TITOLO ORIGINALE: Spider-Man: Across the Spider-Verse
USCITA ITALIA: 1 giugno 2023
USCITA USA: 1 giugno 2023
REGIA: Joaquim Dos Santos, Kemp Powers, Justin K. Thompson
SCENEGGIATURA: Phil Lord e Christopher Miller, David Callaham
CON LE VOCI DI: Shameik Moore, Hailee Steinfeld, Issa Rae, Oscar Isaac, Jake Johnson, Daniel Kaluuya
GENERE: animazione, azione, fantascienza, avventura, commedia
DURATA: 140 min
Carico di tutti gli oneri e gli onori dell'eredità, anche storica, di Into the Spider-Verse, Across the Spider-Verse di Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson arriva finalmente in sala. Ed è ancora più anarchico, libero, stupefacente, eclettico, sfuggente, avanguardistico. Psichedelia ibrida, punk, dirompente e meravigliosa e racconto intimo e d’atmosfera, spinto verso profondità inaspettate, riescono a convivere in un film che fa del cinecomics e dell'animazione un fatto primariamente estetico. Un'opera d'arte totale. Puro cinema di frontiera.
(Non brilleremo certo per originalità, né tantomeno per brillantezza, ma non potevamo farci sfuggire una simile opportunità, perché) “da grandi primi film, derivano grandi responsabilità”. Ben più che grandi, anzi enormi ed epocali erano e sono invero gli oneri di Spider-Man: Across the Spider-Verse, che, come già saprete, è nientemeno che l’attesissimo seguito di Spider-Man: Into the Spider-Verse.
Atteso, non a caso: stiamo parlando infatti di un esperimento azzardatissimo, le cui possibilità di fallimento, per alcuni, erano addirittura superiori alle chance di riuscita. Un autentico salto nel vuoto e in un vero, nuovo universo (per citare il titolo dell’edizione italiana). Un instant cult che ha portato l’immaginario ragnesco verso latitudini impossibili, vertiginose, quanto mai lisergiche e psichedeliche, divenendo fin da subito (e col senno di poi, a maggior ragione) uno spartiacque, innanzitutto, per il filone supereroistico e per la lunghissima schiera di cinecomics, ma anche e soprattutto per un altro, grande (e meno nuovo) universo.
Quello dell’animazione, già allora in un periodo di crisi [beninteso, per quanto riguarda strettamente il panorama occidentale]; un mondo per e in cui Spider-Man: Un nuovo universo è tuttora un glitch, un’interferenza che, per vari motivi, pochi hanno tentato di mutuare, ottenendo risultati buoni, ma non certo ugualmente sbalorditivi (per dire, l’unico che poco poco gli si è avvicinato è stato Il gatto con gli stivali 2).
Insomma, Into the Spider-Verse è stato ed è tutt’oggi una pellicola unica ed irripetibile, il cui carico storico e artistico viene riversato oggi, nella sua interezza, proprio sulle spalle di Across the Spider-Verse. A tal proposito, questo secondo capitolo - dove i “vecchi” Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman, vengono sostituiti da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson - segue alla lettera il manuale dei seguiti, prendendo tutto ciò che ha funzionato e che ha permesso al primo di imporsi a forza nell’immaginario collettivo, e portandolo all’eccesso, all’accumulo, alle estreme conseguenze, ad un punto di non ritorno.
Di questo discorso, ne è un perfetto esempio il prologo, completamente incentrato sul personaggio di Gwen Stacy/Spider-Gwen - che è un po' la protagonista sopita del film, quella sul cui dramma e sulla cui evoluzione quest'ultimo si apre e chiude. Quasi un biglietto da visita, una sequenza, a metà tra la origin story e il riepilogo (tutto visivo) dell’episodio precedente, dove, in primis la sceneggiatura degli immancabili Phil Lord e Christopher Miller (sempre impegnati anche nel ruolo di produttori), insieme a David Callaham, e in particolar modo le tavole di Dos Santos, Powers e Thompson, si lanciano nell’impresa, apparentemente impossibile, di dipingere (per davvero!) la psicologia e la caratterizzazione intima ed emotiva del personaggio attraverso le tonalità, il tratto, lo stile grafico, l’intensità pittorica ed artistica delle composizioni. Un prologo, inoltre, estremamente riflessivo, meditabondo, in netta controtendenza con la grammatica e il linguaggio convenzionale tanto del cinecomics, quanto perfino dell'inizio di Into the Spider-Verse, che si chiude con quella che è la premessa narrativa da cui, poco dopo, prenderà il via la seconda avventura di Miles Morales e dei suoi fantastici amici.
