TITOLO ORIGINALE: Harry Potter and the Prisoner of Azkaban
USCITA ITALIA: 4 giugno 2004
USCITA USA: 4 giugno 2004
REGIA: Alfonso Cuarón
SCENEGGIATURA: Steve Kloves
GENERE: avventura, fantastico
Dopo aver sconfitto Voldemort e aver nuovamente impedito il compimento delle sue mire di resurrezione, Harry dovrà fare i conti con Sirius Black, sanguinoso assassino e fervente seguace del Signore Oscuro misteriosamente legato alla famiglia del giovane mago, evaso dal carcere di Azkaban con l’intento di ucciderlo. Alfonso Cuaron, chiamato a sostituire Chris Columbus dietro la macchina da presa, imbastisce un prodotto molto più maturo rispetto ai due film precedenti, seppur contraddistinto da atmosfere non sempre performanti. Un comparto tecnico strabiliante, una sceneggiatura totalmente votata all’evoluzione caratteriale dei personaggi ed un parterre di interpretazioni immedesimate sono il tris vincente alla base di una visione forse fin troppo libera e discontinua, ma talmente coraggiosa da convertire Il prigionero di Azkaban in un instant cult.
Bentornati, cari lettori! Come forse saprete ormai, da giovedì 12 novembre, Mediaset ha deciso di riproporre, per la seconda volta in un solo anno - e non più su Italia 1, bensì su Canale 5 -, la tanto attesa quanto popolare maratona di tutti e 8 i film di Harry Potter. Per l’occasione, Cinemando ha pensato dunque di designare il giovedì (salvo imprevisti) come “Harry Potter Day”, pubblicando, ad ogni appuntamento, la recensione del capitolo in programmazione quella settimana.
Le persone che ci amano non ci lasciano mai veramente. Possiamo sempre ritrovarle. Qui dentro.
Sirius Black (Gary Oldman)
Tira aria di cambiamento nel mondo dei maghetti (forse non più così piccoli) di Hogwarts. Dopo un anno scolastico estremamente pericoloso (al punto che si voleva chiudere la scuola) - tra mezzosangue pietrificati, ragni giganti ed un mostruoso basilisco - ed aver impedito ancora una volta a Tom Orvoloson Riddle alias (io sono) Lord Voldemort di tornare in vita e portare così a compimento i suoi piani di grandezza e resurrezione, Harry Potter è pronto a tornare - probabilmente amareggiato - a casa dei Dursley per passare le vacanze estive, lontano dagli amici e dai tanto amati guai [per tutti i dettagli, leggete la nostra recensione de La camera dei segreti]. Tutto sembra procedere nella norma tra angherie e soprusi, quando, un bel giorno, la famiglia riceve la visita di zia Marge, la sorella di zio Vernon. Ecco, se i Dursley si comportano male con il povero Harry, zia Marge nei confronti del mago non prova nient'altro che puro odio. Infatti, questa inizia a schernirlo e offendere la memoria dei suoi genitori, tanto da far traboccare Harry che decide, contravvenendo alle regole, di gonfiarla a mò di palloncino, per poi scappare di casa con tutto l’occorrente per il nuovo anno scolastico.
Fermatosi un attimo sul ciglio della strada per riprendere fiato, questi viene avvicinato da un misterioso cane nero che sembra volerlo attaccare. A fermarlo, un misterioso autobus magico a tre piani invisibile ai babbani, il Nottetempo che, in seguito ad un viaggio frenetico e rocambolesco, scorta Harry al Paiolo Magico. Qui, il nostro mago protagonista fa la conoscenza del Ministro Caramell, che lo rassicura riguardo al guaio con zia Marge, e riesce a ricongiungersi con Ron, Hermione e la famiglia Weasley. Ed è proprio Weasley senior a metterlo in guardia rispetto all’anno scolastico che sta per intraprendere. Di recente infatti, Sirius Black, pericoloso assassino nonché fervente seguace di Voldemort, è evaso dal carcere di Azkaban e si è messo sulle tracce di Harry al fine di ucciderlo. Quest’idea di pericolo e tensione è successivamente confermata dall’apparizione, prima sul treno e poi nei paraggi della stessa Hogwarts, di una schiera di dissennatori - creature oscure oscure e pericolose, solitamente a guardia di Azkaban. Questa presenza è giustificata e voluta dallo stesso Caramel, dal momento che, fino alla cattura di Black, saranno proprio loro i “sorveglianti” del castello.
