TITOLO ORIGINALE: Puss in Boots: The Last Wish
USCITA ITALIA: 7 dicembre 2022
USCITA USA: 21 dicembre 2022
REGIA: Joel Crawford
SCENEGGIATURA: Paul Fisher
GENERE: animazione, avventura, commedia, fantastico, sentimentale
DURATA: 102 min
Ben undici anni dopo il primo capitolo, il gatto più amato delle favole di Shrek torna sul grande schermo, protagonista di un racconto che metterà in profonda discussione tutto ciò che è stato finora, ma anche il modello archetipico a cui ha sempre aderito dal momento in cui ha fatto la sua prima apparizione. La morte (fisica e spirituale) è il tema centrale di un film che ci ricorda cosa e come dovrebbe essere ogni sequel degno di questo nome, di un'avventura più simile ad una seduta psicoterapeutica o ad un percorso di mindfulness, di un ottimo prodotto d'animazione con cui Dreamworks compie un grande salto di qualità artistico, ritrovando la pennellata, il segno grafico evidente, un impressionante livello di dettaglio e minuziosità, un gusto da libro illustrato che prende vita, sorprendendo, affascinando, inventando ad ogni piè sospinto, ampliando a dismisura le proporzioni e possibilità immaginifiche e creative del proprio sguardo e del proprio mondo.
Il cinema statunitense più mainstream, negli ultimi anni, tra le sue tante correnti e tendenze, ne ha intrapreso una in particolare, vale a dire la decostruzione di tutti quegli archetipi su cui ha fondato decenni di storie e successi. Dunque, la messa in discussione di molte delle innumerevoli rappresentazioni ed incarnazioni filmiche dei valori di una società fallocratica, maschilista, paternalistica e di un mondo su cui l’uomo (inteso come maschio) ha governato con arroganza, presunzione, alterigia ed atteggiamenti prevaricatori.
Ecco quindi che, oltre ad una certa dose di autoriflessività nei confronti dello spettacolo, del racconto, dell’atto cinematografico in sé e per sé, le maggiori uscite dei grandi studios hollywoodiani si sono convertite in vere e proprie sedute diagnostiche e terapeutiche, più o meno lunghe e sofisticate, spesso estremamente fenomenali e pirotecniche, nelle quali si procede a smontare, pian piano, pezzo dopo pezzo, quell’ideologia individualista, imperialista, machista, che ha imperversato per anni dentro e fuori lo schermo.
Non manca l’occasione neppure Dreamworks (con una nuova, magica intro) e Il gatto con gli stivali 2 - L'ultimo desiderio di Joel Crawford, il seguito a lungo atteso (ben undici anni) dello spin-off dedicato ad uno dei personaggi più carismatici ed esuberanti delle primigenie favole di Shrek.
Laddove infatti, nel buon capitolo originale - che, sfruttando ipercineticamente e videoludicamente la scia stereoscopica re-inaugurata da Avatar, ridava un barlume di speranza ai grandi e piccoli amanti della saga dopo il deludente Shrek e vissero felici e contenti -, il famigerato Gatto, "conosciuto anche con i soprannomi di Gatto Fuorilegge, Gattanova, Micho Macho", ultima riproposizione di una lunga serie dell'ideale di ladro gentiluomo, seduttore e solitario, con ferrei principi morali ed un cuore gentile; non la finiva mai di ciarlare con la voce di un appassionato Antonio Banderas (d’altronde, il suo creatore originario, di cognome, faceva Straparola), in questo secondo film, egli sembra quasi lasciare il posto ai suoi compagni ed avversari, mettersi da parte, in ombra, addirittura spingersi meno in monologhi epicamente autoreferenziali e macchiettisticamente stucchevoli.
Non fraintendeteci però: questo non significa che egli non sia di fatto il protagonista assoluto del racconto ideato da Paul Fisher, ma è solo uno dei sintomi più evidenti del tema fondamentale attorno a cui ruota questa sua ultima avventura.
Ne L’ultimo desiderio, il Gatto raccoglie invero i semi della sua sfrontatezza e, per l’appunto, del modello maschile che ha interpretato e continua ad interpretare, scoprendo di essere ai proverbiali sgoccioli, di aver utilizzato otto delle sue nove vite. Parte allora alla ricerca della cosiddetta Stella del Desiderio, un manufatto magico che si trova al centro della Foresta Oscura, capace (nomen omen) di ridargli ciò che ha perso, o meglio, ciò che rischia di perdere per sempre.
