TITOLO ORIGINALE: Stranger Things 4 - Volume 1
USCITA ITALIA: 27 maggio 2022
REGIA: Matt e Ross Duffer, Shawn Levy, Nimród Antal
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
GENERE: drammatico, fantascienza, orrore, commedia, thriller, dramma adolescenziale, azione
N. EPISODI: 7
DURATA MEDIA: 60-90 min
A distanza di tre anni dalla sua terza stagione, Stranger Things dei Duffer Bros., il fenomeno streaming Netflix che ha dato il via alla cosiddetta 80s mania (o nostalgia) e alla riesumazione e reinvenzione massiccia degli idoli, dei simboli, dei pilastri culturali di quell’epoca, torna sui nostri schermi, piccoli o grandi che siano, in un formato extralarge e divisa in due volumi. Produttivamente parlando, Stranger Things 4 è perfetta, una stagione ben conscia dei propri obiettivi commerciali, oltre che necessaria e vitale per Netflix, minacciata su più fronti non solo da scandali e polemiche, ma anche dalla disaffezione e successiva defezione di una porzione del proprio pubblico. Dal punto di vista creativo e artistico, invece, il nuovo tentativo dei Duffer mostra invece il fianco a qualche difetto e deformazione che potrebbero renderne problematica e difficoltosa la visione. Non ultima, un’evidente serie di lungaggini e cadute di stile che arrivano, seppur in parte, a limitarne le ambizioni narrative e spettacolari, mai così smodate.
Tutto ha inizio con Stephen King, che, nel 1980, pubblica Firestarter, uno dei suoi romanzi meno noti, ma più politicamente infuocati - scusate il gioco di parole. Un racconto che restituiva al lettore l'immagine di un’America perfettamente inserita nel periodo della guerra fredda, della nuclearizzazione, degli esperimenti militari secretati, di una ritrovata fede nel giornalismo d’inchiesta a seguito del Watergate. Un’America nella quale aleggiava ancora il fantasma del Vietnam, delle armi chimiche, delle morti, delle torture, della banalità del male, ma anche, per l'appunto, di tutti quegli scandali governativi che rivelarono come il nemico principale fossero, in realtà, proprio i corpi e le agenzie che tradizionalmente avrebbe dovuto proteggere i propri cittadini, ma che, al contrario, si scoprirono cospirare alle spalle di questi ultimi, tradirli, cacciarli, farli scontrare tra loro, dividerli, sfruttarli, torturarli, ucciderli.
Quattro anni più tardi, da quello stesso romanzo, viene tratto un B-movie di culto, italianamente conosciuto con il titolo Fenomeni paranormali incontrollabili, che, nonostante qualche problematicità, aveva e ha tuttora dalla sua un’atmosfera morbosa, claustrofobica, soffocante, inquietante, che riesce a far percepire allo spettatore l'entità e la forza di penetrazione di un orrore invisibile che striscia sotto la superficie della pelle, della psiche, dell'inconscio, della nazione; e, soprattutto, la disturbante e, a suo modo, iconica interpretazione della piccola Drew Barrymore. Un film, quest’ultimo, che di recente è stato riportato in auge, o almeno questo era lo scopo, con un'operazione di rifacimento, purtroppo fallimentare a sua volta, che recava la firma della Blumhouse di Jason Blum e di Keith "The Vigil" Thomas.
Ciò detto, molti neppure immaginano, o meglio, immaginavano che un “adattamento” de L’incendiaria di Stephen King ed un “remake” della pellicola di Mark L. Lester fosse già uscito nel “lontano” 2016. E che si trattasse, per di più, di una serie televisiva!
Ebbene sì, come intuibile da varie rifrazioni e riecheggi (tra cui lo stesso personaggio di Undici), Stranger Things dei Duffer Bros., il fenomeno streaming Netflix che, insieme a Super8 di J. J. Abrams, ha dato il via alla cosiddetta 80s mania (o nostalgia) e alla riesumazione e reinvenzione massiccia degli idoli, dei simboli, dei pilastri culturali di quell’epoca; è proprio da Firestarter, e da Stephen King in genere (che è in fondo il suo massimo nume tutelare), che prende il via, e a cui oggi, arrivata alla sua quarta stagione, ritorna, riponendo nell’equazione quella critica (passibile di ridondanza e retorica) al modello capitalista e quelle tensioni mai finite di un’epoca lontana, ma oggi resa più che mai vicina dal mezzo cinematografico(?), televisivo(?), (fughiamo ogni dubbio con) audiovisivo, e dal suo potere incontrovertibile di ricreare, rivitalizzare, riammettere e rinegoziare.
