TITOLO ORIGINALE: Guardians of the Galaxy Vol. 3
USCITA ITALIA: 3 maggio 2023
USCITA USA: 5 maggio 2023
REGIA: James Gunn
SCENEGGIATURA: James Gunn
GENERE: azione, fantascienza, avventura, commedia, drammatico
DURATA: 150 min
Dopo esser stato allontanato e poi reintegrato tra le fila dei registi del Marvel Cinematic Universe, James Gunn firma il suo addio definitivo ai personaggi che lo hanno reso tra le voci più riconoscibili, richieste ed applaudite del panorama mainstream contemporaneo, prima di passare, una volta per tutte, alla guida di un rinnovato e di fatto gunniano universo DC. Guardiani della Galassia Vol. 3 è allora un requiem insieme caloroso e beffardo, malinconico, con un fondo di rimpianto che affonda le proprie radici proprio nel conflittuale rapporto con la Disney. Un imperfetto, talora difettoso, smodato, altre volte spregiudicato viaggio d’amore che attesta la maturazione definitiva di Gunn come regista e sceneggiatore, e concede alla Marvel forse l'ultimo grande film e l'ultimo grande successo del suo volo ultradecennale ed ormai affaticato.
“È sempre stata la tua storia fin dall’inizio”, così si dice ad un certo punto di Guardiani della Galassia Vol. 3. Solo che ancora non avevi aperto gli occhi, aggiungeremo noi.
Non a caso, dopo un ricordo, o flashback - che, come quasi sempre accade con i primi minuti dei film di James Gunn, anticipa, sintetizza, detta l’umore di ciò che vedremo a seguire -, la pellicola inquadra uno sguardo innocente, impaurito, infantile, che diventa rabbioso, risentito, fragile, dolente, traumatizzato, adulto. È una citazione molto intelligente ad Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis, nume tutelare e principale fonte d’ispirazione per il regista sin dai tempi dei suoi primissimi lavori alla Troma come sceneggiatore.
Ma è anche il riconoscimento di ciò che i Guardiani della Galassia sono, sono sempre stati e saranno forse per sempre. E, va da sé, il riconoscimento che la loro storia, quella di Peter “Star-Lord” Quill, Gamora, Drax, Rocket Raccoon(!), Groot e tanti altri, è sempre stata la storia di chi, a questi stessi personaggi, ha dato la vita e di chi, questi stessi personaggi, li ha guidati lungo la loro vita, sulla quale ora, con questo terzo volume delle loro sempre improbabili e bizzarre avventure in giro per lo spazio e l’universo marvelliano, si chiude un ciclo.
Finisce qui infatti la proficua ed irripetibile (leggasi Taika Waititi) collaborazione tra l’ex provocauter underground di Tromeo and Juliet e i Marvel Studios, il cui disegno editoriale ed intermediale perde uno dei suoi migliori cavalli di razza, la pecora nera su cui ha scommesso e che ha permesso al suo multiverso di aprire gli occhi (per l’appunto), spingersi verso latitudini fino ad allora inimmaginabili o, più concretamente, compiere e suggellare quel processo di mitizzazione della cultura pop - che è diventata di fatto leggenda, fiaba, saga postmoderna - nel cui solco è nato e si è sviluppato il progetto supereroistico di casa Disney.
E, si sa, quando si è ai saluti finali, in fase d'addio, si riflette, si sintetizza, si tirano le fila, si ragiona, si soffre, ma si gioisce e festeggia pure, solo con una profonda malinconia nel petto e nel cuore. Ecco, è forse la malinconia, il sentimento che, più di tutti, caratterizza e scorta l’ultimo viaggio di James Gunn alla guida della sua navicella di amici e compagni. Una sensazione agrodolce. Ma anche il rimpianto che le cose siano andate come sono andate - ci riferiamo all’allontanamento del regista dalla Marvel dopo una serie di vecchi tweet offensivi e di cattivo gusto, e al conseguente avvicinamento di questo all’avversaria DC, di cui ha firmato uno dei film più riusciti ed è ora il co-direttore creativo. Quello stesso rimpianto che si riversa nel racconto, influenzando il contrasto, il confronto e la dialettica tra eroi e villain, quest’ultimo rappresentante di un’azienda che desidera il brillante cervello di una sua cavia per creare un altro, un nuovo mondo utopico ed immaginifico.