Ad inseguirlo, infatti, vi è forse l’invenzione più indovinata di Fisher, Crawford e dell’intero team artistico e creativo: la Morte, qui raffigurata nelle fattezze del cattivo per eccellenza, del personaggio archetipico delle fiabe (un modo sublime per evidenziare il fatto che il Gatto diventi vittima e preda di sé stesso e del suo essere anacronisticamente archetipico), ossia il Lupo cattivo. Occhi spiritati, consistenza fantasmatica, passo incessante, presenza inquietante, portatore di un messaggio inevitabile, oscuro ed incredibilmente nichilista, egli è protagonista di sequenze di matrice profondamente horrorifica, raccontate, descritte e messa in scena con un’intensità ed una gravitas impensabili, in primis, per un'opera rivolta ad un pubblico familiare, ma anche e soprattutto per il seguito di un film viceversa scanzonatissimo, che si accontentava ben volentieri della sola opera dissacrante, scorretta e spesso grottesca di revisione di fiabe, miti e leggende.
Un tratto, quest’ultimo, che, insieme all’invidiabile character design, è da sempre grande marchio di fabbrica del franchise di Shrek, e che qui è presente nella caratterizzazione degli altri ostacoli alla corsa del Gatto: Riccioli d'Oro e la (sua!) famiglia dei Tre Orsi [il cui doppiaggio in dialetto abruzzese innecessario, insensato, macchiettistico e, per la caratterizzazione, pure alquanto offensivo, rovina tutta la magia di intere sequenze] e il semi-sconosciuto "Big" Jack Horner; e sottoforma di generosissima, sfiziosa, wunderkammeriana, ma pur sempre irriverente citazione dei più famosi artefatti ed oggetti magici delle fiabe, specie nella configurazione estetico-visiva fornitagli e fornitaci dall'universo disneyano.
Per non parlare, inoltre, degli immancabili omaggi (già presenti nel capitolo originale), quasi una dichiarazione di parentela stretta, al cinema di Sergio Leone, nei trielli triplicati, nella gestione della tensione, nelle scelte compositive, nella colonna sonora di Heitor Pereira.
Ciò nonostante, a rimanere centrale, in questo viaggio i cui stadi sembrano quasi parte di un percorso di mindfulness, dalla scansione narrativa e drammaturgica oltremodo classica e dal finale ovviamente moralistico (il film, d’altra parte, ce lo dice sin dall’inizio che “questa è una favola…”), solo leggermente allungato; è sempre e comunque la morte, trattata con tutti i crismi e dal punto di vista sia fisico, che spirituale (ossia la morte della propria dignità e della propria natura, data da quegli schemi e quei modelli - di nuovo - che, un po’ come i guantini, ci vengono messi da qualcun altro, cuciti addosso); un tema di fatto così ostile, assurdo, quasi intrinsecamente contraddittorio ad una tecnica plastica ed innaturale come l’animazione. Ma centrali, in secondo luogo, sono anche le rivalutazioni, gli effetti, gli stimoli che il richiamo dell’inevitabile, del predestinato innesca nel protagonista e, in questo caso specifico, quasi per osmosi, nell’animazione.
Avete capito bene: proprio come nel caso del Gatto, che, ritenutosi leggenda, presosi per anni gioco della morte ed ora messo di fronte, invece, alla propria mortalità, ad una possibilità di “fine”, alla paura “dura e pura”, rivaluta un valore come la fiducia nel prossimo, l’amicizia, la solidarietà, l’empatia con l’adorabile e bonario Perrito (che funge, a sua volta, da guru emotivo per il nostro), o forse addirittura quell’amore che si è precluso per fin troppo tempo con Kitty Zampe di Velluto (già esponente #MeToo ante-litteram); l’animazione “è costretta” a ritrovare quel suo lato più materico, concreto, manuale, analogico. In una parola sola, umano.
Il risultato non è tanto dissimile dalla borsa da tata che Jack Horner si porta dietro durante tutto il viaggio: un profluvio appagante e travolgente di tecniche, stili e contaminazioni diverse, dove l’ormai ineluttabile animazione 3D rifugge la spasmodica ricerca disneyana per il fotorealismo, ritrovando invece la pennellata, il segno grafico evidente, un impressionante livello di dettaglio e minuziosità, un gusto da libro illustrato che prende vita, e scoprendo per la prima volta la tecnica low-frame, tipica degli anime, che pone al servizio di sequenze di combattimento ambiziose e spettacolari (come quelle che aprono e chiudono il film).
In questo senso, Il gatto con gli stivali 2 compie un netto salto di qualità rispetto a tutta la produzione Dreamworks e a gran parte del coevo panorama dell’animazione statunitense, sorprendendo, affascinando, inventando ad ogni piè sospinto, ampliando a dismisura le proporzioni e possibilità immaginifiche e creative del proprio sguardo e del proprio mondo, come non vedevamo in una sala cinematografica(!) dai tempi di Spider-Man: Un nuovo universo.
Non sarà ciò che tutti avremmo desiderato, né tantomeno fantasticato, ma L’ultimo desiderio è forse uno di quei film che ci ricorda cosa e come dovrebbe essere ogni sequel degno di questo nome. Un film che, un po’ come il dilemma mortifero, eppure vitale del Gatto, ci ricorda che non è tanto importante l’occasione in sé e per sé, quanto il modo in cui la si decide di sfruttare, questa unica, singola, prima e (forse) ultima occasione.
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