Dalla finzione - intesa come fiction e fantasia -, nasce Stranger Things e, nella finzione - nel senso di bugia -, si scioglie, seppur temporaneamente, il Volume 1 della sua quarta iterazione, di cui proprio questo cortocircuito teorico e cinematografico rappresenta l'aspetto e il discorso più stimolante.
Laddove, infatti, in termini ideali, Stranger Things 4 è un prodotto perfetto, ben conscio dei propri obiettivi commerciali [la divisione in due volumi, distribuiti a distanza di un paio di mesi l’uno dall’altro, costringe l’utente a rinnovare il suo abbonamento almeno due volte], oltre che necessario e vitale per Netflix, minacciata su più fronti non solo da scandali e polemiche, ma anche dalla disaffezione e successiva defezione di una porzione del proprio pubblico, a favore di piattaforme rivali quali Disney+ e Apple TV+, che, negli ultimi tempi, hanno operato una vera e propria rimonta; dal punto di vista più creativo e artistico, il nuovo tentativo dei Duffer mostra invece il fianco a qualche difetto e deformazione che potrebbero renderne problematica e difficoltosa la visione.
Affrontiamo allora il proverbiale elefante nella stanza; l’argomento che, assieme alla riscoperta e ripopolarizzazione della canzone Running Up That Hill (A Deal with God) di Kate Bush e al recente dissenso che Stephen King (di nuovo!) ha manifestato rispetto alla divisione della stagione in due parti, ha infiammato letteralmente il popolo del web, scatenando inoltre teorici, critici e addetti ai lavori su questioni quali l’evoluzione ed eventuale trasmutazione del medium e del linguaggio serial-televisivi, e il loro porsi (e ambire) sempre più a sostituzione del cinema, tanto a livello di pervasività socio-culturale, quanto in materia di orizzonti narrativi, possibilità immaginifiche e spettacolari.
Parliamo, quindi, della durata dei primi sette episodi di questa quarta stagione di Stranger Things, che è giusto definire extralarge per il fatto che tutti, senza alcuna eccezione, arrivano a superare l’ora, sfiorando ed oltrepassando spesso i picchi dei 70, 80 minuti, fino ad arrivare ai 98 del settimo. Nulla, purtroppo o per fortuna, in confronto alla durata del finale, in uscita il prossimo 1° luglio, che i Duffer hanno confermato sarà di ben ben due ore e diciannove minuti: la durata standard di un qualsiasi blockbuster hollywoodiano odierno.
Oltre a poter già decretare Stranger Things quale degna erede del modello blockbuster brevettato da Il trono di spade, viene dunque spontaneo chiedersi cosa significhi e cosa apporterà questo fenomeno - relativamente limitato ai tempi della cable TV, oggi esploso con l’incedere, il successo e le potenzialità delle piattaforme streaming - al mondo della serialità televisiva.
Torna utile, in tal senso, rispolverare l’interessantissimo articolo che l’insider Kathryn VanArendonk scrisse per Vulture in riferimento alla seconda stagione di Westworld. Un pezzo nel quale quest’ultima affermava sostanzialmente che gli episodi troppo lunghi fossero diventati “un autoindulgente, gratuita e spesso dannosa dimostrazione di muscolarità da parte della TV”. Ed è proprio questo il caso di Stranger Things 4; uno dei casi in cui un episodio più lungo della norma diventa automaticamente sinonimo e sintomo di una qualità superiore, di un investimento economico fuori dal comune, di un prestigio falsato, che spesso non corrisponde al valore o all'efficacia del testo in sé e per sé.
Come se non bastasse, unitamente all’esasperazione di questo binomio logico, proprio come Il trono di spade prima di lei, la serie dei Duffer fa della durata un vero e proprio strumento di marketing; un elemento che agisce da lancio per la serie, come se, per questo motivo, quest'ultima acquisisse un valore in sé. Come scrive bene VanArendonk, “gli episodi lunghi significano che si sta vedendo o si vedrà qualcosa di importante".
Questa è insomma la riflessione che poniamo alla vostra attenzione e alla vostra lettura e a cui non pretendiamo assolutamente di dare una risposta definitiva, specie in queste righe. Ciò che ci interessa al momento è più che altro capire se tale lunghezza sia giustificata da un contenuto e da un intreccio adeguati ad uno sguardo ed un respiro parimenti ampi. Un riscontro che non può non lasciarci in bilico.
