TITOLO ORIGINALE: La legge di Lidia Poët
USCITA ITALIA: 15 febbraio 2023
PIATTAFORMA/CANALE: Netflix
REGIA: Matteo Rovere, Letizia Lamartire
SCENEGGIATURA: Guido Iuculano, Davide Orsini
GENERE: giudiziario, in costume, commedia, giallo
N. EPISODI: 6
DURATA MEDIA: 52 min
La legge di Lidia Poët non è solo l'ultima serie italiana originale Netflix, ma è anche l'ultimo, riuscitissima proposta dell'eclettica ed ambiziosa produzione della Groenlandia di Matteo Rovere e Sydney Sibilia. Il culmine, il compimento e la riconferma della forte spinta e il corretto e ragionato respiro internazionale che guida gli investimenti di questa fulgida realtà tutta italiana. A partire delle vicende biografiche di una figura storica realmente esistita, la serie compie una perfetta sintesi tra una scansione estremamente classica ed archetipica del racconto televisivo, e la maggior consapevolezza e la più giovane rivoluzione di quest’ultimo nelle lande relativamente libere e incontrollate dello streaming e delle piattaforme. Ma combina anche un felice matrimonio tra la nobiltà del prodotto d'intrattenimento ed una sperimentazione di linguaggi, stili ed estetiche soffusa ma sempre ben presente; numerosi flirt post-moderni ed ipertestuali. Stiamo parlando di un prodotto che imposta uno standard per le produzioni future della "bottega italiana", sotto cui sarà impensabile anche solo pensare di mettere piede.
La legge di Lidia Poët crea dipendenza. No, non è un’esclamazione campata in aria un po’ per caso, tanto per attirare la vostra attenzione ed intrappolarvi tra le righe di questa recensione. È davvero l’effetto che la nuova serie italiana originale Netflix sortisce su chiunque o quasi (per chi vi scrive è stato proprio così) decida di lasciarsi trasportare dalla premessa, premere play ed abbandonarsi ad un avido binge-watching, facilitato dalla clemente durata degli episodi (sei in tutto), seppur contraddittorio rispetto alla natura, alla struttura, così come alla concezione estetico-produttiva che la informa (un aspetto di cui parleremo in seguito).
Ma prima di addentrarci nel vivo della questione, è bene precisare da dove nasce e, soprattutto, di cosa parla La legge di Lidia Poët. È pertanto d'uopo bene sapere che la serie è l'ultimo dei titoli prodotti dalla Groenlandia di Matteo Rovere e Sydney Sibilia, la quale, in altri lidi, definimmo quale una delle realtà più vivaci, preziosi stimolanti dell’attuale panorama audiovisivo nostrano; una senza cui l’esercizio produttivo, nel nostro paese, sarebbe senz’altro più deprimente. Ci riserviamo allora la libertà di ripetere e sottoscrivere quelle stesse parole anche in questo caso, aggiungendo ed accentuando in più la forte spinta e il corretto e ragionato respiro internazionale che hanno sempre contraddistinto ogni produzione Groenlandia, specie per quanto riguarda il lato più prettamente seriale e televisivo.
Ciò detto, La legge di Lidia Poët è quindi il culmine, il compimento e la riconferma di quel discorso, in quanto, per chi non lo sapesse, si tratta di una serie che parte delle vicende biografiche di una figura storica realmente esistita per farne eccellente materia televisiva e versatile icona pop.
In questo caso specifico, gli showrunner Guido Iuculano e Davide Orsini recuperano la storia e le cronache di tal Lidia Poët, personaggio alquanto dimenticato e - ahinoi - marginalizzato dalla memoria nazionalpopolare, vissuto nella Torino post-risorgimentale di fine Ottocento (la serie prende il via nel 1883, ndr), passata alla storia per essere stata la prima donna in Italia ad essere entrata nell'Ordine degli avvocati, e lo pongono al centro, ancor prima che di un discorso di per sé o comunque fortemente occidentale di maggior rappresentanza e giusta emancipazione femminile in campo audiovisivo, delle trame e degli intrighi giallistici di una serie che combina formule tradizionali e linguaggi decisamente italiani con gli standard della cosiddetta (e più recente) quality television.
E, a differenza di ciò che si potrebbe comunemente pensare, questo processo di cosiddetta finzionalizzazione ed episodizzazione di una materia inequivocabilmente storica non è così comune in Italia - la cui produzione cinematografica e televisiva è più che altro votata alla forma del biopic o comunque del racconto biografico -, come invece lo è già nei paesi d’oltralpe. È quello che ha fatto, per esempio, la TV di stato austriaca - non a caso, sempre in collaborazione con Netflix - con la serie Freud, la quale - al di là delle premesse promettenti e di esiti viceversa non proprio brillanti - riprendeva alcuni cenni biografici della vita e del lavoro del (più) noto padre della psicanalisi, facendogli tuttavia indossare i costumi di uno pseudo-detective ed immergendolo in una cornice narrativa che intrecciava lo studio e l’analisi psichica di criminali e sospettati, con risvolti soprannaturali ed esoterici. Lì però tutto convergeva e tendeva verso l’ipotesi di una grande e terribile macchinazione che aveva inizio ben prima del pilota e si estendeva oltre il finale di stagione; quello era un prodotto con una fortissima verticalità.
Cosa che, come anticipato sopra, non è La legge di Lidia Poët, il cui grande punto di forza e forse primo, vero motivo di successo è, per l’appunto, la crasi, la sintesi tra una scansione estremamente classica ed archetipica del racconto televisivo, e la maggior consapevolezza e la più giovane rivoluzione di quest’ultimo nelle lande relativamente libere e incontrollate dello streaming e delle piattaforme.
