TITOLO ORIGINALE: Harry Potter and the Order of the Phoenix
USCITA ITALIA: 11 luglio 2007
USCITA USA: 11 luglio 2007
REGIA: David Yates
SCENEGGIATURA: Michael Goldenberg
GENERE: fantastico, avventura, drammatico, azione
Harry Potter viene a conoscenza dell’esistenza di un’organizzazione segreta - di cui facevano parte anche i suoi genitori - e forma un esercito clandestino per scontrarsi contro l’atteggiamento oscurantista e conservatore del Ministero della Magia e l’ascendente minaccia di Lord Voldemort. David Yates subentra a Mike Newell dietro la macchina da presa della saga, dando vita ad un capitolo soddisfacente come guilty pleasure, ma ben lontano dall’essere uno dei migliori o più riusciti degli otto. Un comparto tecnico-estetico di buona fattura risulta quasi totalmente asservito ad una centralità narrativo-drammaturgica intenta a sintetizzare e trasporre il libro più lungo della serie letteraria. Tra sequenze visivamente sbalorditive, tuttavia prive di pathos, ed un sottotesto politico per niente scontato, L’Ordine della Fenice è prologo e primo atto della momentanea crisi qualitativa in cui incapperà definitivamente l’universo potteriano dalla pellicola successiva.
Bentornati, cari lettori! Come forse saprete ormai, da giovedì 12 novembre, Mediaset ha deciso di riproporre, per la seconda volta in un solo anno - e non più su Italia 1, bensì su Canale 5 -, la tanto attesa quanto popolare maratona di tutti e 8 i film di Harry Potter. Per l’occasione, Cinemando ha pensato dunque di designare il giovedì (salvo imprevisti) come “Harry Potter Day”, pubblicando, ad ogni appuntamento, la recensione del capitolo in programmazione quella settimana.
Oh Harry, non conta quanto tu sia simile a lui, conta solo quanto sei diverso da lui.
Albus Silente (Michael Gambon)
I nostri tre maghi preferiti speravano di passare un quarto anno quantomeno normale e invece si sono trovati di fronte ad un prestigiosissimo torneo che, coinvolgendo le scuole di Hogwarts, Beauxbatons e Durmstrang, ha visto, in maniera del tutto fortuita e straordinaria, anche l’adesione (come sempre, suo malgrado) dello stesso Harry. Adesione che, ben presto, si è rivelata essere nient’altro che un pretesto per favorire e portare alla definitiva rinascita del Signore Oscuro. Come ovvio che sia, questa resurrezione non è però avvenuta senza arrecare danni al mago occhialuto e alla sua, già instabile, psicologia. Questa volta, ad andarci di mezzo è stato infatti il povero Cedric Diggory - secondo concorrente di Hogwarts scelto, per il torneo, dal calice di fuoco -, ucciso da Codaliscia davanti ad un Harry inerte. L’anno scolastico - caratterizzato lo stesso da momenti goliardici, spettacolari e spensierati - si è dunque concluso non tanto con i soliti festeggiamenti, bensì con una veglia funebre abbastanza pessimistica rispetto al futuro del mondo magico e dei suoi abitanti. Citando le grevi e soffocanti parole, pronunciate da Silente nel finale del film: “Cedric Diggory è stato assassinato da Lord Voldemort. Il Ministero della Magia non desidera che ve lo dica [...] Momenti bui e difficili ci attendono. Presto dovremo affrontare la scelta fra ciò che è giusto e ciò che è facile”.
E proprio queste lapidarie e oscure parole saranno il filo conduttore della recensione in essere, in quanto riassumono perfettamente il soggetto di questa quinta iterazione della saga. Infatti, nonostante Harry Potter e Cedric Diggory abbiano combattuto (il primo) e vissuto sulla propria pelle (il secondo) il ritorno di Lord Voldemort, una buona parte del mondo dei maghi sembra non credere particolarmente a quanto sostenuto dal maghetto occhialuto. Unitamente ad una buona dose di giusto scetticismo, questo atteggiamento dubbioso in merito ad un effettivo ritorno del Signore Oscuro è ulteriormente alimentato dalla politica di screditamento e diffamazione, nei riguardi di Harry e Silente, adottata dal Ministero della Magia e, in particolare, dal Ministro Cornelius Caramell - ogni giorno sempre più paranoico e manipolato (probabilmente dallo stesso Voldemort). Per evitare che questo concetto di rinascita del male più assoluto attecchisca tra i giovani studenti di Hogwarts, quest’ultimo decide di inviare una sua rappresentante in qualità di insegnante di difesa contro le arti oscure prima, di alta inquisitrice e preside poi: la perfida Dolores Umbridge. Tutto ciò, unito alla diffidenza nei suoi confronti da parte di molti suoi compagni e amici più stretti e al senso di colpa per la morte di Cedric, rappresenterà la causa e la base caratterizzante uno degli anni più difficili - a livello mentale e umano - per Harry. E non solo.