Da un lato, infatti, vi è la riconferma del Duffer (e Levy) touch, capace ancora una volta di reimpiegare e rendere inediti, originali, unici, situazioni già viste e risvolti di trama proverbiali, per non dire prevedibili. In secundis, vi è da riconoscere e premiare indubbiamente l’ampliamento notevole di sguardo, calibro, volume ed ambiziosità che dimostra e ribadisce, in più di un’occasione, il racconto qui architettato dagli showrunner, i quali compiono un netto balzo in avanti rispetto alle scorse stagioni, a partire dalla problematica moltiplicazione degli archi narrativi (che, da tre iniziali, diventano addirittura quattro), passando per l’innata ed invidiabile capacità di storytelling, fino ad arrivare al modo quasi magico in cui riescono, sempre e comunque, malgrado un’ostica durata complessiva, ad appassionare, coinvolgere, stregare lo spettatore, se non costringendolo, quantomeno stuzzicandolo ad aderire alla pratica (mai così controproducente come in questo caso) del binge watching.
Dall’altro, invece, Stranger Things 4 soffre di un’evidente serie di lungaggini e cadute di stile che ne limitano, seppur in parte, le ambizioni. Parliamo pertanto della storyline di Joyce (una Winona Ryder insipida per un personaggio che si è involuto e non sembra aver più granché da dire), Murray (un Brett Gelman che fa il suo, nei limiti di una scrittura abbastanza ridicola) e di un redivivo Hopper (interpretato, come sempre, da David Harbour, trapiantato qui direttamente da Black Widow), che, pur foriera di un segmento di grande tensione nell’ultimo episodio e di un sentito approfondimento del background dell'ex sceriffo di Hawkins - tra l’altro coerente con il nostro discorso d’apertura -, appare totalmente sconnessa ed estranea rispetto al resto della serie, spesso arrivando a spezzare il climax, il mistero e il momentum che si vengono a creare all’interno degli altri archi paralleli, addirittura apparendo forzata, stonata nella sua indole quasi tragicomica, utile soltanto a colmare e giustificare, appunto, la durata extralarge delle puntate.
Per chi scrive, sarebbe stata una scelta ben più coraggiosa e, in fin dei conti, interessante lasciare che Hopper morisse davvero (non annullando, di conseguenza, lo struggente finale della scorsa stagione) e mostrare, in maniera più centrale e precipua, il lutto di Undici, la cui vicenda, tolto qualche accenno iniziale, prende ben presto tutt’altra strada.
In più, questo costante andirivieni tra un arco narrativo e l'altro finisce, alla lunga, per tramutarsi in una variabile stucchevole, statica, fin troppo macchinosa del racconto, specie quando avviene in assenza di un preciso filo logico, in maniera discrepante e talora quasi casuale.
Per non parlare, infine, della scelta pigra, didascalica e prosaica con cui i Duffer propongono e mettono in scena la più grande rivelazione della stagione, se non dell’intera serie; il twist che funge da “riscaldamento” per il grande finale.
Una scelta, quella alla base di uno spiegone lungo all’incirca un quarto d’ora, fortunatamente ravvivato e reso leggermente più dinamico dall’intensa interpretazione di un Jamie Campbell Bower nel ruolo di una vita e da quella di una Millie Bobby Brown leziosa, ma convincente; che sorprende nel suo essere cacofonico e stonato rispetto alla capacità drammaturgica, tensiva e affabulatoria e la chiarezza espositiva e di messa in scena dimostrata dai Duffer & co. nel corso della stagione.
E sì, non si tratta certo dell’unico momento pedante e verboso di una stagione che, tra i suoi compiti, ha pure quello di chiarire la mitologia e la genesi dell’universo-collage (re)inventato dagli showrunner in quel 2016. Tuttavia, ci si sarebbe aspettati che un cliffhanger del genere risultasse adeguato alle premesse, alle ambizioni e allo sforzo produttivo ostentato continuamente.
Ciò non significa che Stranger Things 4 sia un prodotto lacunoso o mediocre. Anzi, come anticipato sopra, questo nuovo ciclo di puntate non fa che confermare i motivi per cui la serialità televisiva rappresenta, allo stato attuale, una serissima minaccia per il cinema e il suo primato, per certi versi, già scalfito, di eccellente spettacolo popolare.