Oltre che nel mondo magico, nel lontano 2002 era tempo di cambiamento anche in casa Warner Bros o, come si dice, behind the scenes. Infatti, con Il prigioniero di Azkaban, il tempo produttivo di ogni film della serie venne aumentato a diciotto mesi perché, citando il produttore David Heyman, “bisognava dare tutto il tempo necessario allo sviluppo di ogni pellicola”. Inoltre, come se non bastasse, Chris Columbus - lo storico regista dei primi due capitoli della saga - decise di lasciare il proprio impiego per passare più tempo con i figli e la famiglia, rimanendo unicamente in veste di produttore. Per rimpiazzarlo e raccogliere la sua magnifica e “spielberghiana” eredità, vennero chiamati artisti del calibro di Guillermo del Toro - che ritenne il progetto “così solare e felice e pieno di luce, da non interessarlo” (ci domandiamo che film avesse visto) -, M. Night Shyamalan, occupato però con The Village (2004), il veterano Kenneth Branagh, che ne La camera dei segreti aveva interpretato Gilderoy Allock, e Alfonso Cuarón. Quest’ultimo era inizialmente restio a raccogliere lo scettro lasciato cadere da Columbus, in quanto ammise di non conoscere abbastanza la saga letteraria. Tuttavia, ben presto recuperò i primi tre libri e se ne innamorò follemente, tanto da voler apportare un’impronta personale e autoriale alla lavorazione di questo Il prigioniero di Azkaban. La leggenda narra che, come prima cosa, Cuarón affidò a Daniel Radcliffe, Rupert Grint ed Emma Watson (il trio protagonista) la consegna di un tema autobiografico che raccontasse i rispettivi personaggi, così da conoscerli meglio. Di tutti e tre, solo "Rupert non consegnò il compito" e quando il regista gli chiese il perché, lui rispose: «Io sono Ron; Ron non l'avrebbe mai scritto in tempo».
Questo passaggio di testimone - da Columbus a Cuarón; da un regista principalmente di blockbuster per ragazzi e per famiglie, a un autore fatto e finito, quattro volte premio Oscar - salta all’occhio fin dai primi minuti, addirittura dagli stessi titoli di testa. Qui, il marchio Warner Bros., lasciando intravedere la forma di una finestra, apre il sipario sulla camera di un Harry intento ad esercitarsi con un incantesimo, mentre zio Vernon, disturbato dai rumori, apre e chiude continuamente la porta per coglierlo in flagrante. Questo siparietto comico/incipit, interamente costruito su un finto piano sequenza, si conclude con una fulminea carrellata all’indietro che, imponendo un ritorno ad una dimensione puramente informativa, mostra finalmente logo e titolo del film. Anche soltanto questi frammenti iniziali sono sintomatici e indicativi dell’intero registro adottato da Cuarón, che, fin da subito, dà prova di una consapevolezza e visione registiche sbalorditive, superando, in dinamismo, magniloquenza e slancio, la direzione narrativa e pressoché invisibile di Columbus. Zoom frenetici, giochi prospettici e riflessivi, piani-sequenza coraggiosi che, seppur evidentemente finti e impostati, danno maggior corpo e respiro al mondo magico, e un’alternanza calibrata di strumenti e dispositivi quali camera a mano, steadycam, dolly e carrelli sono la colonna vertebrale di una messa in scena volta - oltre che ad una resa visiva efficace e suggestiva di quanto riportato nel découpage tecnico - ad una traduzione filmica quanto più affascinante e avvincente della sceneggiatura di Steve Kloves (che tratteremo in seguito).
Unitamente a regia e messa in scena, tale innovazione e stravolgimento dei canoni trova espressione, ne Il prigioniero di Azkaban, in molte altre dimensioni tecniche ed estetiche, soprattutto post-produttive. Prima fra tutte, il montaggio di Steven Weisberg che, introiettando la traccia registica di Cuarón, lavora sul girato con un approccio vertiginoso, vibrante e originale in molti suoi cenni e tratti stilistici. Da citare, ad esempio, l'impiego di tecniche di punteggiatura - come l’iris che Weisberg utilizza sia per dividere in capitoli le varie sequenze, sia per sottolineare la natura circolare di regia, messa in scena e dissertazione temporale conclusiva, la dissolvenza incrociata e l’inserzione diegetica per indicare il passare delle stagioni - e altre focalizzate principalmente sull’intrattenimento e la sorpresa dello spettatore (è questo il caso del “fast” o “accelerated” motion, tecnica opposta allo slow motion, qui utilizzata per la sequenza del Nottetempo). Continuando a parlare di dimensioni tecnico-estetiche stravolte, non fanno certo eccezione la fotografia aurea ed evanescente di Michael Seresin - che, malgrado qualche momento prestigiosamente fotografato, non riesce a restituire quell’atmosfera cupa e gotica, tra i punti di forza maggiori delle scorse produzioni -; il reparto costumi di Jany Temime che dà il via ad un progressivo e controproducente (a livello di tono e contesto) abbandono degli storici mantelli e divise, in favore di camicie, cravatte e maglioncini smanicati; la colonna sonora (l’ultima della saga) composta da John Williams che, per volere dello stesso Cuarón, si discosta esponenzialmente dalle creazioni dei primi due capitoli, fondendo temi classici riarrangiati con altri scritti ad hoc; il lavoro di design ed effettistico dietro creature quali dissennatori, lupi mannari, ippogrifi; e una scenografia, costretta, per ragioni narrative, ad apportare cambiamenti sostanziali a geografia e morfologia di Hogwarts e dintorni (basti pensare alla capanna di Hagrid, presentata ai piedi di una valle, o all’entrata della casa di Grifondoro, praticamente a ridosso delle scale).