Si raggelano gli animi e tutto si fa ancora più cupo: non significherà mica che sono cambiati nuovamente lo spirito e la mente produttiva dietro la macchina da presa? Ebbene sì, dal momento che a Mike Newell (firmatario di alcuni dei momenti più memorabili dell’immaginario potteriano) subentra un esordiente David Yates, qui al suo primo approccio con la regia cinematografica. Questi - tuttora alle redini del Wizarding World e conosciuto, all’epoca, soltanto per la direzione di un paio di film e serial televisivi - viene scelto dal produttore David Heyman a causa dell’approccio e contenuto politico presente, anche se in maniera abbastanza sobria, in molti suoi lavori e ritenuto semplicemente perfetto per un film, citando Yates, “tagliente, emozionante e politico” come L’Ordine della Fenice. “Un film sulla politica intesa come ribellione giovanile e abuso di potere” [Heyman] che, oltre al cambio di regista, vede - per la prima volta - un passaggio di testimone anche al tavolo della sceneggiatura. Difatti, per impegni lavorativi, lo storico autore Steve Kloves non partecipa alla pre-produzione della pellicola, che viene così affidata a Michael Goldenberg. Meglio conosciuto per essere uno dei creativi dietro quel flop che è Lanterna Verde (che scriverà qualche anno dopo, 2011), questi non solo deve raccogliere l’eredità dello sceneggiatore che, a tutti gli effetti, ha creato l’Harry Potter cinematografico, ma deve affrontare, anche e soprattutto, l’adattamento del libro più lungo della serie. In tal senso, l’autrice J. K. Rowling - ben conscia dell’impossibilità di trasporre fedelmente su schermo un’opera come L’Ordine della Fenice - concede ai creativi e alla produzione un’innata e singolare libertà traspositiva in relazione alla sua creatura, chiedendo loro soltanto di “dar vita ad un grande film [...], una storia che avrebbe amato”. Il risultato? Uno degli script meno fedeli e più castranti rispetto all’opera originale (il che diventerà, a quanto pare, una sorta di leit motiv per tutta l’era Yates).
Sorvolando su dispiaceri e rimpianti molto più vicini e propri di fan e lettori accaniti della controparte cartacea, è nostro compito e obiettivo primario analizzare la fattura del lavoro di Goldenberg non solo in quanto adattamento, ma anche e soprattutto come sceneggiatura funzionante e congrua. Il risultato di tale analisi è duplice: da un lato infatti, la scelta di raccontare il tutto come un viaggio emotivo ed emozionale di un Harry sempre più solo, snervato e abbandonato da affetti e figure di riferimento si rivela essere un’idea vincente che dà vita ad un alone pessimistico ed catastrofico che permea e determina l’intera opera. Dall’altro invece, l’azione di sintesi portata avanti da Goldenberg, in certi casi, tradisce forse troppo quanto ideato dalla Rowling, sacrificando momenti di transizione più o meno importanti e dando così origine ad un’impalcatura filmica che talvolta si mostra frammentaria, quasi episodica (complici alcuni evidenti tagli operati in sede di montaggio). Per di più, questa focalizzazione esclusiva, che vede Harry e il suo dramma in qualità di protagonisti assoluti di quasi tutte le sequenze della pellicola - pur essendo un’idea vincente -, priva quest’ultima di ogni possibilità di esplorazione, divagazione e ampliamento nei confronti del mondo magico e dei suoi componenti. Ciò che ne consegue è dunque una perfetta disamina del mago protagonista e del suo stato d’animo. a discapito di un approfondimento opportuno di tutto ciò che è fondamentalmente di contorno o qui introdotto per la prima volta.