D’altronde, in questa quarta stagione, non sono soltanto i personaggi a crescere, ma anche e soprattutto questo “universo di universi”, in primis, nel tono e nelle scelte visive ed estetiche, che, come lasciava intendere l’epilogo (col senno di poi, nullo) della scorsa iterazione, sono ora più maturi, oscuri, drammatici e violenti che mai.
I tempi dei “piccoli brividi” alla Goonies, alla Stand by Me, alla Gremlins cedono dunque il passo ad una virata irriducibilmente horror che strizza ben più di un occhio a cult come la trilogia de La casa di Sam Raimi, la saga di Nightmare [non a caso, tra le guest star di uno degli episodi, vi è proprio lo stesso Robert Englund, che abbiamo sentito di recente nel netflixiano Choose or Die] e la produzione 80s del pioniere del body horror David Cronenberg; o a film come Il silenzio degli innocenti, a cui si rifà esplicitamente un intero segmento del quarto episodio, anch’esso funestato, anche se più comprensibilmente, dal virus dello spiegone.
Insieme al tono e alle estetiche incorporate e rimaneggiate secondo il Duffer touch, maturata, al punto da spingersi in numerosi pungoli al linguaggio e al mezzo cinematografico, è anche la messinscena, orchestrata, oltre che dagli stessi fratelli, dal co-inventore Shawn Levy e dall’ungherese Nimród Antal, che, ad ogni stacco di montaggio, tiene a ricordare allo spettatore quanto ingente sia stato il budget investito nella realizzazione di questi nove episodi.
Al contempo, ricordiamo il sempiterno, maggiore ed immarcescibile motivo di vanto della serie, ovvero la qualità delle interpretazioni di un ensemble che continua ad aggiornarsi ed espandersi, qui incorporando, subito dopo il già citato Jamie Campbell Bower, un Eduardo Franco talmente esilarante nei panni del junkie pizza guy Argyle, da diventare spesso invadente; la rivelazione Joseph Quinn nel ruolo di Eddie Munson, metallaro a capo del nerd club di Dungeons & Dragons a cui partecipano anche Dustin, Mike e Lucas, uno dei personaggi più interessanti di tutto l’universo di Stranger Things; e il pulitissimo Mason Dye, che ricorda, talora in maniera sorprendente, un giovane Tom Cruise, nei panni di Jason Carver, capitano della squadra di basket del liceo di Hawkins.
Nel caso di questa quarta iterazione, prima di Bower e Quinn, la prova migliore è, senz'ombra di dubbio, quella offertaci da una portentosa Sadie Sink, che, specie nella quarta puntata, funge da cuore e motore emotivo per uno dei picchi drammaturgici dell’intera serie. E, seppur il suo arco venga purtroppo abbandonato man mano che ci si avvicina al finale, c'è da dire che quantomeno il suo personaggio e la scrittura di quest'ultimo possiedono una sostanziosità, riservano qualche guizzo di scrittura, rivelano un’anima, a differenza di ciò che, viceversa, spetta ad uno Noah Schnapp irriconoscibile e al suo Will Byers, la cui tacita, ingenua ed acerba omosessualità è rappresentata e messa in scena nel modo più languido e pleonastico possibile.
“Il conformismo è il male” afferma, quasi urlando, in uno dei primi episodi della stagione, il perfetto capro espiatorio a cui dare la colpa per una serie di eventi inspiegabili; colui che diventerà per molti la vittima eccellente di un linciaggio di stampo medioevale, inquisitorio, frutto dell’ignoranza, della superstizione, dell’ipocrisia, della malizia e della chiusura mentale che ancora perseguita gli Stati Uniti e il mondo, incapaci di riconoscere il male più logico, evidente, “spiegato” e “spiegabile”, figurativamente soprannaturale e falsamente indecifrabile: quello che tutti ci auto infliggiamo costantemente, in nome di alti ideali, obiettivi erculei ed una spasmodica voglia di controllo e potere.
“Il conformismo è il male” sottolinea Stranger Things, che, arrivata alla sua quarta riproposizione, è maturata, ha messo su un nuovo look, è cambiata, si è allungata, mantenendo tuttavia ben saldi i valori e principi alla base del proprio, imprevedibile successo. Il classico "cambiare tutto, per non cambiare nulla".
Allora, sarebbe meglio dire che “il conformismo è il male”... ma solo quando serve. To be continued…
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