Insomma, un saluto caloroso e beffardo, graffiante, allo stesso tempo. Così come un riconoscimento (di nuovo) ed un’esaltazione vivace, imprendibile, esuberante, sincera, di ciò che, di buono, notevole, finanche utopico, si è raggiunto e, per certi versi, pure inventato dal 2014 ad oggi. Di quel mondo che si è plasmato e amato in maniera tanto leale da prescindere dalle esigenze di un cinema pur sempre blockbuster e di largo consumo, e divenire riflesso inscindibile del proprio creatore, oltre che manifestazione sottile e trasfigurata di quello che, a tutti gli effetti, è stato il suo percorso artistico e biografico.
Il riferimento è all’idea proverbiale, anzi biblica, che anche gli ultimi possono ambire ad essere i primi. Che uno strambo, quasi temuto, teppista del linguaggio, irriverente punk del sottobosco hollywoodiano, possa diventare una delle voci più riconoscibili, applaudite e richieste del panorama mainstream contemporaneo. Oppure, che un gruppo di eroi di serie B - come erano considerati i Guardiani della Galassia quando erano ancora personaggi cartacei - possa essere protagonista forse della migliore sottosaga di un ambizioso e variopinto universo cinematografico come quello Marvel, se non addirittura i volti di una delle trilogie (che, proprio con questo terzo film, si conferma essere tra le) migliori della storia del cinema.
Un ingrediente fondamentale di questo impensabile ed impareggiabile successo sta però proprio nel riconoscimento, nella consapevolezza e nello sfruttamento proattivo - dunque non in una negazione conveniente ma, in fondo, falsa - della propria unicità ed autenticità di outsider, di imperfetti, anche di idioti, di emarginati, di reietti, di mostri nel senso originario ed etimologico del termine.
Un sentimento di appartenenza, ma anche un motivo, questi ultimi, da sempre presenti nelle vicende dei Guardiani, che però in questo terzo volume, vengono finalmente dichiarati a gran voce, messi in scena e in luce chiaramente, direttamente, dolorosamente, attraverso composizioni imponenti, ambiziose, iridescenti, spettacolari.
James Gunn sceglie allora di intraprendere quella che appare come l’unica strada, la stessa che aveva messo in conto e suggerito sin dalla primissima iterazione; e di far coincidere il suo addio alla famiglia disordinata, rumorosa, litigiosa, amabile dei Guardiani, alla sua famiglia, con l’espressione del dolore, delle cicatrici e del rancore di un singolo che diventano di tutti. La spinta a (ri)considerare un’umanità, fallacia ed imperfezione quanto mai palpabili. Ma anche il vero e proprio motore dell’avventura imbastita dallo stesso regista (come sempre anche) dietro il tavolo della sceneggiatura.
Inizia fortuitamente, Guardiani della Galassia Vol. 3, quasi come se la sua premessa fosse estrapolata dritta dritta da un albo a fumetti. L’imprevisto e furioso attacco di uno strano superuomo, di un essere dorato dai poteri straordinari (ergo le prove generali per Superman: Legacy, il primo passo del rinnovato e gunniano DC Universe, che il cineasta dirigerà e scriverà), molto vicino, anzi vicinissimo ad una vecchia conoscenza del supergruppo galattico; porta Rocket Raccoon ad un passo dalla morte, portando a galla il suo taciuto passato di violenze, abusi, operazioni chirurgiche e barbari esperimenti, mostrati in segmenti giustificabili e riunibili in un lungometraggio sospeso tra la parabola animata e il candore fiabesco disneyano, e la crudezza grafica e la spietatezza del film politico e di denuncia, già affrontato nel già citato The Suicide Squad.
Autore di questi atti crudeli ed efferati, l’Alto Evoluzionario, uno scienziato-aziendalista corrotto dalla propria hybris, ossessionato dalla creazione, scientifica e in laboratorio, di una società utopica e perfetta di esseri superiori ed intelligenti, autoelettosi a dio o padrone, a riparazione di un mondo dove nessuno è in grado di ragionare con la propria mente, dove Dio, quello vero, non esiste. O, comunque, dove colui che è più vicino ad una perfezione divina è Adam Warlock, proprio quel figuro dorato di cui sopra, vale a dire un bambinone viziato, annoiato dalla sua inerte compiutezza e potenza, e con un disperato bisogno di affetto (e il casting di Will Poulter è indovinatissimo).
Star-Lord, Nebula, Groot, Drax, Mantis ed una ritrovata Gamora dovranno quindi unire le forze e trovare il modo per impedire al cuore meccanico del proprio peloso ed ingegnoso amico di fermarsi per sempre.