Vittima principale di tale processo di focalizzazione e sintesi è, senza alcun ombra di dubbio, lo stesso Ordine della Fenice che, intitolando il film, ci si aspetterebbe ricopra un ruolo preponderante e centrale nell’economia del racconto. Purtroppo, la realtà dei fatti è ben lontana dal “ci si aspetterebbe” e rivolta piuttosto ad una denotazione superficiale (spesso relegata alla mera citazione) e utile soltanto ad una progressione della trama e alla caratterizzazione ed evoluzione di un paio di personaggi (Harry incluso). Sarebbe stato certo molto meno appetibile dal punto di vista promozionale, ma una cosa è certa: il film si sarebbe potuto intitolare (e avrebbe avuto molto più senso così) Harry Potter e l’esercito di Silente, dal momento che il fulcro di buona parte del racconto non è tanto lo scontro tra l’Ordine e Voldemort, quanto la ribellione di Harry e compagni contro l’oscurantismo e il proibizionismo del Ministero. E qui ci ricolleghiamo alle parole pronunciate da Yates e riportate poco sopra sul fatto che L’Ordine della Fenice sia innanzitutto un film politico, forse il più politico dei restanti sette. Alla rinascita del Signore Oscuro coincide infatti l'instaurazione di una vera e propria dittatura del Ministero e di Caramell stesso, il quale, piuttosto che arrendersi ed accettare il ritorno del mago più malvagio di tutti, preferisce far finta che nulla di grave sia accaduto, screditare (anche attraverso metodi non proprio ortodossi) chiunque non la pensi così e scoraggiare ogni forma di opposizione e protesta. Questo dispotismo è rappresentato e sottolineato, visivamente e narrativamente parlando, da manifesti giganteschi del Ministro della Magia (reminiscenti di 1984 di George Orwell e del suo Grande Fratello), da uno stretto controllo di media come giornali (utilizzati come transizione) e radio, da una censura e privazione di ogni forma di arte, intrattenimento e socializzazione, ma soprattutto da una figura in particolare che diventa, a tutti gli effetti, un prolungamento di Caramell e della sua influenza all’interno di Hogwarts.
Maligna, sleale, bisbetica, insensibile, perversa, odiosa e odiata, Dolores Umbridge è forse uno dei personaggi dell’universo potteriano meglio trasposti su schermo. Merito, questa riuscita, non tanto di una scrittura ispirata e sorprendente, quanto piuttosto di una scelta di casting azzeccata e di un’interpretazione semplicemente iconica. Imelda Staunton diventa un tutt’uno con il personaggio del crudele e sadico sottosegretario che - contrastando a livello estetico e comportamentale con la circostante Hogwarts e ciò che questa dovrebbe significare per il mondo della magia e i suoi studenti - si converte ben presto nel villain effettivo del racconto filmico, oscurando, dal punto di vista della minacciosità, lo stesso Voldemort e, per presenza e potenza scenica, figure quasi eteree come Silente. La sua diatriba con il clandestino esercito organizzato da Harry e compagni rappresenta la centralità della pellicola e, per buona parte del corpo centrale della narrazione, concorre nel distogliere l’attenzione dello spettatore dal reale conflitto e dall’autentico problema che i nostri si troveranno poi ad affrontare.
Nonostante la bravura e inoppugnabile perfezione della Staunton, questo decentramento della guerra che sta per arrivare e, in secondo luogo, della figura di Voldemort, secondo il nostro parere, è uno dei difetti maggiori del film, dal momento che questo si configura come continuazione e ripresa di quello che, a tutti gli effetti, è uno dei momenti più alti della saga cinematografica: la rinascita del Signore Oscuro. Vedere il Voldemort di Ralph Fiennes - che qui perde gran parte del carisma acquisito ne Il calice di fuoco - confinato alla funzione di mera visione o pseudo-cameo [appare veramente cinque minuti in tutto il film] è, oltre che un doloroso colpo al cuore, una scelta che si rivela oltremodo nociva e controproducente ai fini della costruzione di un conflitto - fine ultimo non solo de L’Ordine della Fenice, ma anche dell’intera saga - che ha riportato e riporterà il mondo magico all’oscurità sconfitta qualche decina d’anni prima. E non a caso riteniamo azzeccato il titolo sostitutivo Harry Potter e l’esercito di Silente, visto che ogni dettaglio ed elemento riconducibile alla minaccia e ai piani dei Mangiamorte e del loro Signore - a partire da personaggi nuovi come Bellatrix, passando per la resa dei conti finale (per quanto epica visivamente e a livello di tensione), fino ad arrivare alla profezia che Voldemort sta cercando - viaggiano tra nebulosità, approssimazione e trascuratezza. L’attenzione e cura produttiva dedicata a sequenze come la punizione inflitta a Harry dalla Umbridge o gli allenamenti dell’esercito segreto non è neanche comparabile alla superficialità con cui vengono trattati momenti ben più cruciali come la morte di Sirius (certamente traumatica ed emotivamente devastante, ma privata del necessario pathos) o il combattimento tra Ordine e Mangiamorte in toto - incluso lo scontro tra Silente e Voldemort, risolto con troppa disinvoltura.