Più concretamente, con una scena di combattimento - dall’azione sempre ipercinetica, febbrile, disarmante, prettamente verticale - durante la quale Spider-Gwen si ritrova a combattere contro un Avvoltoio vitruviano (sì, proviene da universo rinascimentale e pare il parto di uno degli schizzi e bozzetti di Leonardo Da Vinci), all’interno di un museo di arte contemporanea. Luogo ed occasione, questi, che Lord, Miller e Callaham sfruttano per fare di questa scena - semplice ed eventualmente proverbiale - qualcosa di più. Ovvero, come fa notare la stessa supereroina, “un metacommento” (“discusso” con l’Avvoltoio davinciano dalle velleità ed interessi umanisti) su cos’è o, meglio, cosa può essere l’arte.
È presto chiarito, quindi, cosa Lord e Miller, così come i colleghi produttori Avi Arad, Amy Pascal e Christina Steinberg, intendano fare e raggiungere con Spider-Man: Across the Spider-Verse: partire e flirtare (di nuovo) con le radici fumettistiche del personaggio, del mito, dell’icona, delle maschere, delle possibilità di Spider-Man, per elevare e nobilitare sia il racconto a strisce, sia la pratica, la forma e (potremmo osare) il genere dell’animazione, ad happening, a prodotto dalle ambizioni artistiche, finanche ad opera d’arte totale. Ad un’impresa che mira perciò, non solo e non più, ad alzare lo standard della sperimentazione audiovisiva e cinematografica, ma addirittura a lasciare il segno in un contesto espressivo ben più ampio e trasversale.
D’altro canto, non è tanto un fatto di storia e di sceneggiatura, quanto piuttosto un’esigenza inderogabilmente artistica ed estetica, ciò che pare muovere, scuotere, trascinare, animare, di più, e dalle fondamenta, il film di Dos Santos, Powers e Thompson, il quale, così facendo, contravviene ad un altro luogo comune dell’ultimo cinema animato e del cinema statunitense nella sua declinazione più classica ed etimologica. Di un cinema che è sempre partito dalla bontà, dalle vibrazioni e dalle previsioni commerciali di un soggetto e di un copione, di un intreccio coinvolgente o di un’odissea di grandissime proporzioni, ambizioni ed afflato. Di un cinema, a cui si sono accostate pian piano anche le fantasie delle major di punta dell’animazione, che, soddisfatto il bisogno di specificarsi dei primissimi tentativi, la missione di conferirsi una cifra stilistica riconoscibile; utilizzano ormai, e perlopiù, una formula ed una dimensione grafica ben assemblata e rodata per tradurre in immagini un copione che deve essere forte già di suo, e soltanto in seguito valorizzato e potenziato dal comparto e dalle alchimie visive.
Con questo, non vogliamo assolutamente dire che quella co-scritta da Lord, Miller e Callaham sia una sceneggiatura non all’altezza, ma non è ciò per cui Spider-Man: Across the Spider-Verse verrà ricordato. Ciò nondimeno, se proprio vogliamo essere sinceri, i più grandi limiti di questo seguito, le piccole cadute che, al contempo, ne mostrano il fiato corto rispetto al predecessore, sono imputabili quasi esclusivamente alla scrittura.
