TITOLO ORIGINALE: The Boogeyman
USCITA ITALIA: 2 giugno 2023
USCITA USA: 2 giugno 2023
REGIA: Rob Savage
SCENEGGIATURA: Scott Beck, Bryan Woods, Mark Heyman
CON: Sophie Thatcher, Chris Messina, Vivien Lyra Blair, David Dastmalchian
GENERE: orrore
DURATA: 99 min
Rob Savage tenta l'ennesimo adattamento di (un racconto breve di) Stephen King in The Boogeyman, horror a metà tra Smile e A Quiet Place. I costanti paragoni che sorgono spontanei (e che niente e nessuno tenterà di smentire e dissuadere) durante la visione del film sono il primo campanello d'allarme per la stanca proverbialità della pellicola, un concerto di sosia a cui manca tutta l'ambiguità e l'angoscia della matrice kinghiana. Uno spavento strozzato e col fiato cort(issim)o. Una formula a zero rischi, che chiude la porta all’oscurità, quella vera, ma la apre eccome ad un seguito.
Come il recente reboot de La casa a firma di Lee Cronin (La casa - Il risveglio del male, ndr), anche The Boogeyman di Rob Savage (questi noto per i suoi buoni e talora controversi screencast movies Host e Dashcam) era stato inizialmente concepito per approdare in streaming, ma per qualche motivo i 20th Century Studios - ergo la Disney - ci hanno scorto qualcosa, una qualche potenzialità, che li ha spinti a dargli una possibilità sul grande schermo.
Nella fattispecie però, più che al sanguinolento e matriarcale reboot/omaggio raiminiano di Cronin, potremmo avvicinare la pellicola di Savage ad un’operazione commerciale e virale come Smile. Parliamo, in concreto, di una thrill ride che trova ragion d’essere e la propria espressione horrorifica nello spavento quanto più epidermico o, nel gergo, nei tanto abusati jump scare.
Ma i paragoni non si fermano qui: quello di Savage è anche e soprattutto, un tentativo (l’ennesimo) di adattamento di uno degli autori più spolpati e gettonati di tutta la storia del cinema (e non solo del panorama horror). Il soggetto di partenza è infatti Il baubau (in originale, appunto, The Boogeyman) di Stephen King, uno dei racconti brevi contenuti nella raccolta A volte ritornano, tra le più apprezzate dagli affezionati lettori e fan del Re del Terrore.
In tal senso, il film ricorda, quantomeno per conformazione produttiva, il quasi coevo (ma netflixiano) Mr. Harrigan's Phone di John Lee Hancock, anch’esso trasposizione di un racconto kinghiano, quest'ultimo più contemporaneo ed incentrato sulla resurrezione o, meglio, sulla persistenza di un’anima defunta grazie alla tecnologia. Al contrario del cartaceo The Boogeyman, che è invece una sorta di micro-sintesi chiara ed esemplificativa (tuttavia, non brillantissima) della poetica dell’autore, nonché di uno dei temi cardine di tutta la sua opera: la mostruosità del mondo adulto (in particolare, di quello maschile).
Tema, questo, che, come sempre accade in King, viene trasfigurato ed arriva a possedere le fattezze di un incubo, di un’inquietudine, di una creatura, di un trauma, che risale alle origini di tutto, dell’umanità e della nostra percezione; di un qualcosa che è praticamente il sinonimo della parola “paura”. Per l’appunto, l’uomo nero o, con un piccolo sforzo di astrazione, il terrore di tutto ciò che si nasconde nell’oscurità.
Inutile dire - specie vista la sua brevità ed essenzialità narrativa - che la matrice kinghiana funge qui soltanto da spunto, da stimolo, da miccia di accensione, per un prodotto che è dunque costretto ad espandere o, meglio, a stiracchiare la storia, a trovare nuovi personaggi e a costruirsi una propria mitologia, oltre che, ovviamente, a farsi materia cinematografica.