Quello che segue questo semplicissimo incipit è, in parole povere, la quintessenza dell’idea gunniana di cinecomics e di blockbuster, probabilmente, come scrive Gabriele Niola, la cianografia della migliore idea di blockbuster moderno, discendente diretto ed ossequioso dell’imprescindibile ed incomparabile Guerre Stellari (di cui qui si riprende la dinamicità spaziale e geografica).
Una pellicola che sancisce la crescita e il definitivo passaggio all’età adulta del franchise, con un’insopprimibile joie de vivre, un implacabile senso dell’avventura, dell’intrattenimento e della meraviglia, che non lascia indietro niente e nessuno, in cui Gunn ritorna su tutti gli elementi, i tic, le ossessioni, i marchi di fabbrica, le questioni aperte, i tasti dolenti, i ritornelli confortevoli, i luoghi comuni e le invenzioni sdoganate della serie, ma lo fa con una consapevolezza aggiunta ed una maturità raggiunta.
Le stesse che riprovano la sua innata abilità di sceneggiatore, demiurgo di mondi dalle ispirazioni estetiche inequivocabili, lì sotto gli occhi degli spettatori più attenti, eppure rimaneggiate a dovere, digerite organicamente ed incluse nella visione e nel microcosmo gunniano in modi inediti e peculiari, con un matrimonio mirabile e miracoloso fra make-up prostetico, "mascheroni", scenografie reali ed effetti visivi, fra pratico e virtuale, fra analogico e digitale; e soprattutto di personaggi-attori e attori-personaggi.
Ma anche le stesse che consacrano, in particolare, la sua sensibilità e capacità registica, in primis nell’orchestrazione e gestione dell’azione (nel 2014, sarebbe stato impensabile da parte sua dar vita a segmenti complessi come il long take à la Kingsman, con la nota danza di accelerazioni e decelerazioni), poi nel controllo non tanto della scansione narrativa e del montaggio (l’unico aspetto della produzione forse davvero da rivedere in toto), quanto piuttosto dell’umore, dell’emozione, della schizofrenia tonale che distingue una sequenza da quella immediatamente successiva; ma anche e soprattutto nel lavoro con gli attori, che più che sull’intensità, si concentra sulle sfumature dell’interpretazione.
Un Chris Pratt inappuntabile e misuratissimo, un Dave Bautista che riconferma che, solo con Gunn, riesce ad esprimere le potenzialità del suo corpo eccezionalmente comico, un’adorabile Pom Klementieff, una magnifica Karen Gillan, una Zoe Saldana su cui, più di tutti, si applica quel discorso della venatura, della gradazione espressiva, ed un ritrovato (dopo Peacemaker) Chukwudi Iwuji che mette tutto il proprio retroterra teatrale al servizio della scrittura istantanea di un villain shakespeariano, sregolato, obnubilato e squilibrato, eppure temibile nella sua follia lucida: tutti attori che, in questo terzo volume, offrono alcune delle loro migliori prove.
Subito dopo la maggior coscienza del mezzo e del linguaggio, si riconosce però anche un grande, grandissimo cuore, che trasforma la pellicola in un imperfetto, talora difettoso, smodato, altre volte spregiudicato viaggio d’amore, ma che è ciononostante capace di sottolineare, sempre e comunque, il talento innato di Gunn nel rendere armoniosa ed intonata anche la cacofonia più esemplare. Quel cuore che batte all’unisono, al ritmo di fortune e sfortune dei propri protetti nel terzo e quarto atto (come nel cinema asiatico) della pellicola, portandola verso un finale che smonta la (esigua) tensione e il dolore diffuso e fragoroso, per far irrompere quella malinconia, quella dolce tristezza, da celebrare, esorcizzare (forse entrambi) insieme sulle note catartiche di una canzone. Dove sta scritto che i requiem debbano essere per forza tetri e mortiferi?
Perché, per quante strade si lascino aperte e percorribili, James Gunn non illude, né trasgredisce la propria verità in merito al progetto e alla fine della sua collaborazione con i Marvel Studios, salutando le sue creature, i suoi, con la promessa di smettere di scappare da sé stessi, dal proprio sentire più profondo, e di inseguire e trovare quello che ci fa stare bene.
Ciò non toglie che sempre di un requiem stiamo parlando. Magari lieto e positivo per Star-Lord, Rocket e la loro famiglia allargat(issim)a. Un po’ meno, probabilmente, per l’altrettanto allargato universo Marvel, che, con Guardiani della Galassia Vol. 3, potrebbe assistere all’ultimo grande film e all’ultimo grande evento(?) del suo volo ultradecennale, ed ora quanto mai affaticato, oltre l’infinito e nel cielo meraviglioso.
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