È il caso, più precisamente, di una certa ridondanza del romanzo di formazione - a quanto pare inevitabile nella e per la mitologia ragnesca - e di ripetitività dei temi e delle questioni ad esso annessi e connessi, ripresi parimenti dal predecessore; così come di una non sempre funzionale gestione, scansione e densità narrativa del tempo a proprio disposizione (due, fin troppo generose, ore e venti), alla quale si somma infine un cliffhanger teoricamente valido, ma, nella pratica, altalenante, scorretto, continuamente teso e sciolto, protratto fino all’inverosimile.
Ma, in un certo senso, Spider-Man: Across the Spider-Verse è anche un prodotto diverso da Into the Spider-Verse. Perché sì, in quella enfatizzazione delle proprietà e dei meriti di quel primo film rientrano un'intensificazione di quel carnevale di stili e tecniche animate (tra cel-shading, effetti da motion-comic, retini, strappi, distorsioni, low frame, derivazione anime, questa volta ci sono addirittura i LEGO!) ed una moltiplicazione a perdita d’occhio - in quantità e in qualità, in varietà e in efficacia estetica - delle diverse varianti di Spider-persone e, per la prima volta, di esplorazione di alcuni dei loro universi di provenienza, oltre ai sempre cari omaggi, alle sottili citazioni, alle strizzatine d’occhio feticiste per i fan più accaniti del personaggio e, ancora, all’azione frenetica, irrefrenabile, travolgente, ancora più anarchica e libera.
Allo stesso tempo, però, forse il pubblico infantile che era andato in visibilio per il capitolo originale potrebbe avere qualche difficoltà ad entrare in sintonia con questo seguito, a causa pure dello scoglio della prima ora. Questo, appunto, perché, come scrivevamo, ci troviamo di fronte ad un film diverso.
O, in altre parole, alla definitiva maturazione - sia in fatto di espressività artistica, sia di messa in scena e tono delle vicende - di Sony Pictures Animation, ma anche dello stesso Spider-Verso, qui alle prese con un’analisi decisamente più radicata ed interessante (rispetto a quanto accadeva già nel capitolo originale), quasi alla stregua di una seduta collettiva di psicoanalisi, di nuovo, del significato, della necessità, di una democratizzazione e dell’ecletticità del concetto di eroismo, ma soprattutto della mitopoiesi, del significato e del canone di uno degli eroi più “anziani” ed insieme giovanili del fumetto americano. Non sconvolge, in tal senso, nemmeno la presenza, in cabina di regia, di quel Kemp Powers, co-regista di un grande capolavoro Pixar come Soul, con cui quest’ultima iterazione ragnesca condivide moltissimo.
Psichedelia ibrida, punk, dirompente e meravigliosa e racconto intimo e d’atmosfera, di spazi e panorami che diventano espressione (artistica e colorimetrica) dello stato d’animo, spinto verso profondità inaspettate, riescono allora a convivere e a prendere in contropiede lo spettatore ad ogni cambio scena. Ne deriva una pellicola che - pur cadendo preda dei difetti congeniti o non rifiniti di quasi ogni progetto bipartito - riesce comunque ad affrancarsi, distinguersi e, in qualche modo, pure a scampare alla gravosa ombra della sua eredità, per muoversi, correre o dondolare verso qualcosa che non ci vergogniamo a definire post-avanguardia.
Questo è Across the Spider-Verse: un altro profluvio estatico, un accumulo saggio e dettagliatissimo di creatività della fucina Lord-Miller, la conferma e solidificazione (anche editoriale) di quella bellissima folgorazione che tutti avemmo a fine 2018, l’opposizione ad un algoritmo o, più semplicemente, ad una tendenza, ad una (o magari alla) formula che appare incontrovertibile.
O, in definitiva, un trip che dovrebbe portarci (solo) attraverso (appunto, across), ma è già oltre (beyond, come annuncia il titolo del terzo e, forse, ultimo capitolo) tutto quello che gli si poteva predestinare. Across the Spider-Verse è, appunto, già Beyond the Spider-Verse. Al di là dell’immaginabile, del conosciuto, dell’iper e del post, delle moltitudini e dell’infinità. Parliamo di un nuovo Rinascimento animato. Parliamo di puro cinema di frontiera.
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