TITOLO ORIGINALE: Harry Potter and the Deathly Hallows - Part 1
USCITA ITALIA: 19 novembre 2010
USCITA USA: 19 novembre 2010
REGIA: David Yates
SCENEGGIATURA: Steve Kloves
GENERE: fantastico, avventura
Mentre l’oscurità si fa sempre più potente, Harry, Ron e Hermione si mettono alla ricerca degli Horcrux e, con essi, di un modo per distruggere Voldemort. La Warner Bros. decide di puntare nuovamente su David Yates per la regia delle due parti de I Doni della Morte. Nonostante venga girato back-to-back con la seconda parte, il primo atto di questo settimo capitolo si presenta come un’opera a sé stante; un dramma interiore che porta avanti un’indagine e approfondimento psicologico dei protagonisti, preparandoli cinematograficamente per ciò che avverrà. Un comparto tecnico che impara dagli errori del passato bilancia una sceneggiatura buona, seppur non integerrima. Un blockbuster, ottimo e, secondo noi, ingiustamente sottovalutato.
Squadra che vince non si cambia. E se la squadra perde? Un piccolo riassunto per i più disattenti: dopo il memorabile Il calice di fuoco, David Yates subentra a Mike Newell e prende in mano la gestione della saga di Harry Potter. Il cambio di testimone non giova però alla saga, dal momento che questi firma forse due delle trasposizioni più bieche e mal riuscite non solo in ambito potteriano, ma degli ultimi anni. L'Ordine della Fenice, tra i peccati più gravi, opera un decentramento - dall’effetto duplice e controproducente - nei confronti dell’organizzazione che lo intitola e a sfavore della minaccia del Signore Oscuro (ridotto al ruolo di mero cammeo), mentre Il principe mezzosangue - tra love stories imbarazzanti e un’importanza minima riservata a rivelazioni ed elementi narrativamente vitali - rappresenta tuttora uno dei punti più bassi della serie (superato in bruttezza solo dall’ultimo Animali Fantastici, sempre di Yates).
È un bellissimo posto stare con gli amici! Dobby è felice adesso che è con il suo amico Harry Potter!
Dobby (Toby Jones)
Ciò nonostante e malgrado le numerose richieste da parte di cineasti ben più dotati come Cuarón, Del Toro, Columbus e Shyamalan, la Warner Bros. e la produzione decidono di puntare nuovamente sul britannico, affidandogli la regia de I Doni della Morte, il romanzo finale della settimologia di J. K. Rowling. Il tavolo della sceneggiatura è invece presieduto, ancora una volta, dal veterano Steve Kloves che, fin da subito, deve scontrarsi con una scelta editoriale alquanto ostica. Infatti, così come per il quarto film, la produzione vaglia la proposta - divenuta poi realtà - di dividere il settimo libro in due parti, al fine di trasporlo dettagliatamente, mantenendone così intatti momenti e passaggi cruciali. O perlomeno, questa è la motivazione ufficiale e puramente artistica e pertanto non ci asteniamo dal pensare che, dietro una scelta simile, non vi sia nient’altro che un mero interesse capitalistico. Battere il ferro finché è caldo. Così si dice, no?
Nonostante venga girato back-to-back con la seconda parte, il primo atto de I Doni della Morte si presenta come un’opera quasi del tutto dissimile e slegata, se non per questioni narrative, rispetto alla sua succeditrice. Per l’occasione, Yates e Kloves decidono infatti di eliminare totalmente Hogwarts dall’equazione e costruire il tutto come un road movie che vede Harry, Ron e Hermione come assoluti e soli protagonisti. Questi, alla ricerca degli Horcrux e di un modo per distruggerli, sono abbandonati a sé stessi e in costante pericolo, in quanto la minaccia di Voldemort e dei Mangiamorte si è infiltrata fin dentro le mura del Ministero della Magia e, di conseguenza, nessun luogo è più sicuro.
Come se non bastasse, questa continua e solitaria fuga porta i nostri eroi allo scetticismo e alla diffidenza. Essi iniziano infatti a mettere in discussione gli ultimi sette anni della loro vita, ossia tutto ciò che ritenevano ormai assodato e praticamente certo. Ciò che ne consegue è quindi una creatura filmica che, diversamente da una seconda parte epica, bellica e risolutiva, è, al contempo, un lunghissimo antipasto, ma anche un dramma interiore e opprimente che porta avanti un approfondimento psicologico dei suoi protagonisti, forgiandoli e preparandoli caratterialmente e cinematograficamente per ciò che avverrà.