Fatte le debite, anzi galattiche e fantasmagoriche proporzioni, la serie di Guido Iuculano e Davide Orsini si inserisce in una tendenza più recente di cui, per certi versi, fanno parte anche The Mandalorian, e (in parte) WandaVision, nei termini di un recupero della classicità e della verticalità tipica del formato serial-televisivo e, in particolare, dei racconti televisivi di genere giallo-mystery. Le stesse forme grazie a cui molta fiction italiana è riuscita a tirare avanti fino ad oggi.
E quindi: quello che i teorici di linguaggi della televisione chiamano “case of the week”, trame autoconclusive che si alternano di episodio in episodio, alternati a più itinerari narrativi orizzontali (il ricorso di lei per poter finalmente esercitare in un paese ancora retrogrado, fallocratico, moralista e perbenista come l’Italia della fine del XIX secolo; il mistero abbastanza proverbiale che avvolge il personaggio di Jacopo; i vari, immancabili triangoli amorosi tra Lidia, lo stesso Jacopo e Andrea; e la travagliata liason interclassista tra la giovane nipote della futura avvocatessa, di famiglia aristocratica come la protagonista, ed un umile giardiniere) senz’altro più accentuati e figli di una scuola e di una visione più moderna, esplicita, sciolta e disinibita della narrazione televisiva, che, nel caso di Lidia Poët, e come vuole la regola, si sviluppano pian piano di puntata in puntata, per poi sciogliersi e rintrecciarsi di nuovo nell’ultimo episodio, al fine di una più che possibile seconda stagione.
Ed è proprio questa preponderanza della verticalità sull’orizzontalità che ci spinge a dire che forse il binge-watching di impeccabile matrice netflixiana (che sta pian piano cedendo terreno al ritorno sempre più frequente di una modalità settimanale e cadenzata degli episodi) non è la maniera consona per fruire di un prodotto come La legge di Lidia Poët. Tuttavia, questa nostra è più che altro un’osservazione che esula e non incide sul giudizio finale ed effettivo della serie.
Ciò detto, crediamo sia giunto il momento di spiegare il perché di quel titolo - e, di conseguenza, il motivo del successo internazionale e delle 50 milioni di ore di visualizzazione totalizzate dalla serie nell'esatto momento in cui stiamo scrivendo queste righe. Perché Lidia Poët crea dipendenza a tal punto che sei episodi sono equiparabili ad un crimine (o ad un coito interrotto, scegliete voi). Ebbene, se la serie Netflix riesce a sortire questo tipo di effetto oppiaceo - per rimanere in tema - è soprattutto e semplicemente grazie all'ennesimo rimescolamento, ad un altro matrimonio felice, questa volta di tipo estetico, artistico e politico.
Quello creato da Guido Iuculano e Davide Orsini è invero un prodotto che, in tempi non sospetti, avremmo definito “basso” e che oggi preferiamo invece chiamare "d’intrattenimento". Un prodotto che, a dispetto di altri suoi simili, è però conscio di questa sua ontologia, che sfrutta, in primis, quale fondamento di una formula longeva e dalle mille possibilità, dopodiché quale lieto, “disimpegnato”, divertito e divertente parco dei divertimenti all’interno del quale è possibile sperimentare con le atmosfere, gli stili e i generi ed essere addirittura alti in alcuni capricci post-moderni ed ipertestuali (specie nel rapportarsi di Lidia & co. con l'immaginario culturale dell'epoca).
La legge di Lidia Poët è allora l’ultimo esponente di un processo di “poppizzazione” della qualità e delle forme audiovisive più alte, come rimarcato ed espresso segnatamente dalla meravigliosa, piacevolissima e seducente interpretazione di Matilda De Angelis, che, con questo ruolo, diventa a tutti gli effetti un’irrinunciabile icona del panorama culturale nostrano; così come dalla puntualità attoriale di Eduardo Scarpetta e dell’esilarante Pier Luigi Pasino, o ancora dall'occhio di riguardo che i registi Matteo Rovere e Letizia Lamartire riservano ai personaggi e alle presenze secondarie e di contorno, ed infine dalla magniloquenza suggestiva della ricostruzione storica di una Torino in piena Belle époque, sospesa tra il blu notte e il giallo ocra. Tra un’oscurità gotica ed esoterica in cui i mali della città e della società del tempo si concretizzano ed accecanti riflessi e giochi di luci con virate di ispirazione pittorica nella quale quegli stessi mali assumono invece un volto più istituzionale, ma ugualmente feroce ed inesorabile.
Ma è anche, Lidia Poët, l’incrocio ideale tra lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie (con un discreto margine di miglioramento nella componente più action del racconto), la sempre netflixiana Enola Holmes di Millie Bobby Brown per il suo includere anche una componente di discorso sociale e classista e per il lavoro che la protagonista compie a difesa degli ultimi e dei più umili, contro gli abbienti e gli aristocratici che sfruttano il loro potere e la loro influenza per scampare alle maglie della legge; e poi i ritratti inediti, creativi, ruggenti e punk di Susanna Nicchiarelli.
Un personaggio ed una serie, insomma, perfettamente inseriti nella contemporaneità su più fronti, senza però rinunciare (un po' come fa la stessa Lidia nella sequenza finale della stagione) ad un retroterra nazionale, tradizionale, confortevole, ma non per questo meno efficace. Che dir si voglia, stiamo parlando di ottimo intrattenimento. Di un prodotto che imposta uno standard per le produzioni future e simili della "bottega italiana", sotto cui sarà impensabile anche solo pensare di mettere piede.
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