Del lavoro compiuto da Goldenberg nella riduzione del libro più lungo del catalogo potteriano per il film più corto della saga (indizio di una sintesi forse troppo severa dell’opera originale) abbiamo discusso in maniera esauriente. Non ci siamo però soffermati a dovere sul comparto tecnico-artistico e i suoi pregi (o difetti) e sul lavoro compiuto da Yates dietro la macchina da presa. Iniziamo col dire che, in confronto a quello tra Il prigioniero di Azkaban e Il calice di fuoco, il passaggio dal quarto e al quinto capitolo è molto meno disorientante e drastico. Come indicato nella recensione de Il calice di fuoco, Mike Newell riprende, in seguito alla gestione autoriale di Cuarón, la tradizione del regista in funzione del racconto, che riesce a subordinare una propria estetica e visione ai voleri e bisogni primari della produzione. Tuttavia, se nelle opere di Columbus (più) e Newell (meno) si notava una vaga impronta artistica e personale, Yates si fa da parte, inchinandosi quasi totalmente al cospetto e a favore di una maggior centralità della narrazione, in relazione a cui muove e posiziona la cinepresa. La sua è una regia solida e praticamente invisibile che, pur adottando la politica del “punto macchina migliore per una miglior resa della sceneggiatura”, riesce comunque a palesarsi ed emergere lievemente nelle scene di combattimento magico, durante le quali la macchina da presa veste il ruolo di abile cronista, ritmandole e rendendole suggestive e avvincenti. In ultimo luogo, è d’obbligo citare un comparto effettistico strabiliante e sempre efficace, una fotografia livida e funerea (ancor più dark e opprimente rispetto a quella delle iterazioni precedenti) che si attesta sui toni del verde e del grigio, una soundtrack - oggetto nuovamente di un cambio di compositore - eccezionale in un paio di tracce ed un sonoro accattivante ed immersivo, in particolare quello degli incantesimi.
Come spiega Sirius a Harry nella sequenza dell’albero genealogico: “Tutti abbiamo luce e oscurità dentro di noi. Ma sta sempre a noi scegliere da che parte schierarci”. A tal proposito, la sceneggiatura di Goldenberg prima (unitamente a quanto riportato sopra) e la messa in scena di Yates avrebbero qualcosa da confessare, in quanto alle volte propendono volentieri per il lato oscuro (che, tradotto, non è che la mediocrità produttivo-qualitativa). Infatti, se da una parte L’Ordine della Fenice è responsabile di alcuni veri e propri colpi di genio, soprattutto in sede di casting (un altro esempio è quello del personaggio di Luna Lovegood) e a livello d’atmosfera, dall’altra il duo Goldenberg/Yates è reo e causa principale di alcuni scivoloni gravi, quando non assolutamente ridicoli. Tra questi, una serie di ingenuità ed insensatezze proprie già del decoupage, tuttavia mantenute nella sua trasposizione su schermo, un paio di momenti e scelte artistiche nonsense e pertanto deleterie, spiegoni dilaganti e pretestuosi, forzature evidenti ed invalidanti, catchphrase totalmente non richieste e, su tutti, un ritmo instabile, figlio dei summenzionati tagli di montaggio che sembra aver subito la pellicola.
Con L’Ordine della Fenice, si apre dunque il sipario sulla quadrilogia di Yates, detentrice della maternità delle opere forse più controverse e contestate delle otto complessive. Nonostante ciò e malgrado i difetti e i problemi e l’eclatante distacco con le quattro pellicole precedenti, questo ostico e complesso quinto capitolo è ben lontano dalla frattura provocata ed inettitudine dimostrata dal prossimo Il principe mezzosangue, in cui la produzione sbaglierà veramente il tiro e la formula, rischiando di stramazzare per terra, insieme al destino della saga intera e dei suoi personaggi. Seppur claudicante e schiacciato dalla grandezza e ricchezza della materia letteraria, L’Ordine della Fenice è niente meno che il naturale proseguimento estetico, registico, narrativo (per certi versi) e produttivo de Il calice di fuoco, reso grande da un sottotesto politico assolutamente non scontato - soprattutto per un film rivolto ai ragazzi - e da una gamma di sequenze entrate nell’immaginario collettivo; degradato, per contro, da una sprovvedutezza e immaturità nella gestione di Voldemort e di coloro che dovrebbero essere i villain principali e nella sintesi della storia d’origine. In definitiva, un’avventura godibile, intrattenente ed emozionale che si configura come prologo e primo atto della momentanea crisi qualitativa in cui incappa l’universo potteriano, che vedrà il suo climax nella pellicola successiva - di sicuro il punto più basso della serie. Un capitolo soddisfacente se preso come guilty pleasure, ma ben lontano dall’essere il migliore o il più riuscito.
Al prossimo anno, giovani maghi! Alla prossima settimana, lettori!
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