Nonostante la regia di Yates rimanga quella tipica del mestierante - che, subordinato ad una supremazia dell’elemento narrativo, azzecca più o meno i punti macchina -, in questa Parte 1 e per la prima volta dall’ultimo passaggio di testimone, il comparto tecnico riesce finalmente a bilanciare quel predominio incontrastato di sceneggiatura e racconto, mostrandosi solido, ben strutturato e coerente sia con la strada estetica intrapresa dal quinto capitolo in poi sia con le atmosfere e il pathos che dovrebbero contraddistinguere l’epilogo di una saga del genere.
Il topos del viaggio come scoperta di un mondo (magico) ormai decadente e piegato dal male oscuro e di sé stessi è ben espresso dalla macchina da presa, che - mediante un uso massiccio (ma non sempre funzionale) della handycam e un’ottima (finalmente) gestione degli attori e della loro alchimia su schermo - dà vita a sequenze frenetiche, versatili e adrenaliniche e ad altre, per contro, profondamente umane, dilatate, quasi tenere che centrano in pieno i propri obiettivi emozionali e rappresentativi, facendo inoltre breccia nel cuore e nell’immaginario dello spettatore. Tra le più riuscite troviamo di certo l'oblivion di Hermione (qui Emma Watson regala una delle prove migliori della sua carriera) sui suoi genitori, la riunione dei Mangiamorte, l’infiltrazione al Ministero, il racconto dei tre fratelli e la morte di Dobby.
Purtroppo, non tutte le ciambelle escono col buco. Anzi, a volte non escono affatto. Infatti, nonostante le lodi tessute poco sopra e uno Yates che sembra aver imparato dagli errori passati, sarebbe ingiusto tralasciare il caos e il disorientamento provocati, al contrario, da un montaggio forse troppo tranchant e da un messa in scena non sempre limpidissima che convertono le porzioni più action del racconto in una burrascosa serie di inquadrature montate e alternate senza alcun senso logico o di efficienza.
Detto ciò, non vorremmo tralasciare tre tasselli che, insieme a regia, montaggio e interpretazioni, donano integrità e forza ad un comparto tecnico senza infamia e senza lode. E’ d’obbligo citare quindi il lavoro di Eduardo Serra che, diversamente da Delbonnel ne Il principe mezzosangue, mette a punto una fotografia forse leggermente artefatta e caricata, ma comunque ben più incisiva a livello di tono e atmosfera; quello del compositore Alexandre Desplat, il quale, pur ricordando saltuariamente il Williams dei primi film, riesce a librarsi in aria con temi labirintici e tempestivi che amplificano tensione, spettacolarità ed emotività di quanto rappresentato; quello svolto dagli addetti all’effettistica e al trucco, marchio di fabbrica e prestigio della serie fin dalle sue prime battute; e, ancora, quello di un settore scenografico che è manifesto e rappresentazione metaforica dell'interiorità dei personaggi, nonché della condizione conflittuale del mondo magico.
Chiuso il capitolo tecnico-estetico, inoltriamoci nella foresta intricata e oscura della sceneggiatura. Intricata e oscura giacché, parlando dell’adattamento, nonché dell’epilogo di una delle saghe letterarie più amate di sempre, è quasi matematico che qualche fan o spettatore rimanga deluso o dispiaciuto da quanto visto su schermo. Prendersi delle libertà ed essere infedeli rispetto all’opera di partenza è da sempre una delle caratteristiche imprescindibili della saga cinematografica di Harry Potter - eccezion fatta per le prime due pellicole, forse le più fedeli in assoluto e, come prevedibile, I Doni della Morte - Parte 1 non si dimostra così coraggioso da rompere questa tradizione.