Questo nostro discorso, imperniato attorno ai pilastri di stravolgimento e innovazione, continua e trova radici ben salde anche e soprattutto dal punto di vista narrativo, in quanto la sceneggiatura di Steve Kloves registra un’evoluzione non indifferente rispetto ai temi e ai contenuti - certamente più ingenui e formativi, seppur talvolta di matrice quasi fanta-horror - delle opere “columbiane”. Ovvio, al centro di tutto, vi è sempre una narrazione lineare che, componendo un mix di elementi ex novo e di altri ormai ricorrenti, ha, come fine ultimo, la genesi di sequenze sbalorditive e al cardiopalma (una su tutte, il magnifico loop finale), dai molteplici twist e risvolti sorprendenti - lasciando fuori dai giochi, almeno per una volta, il nostro tanto amato Signore Oscuro. Tuttavia, nell’economia della narrazione, tale costruzione non è che la superficie, giacché il focus primario dell’intreccio e del lavoro di Kloves è piuttosto un’esplorazione e approfondimento - come mai prima d’ora - delle origini di Harry e di quelle di tanti altri personaggi del suo universo, che finalmente sembrano acquisire un barlume di tridimensionalità. Tra questi, ricordiamo ovviamente Remus J. Lupin, nuovo insegnante di difesa contro le arti oscure e, fin da subito, figura di riferimento per Harry e il suo percorso di crescita [fortissima, a livello metaforico e di messa in scena, il momento in cui questi racconta ad Harry la storia dei suoi genitori, dando le spalle alla macchina da presa, guardando perciò al passato, a differenza del maghetto, rivolto in avanti, verso il futuro. Il tutto ha luogo su un ponte, il ponte tra Harry stesso e il suo passato], Peter Minus e, ultimo ma non per importanza, Sirius Black (chiave di volta di alcuni dei momenti più alti di tutto il film). Peccato che, a cotanta esplorazione, corrispondano, per contro, un adattamento semplicistico e castrante dell’opera originale - della quale vengono tagliati passaggi essenziali come la storia della mappa del malandrino, la fuga di Black da Azkaban e il patto di sangue -, una progressione, alle volte, tremendamente accelerata, qualche forzatura (il fatto che un manufatto così potente come la giratempo venga affidato ad una ragazzina di tredici anni, seppur brillante e saggia) e una comicità sofisticata e grottesca che, ciò nonostante, si rivela di frequente fallace e fuori luogo.
Sebbene questi evidenti difetti penalizzino in maniera esponenziale la riuscita finale del progetto, sarebbe immorale definire Il prigioniero di Azkaban un Harry Potter fallimentare, addirittura deludente (per quello ci sarà tempo). Leggermente più debole rispetto a La camera dei segreti (e alle sue atmosfere), ma senz’altro superiore a La pietra filosofale, l’opera di Cuarón presenta certamente le sue cadute di stile e forse arriva a prendersi un po’ troppe libertà nei confronti sia di quanto scritto dalla Rowling sia di quanto creato, a livello visivo ed estetico, da Columbus - peccando pertanto di tracotanza e incoerenza e configurandosi, nel bene o nel male, come il prodotto più autonomo e originale dell’intera saga. Tuttavia, una regia dinamica, una messa in scena creativa e accorta, (re)casting azzeccati di attori come Oldman, Thewlis e Gambon (quest'ultimo a sostituzione di un Richard Harris scomparso prematuramente), interpretazioni ispirate - credibilità e fedeltà anagrafica a parte - e una mezz’ora conclusiva perfetta in termini di incastro narrativo, montaggio e ritmo, bastano ad estinguere qualsiasi tipo di dubbio in merito alla validità complessiva e sufficienza della produzione. Con Il prigioniero di Azkaban, Alfonso Cuarón imbastisce e trasferisce su pellicola una visione talmente coraggiosa e personale, da convertirsi in un qualcosa di istantaneamente iconico ed indimenticabile. Coraggio e autorialità che, purtroppo e come da tradizione oramai, dovremo salutare all’alba produttiva del prossimo capitolo.
Al prossimo anno, giovani maghi! Alla prossima settimana, lettori!
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