazione è tutto frutto del piano di un morente Mysterio, che, nel precedente Far From Home, non solo svela l’identità segreta del Bimbo Ragno, ma, attraverso una falsificazione di alcuni filmati [il discorso più interessante perorato di quel film], lo fa passare come un assassino freddo e spietato.
Pertanto, laddove lo Spider-Man di Tobey Maguire teneva alla propria identità ancor più che alla propria vita, vedendola alla stregua di un bene da concedere solo in casi estremi e a persone fidate - è infatti anche su questo dilemma che Sam Raimi fondò, a inizio secolo, la gravitas drammatica, la tragedia e la grandezza della propria concezione dell’eroe Marvel e di una trilogia di fari sgargianti e danni collaterali -, mentre quello di Andrew Garfield nei due, mediocri The Amazing Spider-Man, considerava la propria secret identity in un modo che, per certi versi, potrebbe ricordare il personaggio di 007: sagace e prudente nell’infiltrarsi, talora pure allo scoperto, nel covo nemico, ma al contempo bramoso di venire scoperto e provare a tutti il perché di questa sua nomea - il che è assolutamente corretto per una visione più complottista e tecnologica, fatta di intrighi tra grandi multinazionali e Big Pharma -; il Peter Parker di Tom Holland si ritrova invischiato invece in un polverone mass-mediatico che cristallizza, così come la pellicola stessa e il progetto editoriale all’interno della quale è inserita, i tempi che corrono. Ma, purtroppo o per fortuna, a Jon Watts e ai produttori Amy Pascal e Kevin Feige questo spunto non interessa più di tanto e, proprio per questo, dopo una ventina di minuti viene abbandonato, per passare ad altro.
Questo “altro” è, in poche parole, il prodotto industriale di quella collaborazione tra Sony (originaria detentrice dei diritti cinematografici del personaggio) e Marvel Studios, che ha permesso, in primo luogo, la genesi dello Spider-Man di Tom Holland. Quella stessa Sony che ora vuole riprenderselo, ribadendo, come non bastasse, una potenza di fuoco intellettuale che, conoscendo i trascorsi di Venom e della duologia incompleta di Amazing, potrebbe precipitare nel baratro di un doloroso nulla cosmico. In tal senso, Spider-Man: No Way Home altro non è che il tornaconto di Sony Pictures nei confronti dei Marvel Studios, i quali, in questi ultimi cinque anni, hanno e tuttora affittano una IP della prima per “fare i loro porci comodi” ed ampliare una tela narrativa ultradecennale, ma che ora presumibilmente dovrà tornare all’ovile, rinascere e crescere nelle mani più o meno abili di mamma Sony - che magari gli permetterà di uscire una volta o due.
Ad ogni modo, No Way Home è di fatto un film di origini (era ora!) in cui il nostro Spider/Holland metabolizza, scopre (anche traumaticamente) e viene a conoscenza del significato, dell’etica, del retaggio della ragnatela, quello che “da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, divenendo per la prima volta l’Uomo (non più Bimbo) Ragno. Ma anche e soprattutto un’operazione che intraprende un fulmineo cambio di proporzioni ed ambizione narrative, e che, se non fosse per qualche dettaglio minore, una sequenza post-credit e soprattutto il Doctor Strange interpretato da un Benedict Cumberbatch convincente solo per metà (più nella sua solita veste seriosa ed ambigua), che sorveglia guardingo il fluire degli eventi; potrebbe definirsi in tutto e per tutto “un film dai produttori di Spider-Man: Un nuovo universo”.
Non a caso, è proprio lo stesso capolavoro animato diretto dal trio Persichetti-Ramsey-Rothman l’evidente e principale fonte di ispirazione di questo terzo film del Ragno di Tom Holland. Invero, l’”altro” a cui, in primis, la produzione e poi Watts sono interessati è proprio la composizione di un’impresa nostalgica che, da un lato, abbraccia le strutture narratologiche del videogioco, dall’altro accompagna ai soliti toni della commedia romantica a tinte teen, con qualche fugace (e mal diretto, sigh) sprazzo action, una vena drammatica a dir poco insolita e rischiosa.
Tuttavia, se Holland riesce a venire incontro a codeste esigenze, talora anche in modo molto soddisfacente, dalla parte della lama si trova invece lo stesso Jon Watts, nella cui completa mancanza di gusto estetico per l’immagine e di comprensione dell’iconologia ed iconografia cinematografiche risiede la principale ragione di un’imperdonabile inesistenza di grande pathos ed epica, nonché di una potenziale magnificenza, che, se ben incanalata e sviluppata - e non solo da una colonna sonora sfortunatamente composta di Michael Giacchino e da un cast che fa del suo meglio per far fronte ad una direzione spesso modesta -, avrebbero potuto fare di No Way Home un nuovo Avengers: Endgame. Al contrario, è "solo" il migliore dei tre film ragneschi con Holland protagonista - il che non è certo cosa da poco.
Ebbene, concentrato com’è sulla microscopia delle interazioni tra i personaggi, di una comicità non sempre performante e di inside jokes meta-testuali ed -industriali che scuoteranno solo i più colti, ed incapace, per l’appunto, di controllare e restituire le immense ambizioni del progetto, Jon Watts riduce il tutto ad una royal rumble sciocchissima, ai limiti del cartoon, con protagonisti Peter Parker e alcune “vecchie conoscenze” provenienti dai vari film precedenti dedicati al personaggio. Una pellicola, No Way Home, del cui cuore non si può affatto dubitare, ma che, di veramente suo, ha proprio poco. A tal proposito, per quanto riguarda il comparto più prettamente artistico, si trafuga da Scott Derrickson e, nello specifico, da Raimi e dalla sua già citata trilogia. E, mentre i patiti di quest’ultima soffriranno per come, nonostante le ottime interpretazioni di Alfred Molina e Willem Dafoe, due dei villain migliori della storia del cinema (non solo del cinefumetto) vengano riscritti e sottostimati, l’Electro di Jamie Foxx e il Lizard di Rhys Ifans escono chiaramente rinnovati da questo loro viaggio tra gli universi.
Prima di chiudere però, è bene tornare su una delle costanti ormai inderogabili del cinema contemporaneo e chiedersi fin dove ci si possa spingere con l’effetto nostalgia prima di venirne assorbiti. Nel caso di No Way Home, suddetto aspetto è talmente insito nelle intenzioni, nell’essenza e nella fibra costitutiva dell’opera da non poter essere considerato propriamente un difetto. Del film di Jon Watts, si può accusare infatti tutto ciò che sta a monte e prima di esso, non tanto la pellicola in sé, perché sarebbe come criticare la presenza di un mostro alto trenta piani in un kaiju movie.
Si può commentare al massimo la maniera in cui questa nostalgia viene effettivamente messa in scena. Ossia nel modo più sminuente e castrante possibile. Ma in fondo, a tutti i seguaci di questo fenomeno di costume - che è comunque cinema, checché se ne dica -, basta e bastava anche solo “Ciao, Peter”; l’apertura di un portale interdimensionale verso una tela di ricordi, sensazioni ed emozioni che, seppur imbolsiti, fiacchi e segnati dal tempo, sono sufficienti a fare della sala un universo autosufficiente ed entusiastico, dove, nonostante tutto, l’illusione del cinema vive ancora. Anche se solo per due - godibilissime - ore e trenta.
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