Ciò detto, è abbastanza facile dedurre come tutti quei paragoni, parallelismi e riecheggi di cui sopra - e che The Boogeyman si lascia scappare e pone in essere più volte durante il corso di limitati, ma comunque generosissimi 90 minuti - sono tutt’altro che forieri di buone notizie. Soprattutto perché Savage in primis non si preoccupa nemmeno un istante di fare qualcosa, qualsiasi cosa, al fine di scoraggiare la naturalezza di tali raffronti - a cui potremmo sommare quello con A Quiet Place, per quanto riguarda alcuni dei meccanismi e delle regole d’ingaggio del baubau, se solo a scriverlo, The Boogeyman, non vi fossero proprio quegli Scott Beck e Bryan Woods che, da padri di uno degli horror più influenti degli ultimi anni, potrebbero non sopravvivere, anzi venire sabotati dalla loro stessa creatura (leggasi 65 - Fuga dalla Terra).
E, sia chiaro, non vi sarebbe alcun problema, se l’opera di Rob Savage si limitasse a soddisfare per bene i requisiti di una thrill ride o di un pop-corn movie in piena regola. Eppure, è tutto confezionato in modo così stanco, blando, banale, noncurante ed assonnato, che è difficile arrivare ai titoli di coda volentieri, senza provare noia o frustrazione. Del resto, l’ecosistema horrorifico di Savage & co. non prevede, né tantomeno esonda in iperboli, esagerazioni, soluzioni magari cheap, ma incredibilmente inquietanti, come nel caso del già citato Smile - il quale incuriosì chi scrive anche per il modo in cui riusciva a dialogare con la contemporaneità e ad essere, allo stesso tempo, impeccabile operazione marketing (con tanto di filtri Instagram), e contrappasso della socialità digitale e virtuale di oggi.
Come se non bastasse, la narrazione non è nemmeno condotta ed imbracciata da volti attoriali degni di nota - un ingrediente, quest'ultimo, che tutti gli altri esempi sopra menzionati riuscivano bene o male ad indovinare. In verità, guardando The Boogeyman, si ha la costante impressione di star vedendo una sfilata di sosia deprezzati e, pertanto, anonimi di star consolidate e personalità più note.
Sophie Thatcher ricorda troppo la prima Anya Taylor-Joy (quella di The VVitch e Split). Un Chris Messina mai così poco espressivo si spinge in una cover di Gael Garcia Bernal. Mentre la piccola Vivien Lyra Blair si perde nelle miriadi di giovanissime protagoniste che hanno da sempre popolato il grande cinema horror. Solo David Dastmalchian in un ruolo risicatissimo - che corrisponde poi alla “quota fedeltà” nei confronti del racconto di King - è l’unico in grado di dotare il film di una giusta cifra perturbante ed instillare nello spettatore il germe dell’insicurezza.
Due aspetti, questi, che, al di fuori appunto del segmento in cui si adatta letteralmente la seduta psichiatrica che occupa l’interezza del racconto originale, si rivelano del tutto assenti nel resto di The Boogeyman, così come manca l’ambiguità e il senso di repulsione ed oppressione esistenziale nella descrizione di questi personaggi adulti, che nella produzione kinghiana sono spaventosi ed angoscianti tanto quanto i vari baubau.
Quel che abbiamo sono viceversa soluzioni ed intuizioni felici (come l’uso della luce a sfera o tutto il momento della psicologa), solo immerse e smarrite in un mare di proverbialità di atmosfere, di scrittura, di metodo, di composizione. Costanti “vedo-non vedo”, giochi di ombre sfocate ai margini dell’inquadratura o in secondo piano, luci che saltano e lampadine che scoppiano, ed una violenza mai mostrata direttamente, tanto per non disertare un comodo e confortevole PG-14.
Insomma, The Boogeyman è innanzitutto un’opera di branding (come grida il trailer, non c’è solo King, ma anche la 21 Laps Entertainment di Shawn Levy, produttrice di Stranger Things), che concepisce l’horror come un esercizio compilativo, controllato e corretto (vedasi il finale che si preoccupa di far quadrare tutti i conti simbolici), esonerato da scelte rischiose, deviazioni improvvise, eccessi ed assurdità, a prova di teenager o, in altre parole, apprezzabile davvero solo da chi ha visto due film (horror) in tutta la sua vita. Uno spavento strozzato e col fiato cort(issim)o. Una formula a zero rischi, che chiude la porta all’oscurità, quella vera, ma la apre eccome ad un seguito.
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