Detto ciò, bisogna però fare una precisazione a riguardo, dal momento che “prendersi delle libertà” non significa automaticamente tradire l’opera originale. Per esempio - e rimanendo in ambito potteriano -, Il calice di fuoco apporta dei cambiamenti sostanziali al libro della Rowling, ma ne conserva le peculiarità tipiche e specifiche. Il principe mezzosangue è tutto il contrario: una pellicola inconcludente, monca e superficiale che fa coriandoli della materia originale. Bene, la sceneggiatura de I Doni della Morte - Parte 1 si colloca proprio in mezzo a questi due poli opposti, dando origine ad un testo che, nonostante qualche falla e ingenuità ed un’evidente e (talvolta) problematica infedeltà, restituisce pienamente lo spirito del romanzo.
Momenti intimi e dialettici, in cui le parole e il modo di porsi dei tre protagonisti sono frutto di un’ottima scrittura ed un’altrettanto ottima introspezione caratteriale e conflittuale degli stessi, contaminata ed intercalata purtroppo a tratti e dettagli di scrittura che rispondono ai difetti e pagano gli errori delle pellicole precedenti. Personaggi che ritornano senza motivo alcuno, altri introdotti ex-novo, ma in modo casuale ed impersonale e uno stravolgimento narrativamente pretestuoso di intere scene e meccaniche chiave del libro (in primis, il fatto che il film sia incentrato sul trovare un modo per distruggere gli Horcrux, mentre nel romanzo è questione di poche pagine) sono solo alcuni dei difetti maggiori della sceneggiatura di uno Steve Kloves irriconoscibile, se confrontato con gli script dei primi capitoli.
Eppure, i tagli e le cesure apportati in questa Parte 1 sono ben più tollerabili e comprensibili rispetto anche solo a quelli della pellicola precedente che, come affermato sopra, rendevano quest’ultima veramente manchevole e frammentaria. Gli stessi acquisiscono inoltre ancor più senso, se inquadrati nello sviluppo e scansione dell’intreccio, potenzialmente scomponibile i tre macrounità. infatti, ad una prima ora che, da sola, riesce a cancellare l’incubo-Il principe mezzosangue - pregna di scene action e scandita da un ritmo intenso e travolgente - segue una sezione centrale temporalmente e ritmicamente diluita, impegnata a delineare gli effetti del prologo e di ciò che gli eventi di quest'ultimo maturano nella mente dei protagonisti. La pellicola riprende poi il passo e il ritmo dal racconto dei tre fratelli che - messo in scena ricorrendo ad un’animazione elementare, sintetica, ma profondamente suggestiva che presenta numerosi punti di contatto con l’arte delle ombre cinesi - rappresenta il culmine tecnico-artistico della pellicola.
Quest’ultimo è l’anticamera del vero e proprio finale della pellicola che, nella durata di una ventina di minuti, dà vita ad un cocktail tanto pregevole quanto difettoso. Difatti, pur riuscendo egregiamente a costruire una sequenza memorabilmente traumatica e viscerale come quella della morte di Dobby, la pellicola sbaglia in toto la tempistica del cliffhanger finale, il quale appare, per contro, frettoloso, fortuito, forzato, ma soprattutto emozionalmente inferiore a quanto avvenuto qualche minuto prima.
Non raggiungerà certo i livelli di un Prigioniero di Azkaban, di un Calice di fuoco o di un La camera dei segreti. Tuttavia, I Doni della Morte - Parte 1 simboleggia l’uscita da quel tunnel di potenziale sprecato e mediocrità intrapreso da quinto e sesto capitolo; una boccata d’aria fresca che riporta epica e pathos ad una saga che aveva da tempo smarrito la retta via. La lontananza da Hogwarts non mina assolutamente la forza dell’universo potteriano (e della pellicola), rendendolo, al contrario, ancor più ampio, esteso e, paradossalmente, claustrofobico, intimo e riflessivo. Si abbandonano le tuniche da maghi, abbracciando una dimensione più reale, matura, mai così adulta che non spersonalizza l'opera, convertendosi piuttosto in un suo tratto distintivo.
Nonostante gli stravolgimenti e le libertà prese, la magia e il fascino del mondo potteriano sono sempre lì e fortunatamente Yates, con questo I Doni della Morte - Parte 1 riesce a (ri)trovarli, infondendoli in un capitolo universalmente sottovalutato che non è e non vuole essere un capolavoro, bensì un blockbuster di tutto rispetto che soddisfa i propri intenti originari, unitamente a quelli della manovra commerciale di cui è primo atto.
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