TITOLO ORIGINALE: Glass Onion: A Knives Out Mystery
USCITA ITALIA: 23 dicembre 2022
USCITA USA: 23 dicembre 2022
REGIA: Rian Johnson
SCENEGGIATURA: Rian Johnson
GENERE: drammatico, giallo, thriller, satirico
DURATA: 139 min
Dal 23 dicembre su Netflix
Presentato in anteprima al Toronto Film Festival
Non torna (speriamo) il lockdown, ma torna il detective Benoit Blanc in pieno lockdown in Glass Onion - Knives Out di Rian Jonhson, sequel del fortunato e brillante Cena con delitto. Tuttavia, a differenza del predecessore, la seconda avventura dell'investigatore, sempre interpretato da un impeccabile Daniel Craig, avviene, più che del giallo o del whodunit, nel segno della commedia grottesca e dissacrante che ridicolizza e si prende gioco dei cosiddetti ricchi e potenti, e, al di là irreducibile ed inconfondibile brillantezza con cui Johnson riesce a condurre e dettare le regole del proprio capriccio postmoderno ed ultracitazionista, si rivela essere ben presto un semplice film a tesi (ancor più semplice), meno appassionante e sofisticato del capitolo originale. Un divertissement contro la noia pandemica. L’ennesimo scacco matto che cade vittima dei limiti del suo stesso gioco.
I ricchi, i membri dell’elite, sono degli idioti. È questa un’osservazione, una deduzione, una constatazione, che deprime e sconforta profondamente il detective Benoit Blanc, che, nel momento in cui, nel 2020, in piena pandemia, si imbarca per una misteriosa isola greca nel mezzo del mar Egeo, spera vivamente di mettere la sua mente ingegnosa, acuta, perspicace - al momento, intorpidita dal lockdown forzato e col bisogno impellente di vero pericolo e di una grande sfida -, al servizio di una qualsiasi intricata trama di segreti ed intrighi, di un’inestricabile piano criminale, di una vendetta di cui pare quasi impossibile scorgere i fili o il movente, di un mistero così complesso da portarlo sul proverbiale orlo del precipizio.
E lo stesso desideriamo avidamente ed egoisticamente noi spettatori, mentre assistiamo alla costruzione e all’allestimento del caso alla base di Glass Onion - Knives Out, secondo capitolo della (già annunciata) trilogia scritta e diretto da Rian Johnson, e dedicata alle avventure dell’investigatore eccentrico e un po’ nevrotico, interpretato da un delizioso, affascinante e sempre impeccabile Daniel Craig.
Dopo l’incredibile successo di Cena con delitto - Knives Out, arrivato sugli schermi nel momento giusto - ossia poco dopo Assassinio sull’Orient Express, nel pieno di una riscoperta e di una riadesione delle platee mondiali al giallo di matrice christieana - e in qualità di risposta e controcanto satirico e brillante all’imperiosa e seriosa aplomb del Poirot di Kenneth Branagh; Johnson torna quindi a proporci la sua visione profondamente post-moderna ed incorreggibilmente politica del whodunit, sovvenzionato, questa volta, da Netflix, che, pur a dichiarata parità di budget, sembra fornire una spinta più spettacolare ed ambiziosa al progetto e al franchise. Nel bene e nel male.
Basti pensare anche solo all’isola avveniristica, utopica, mastodontica, opulenta, di proprietà di una sintesi di Elon Musk e Mark Zuckerberg, tal Miles Bron, proprietario multimiliardario di una società che finanzia trasversalmente tutti gli ambiti della società ed è sul punto di lanciare sul mercato un nuovo (pericoloso) combustibile, in cui ha luogo questa “misteriosa” cena col delitto. O ancora, a tutta una serie di spunti visivi e di frammenti che stressano pesantemente la funzione spettacolare della macchina cinematografica.
Momenti, questi ultimi, in parte, se non del tutto assenti nel capitolo originale, che, invece, si misurava e puntava più sull’intelligenza del proprio intreccio, sul “macchiettismo caratteristico” di una sfilata di grandissimi volti attoriali, sull’equilibrio tra l’impostazione da giallo classico e le stilettate pungenti, divertite, postmoderne, da inevitabile epitome all’istituzione secolare di detective, poliziotti e penne storiche; ed infine sulla sofisticatezza con cui sapeva celare, in profondità, come si trattasse di una scatola cinese, di una ciambella dentro un’altra ciambella, o, in questo caso, di una cipolla, la propria, vividissima e coerentissima critica socio-politica. Puntava, insomma, su una delle sceneggiature (per chi scrive) più brillanti dell'ultimo decennio e sulla messa in scena, attraverso un'appropriazione indebita dei canoni della detective story e del whodunit, di una (ri)appropriazione debita e post-trumpiana.
In Glass Onion - Knives Out, l’ago della bilancia sembra invece vertere sulla commedia grottesca, sulla (sola) satira delle classi più potenti, e il cocktail di elementi cambia decisamente, ma non rovinosamente, in peggio. La visione di Rian Johnson finisce infatti per schiantare la brillantezza dei propri attacchi e del proprio approccio dissacrante contro il muro delle regole e delle fondamenta ideologiche della post-modernità. Dunque, contro il muro dell’incapacità di afferrare, cogliere, capire, leggere la realtà; della disgregazione, dell’inconsistenza, della vacuità, del deprezzamento etico-morale della contemporaneità, portando pertanto ciò che ci circonda ad essere sterile, un infinito ed indolente remix e remake di sé stesso, mera patina e apparenza, promessa infondata, una massa informe, omologata, superficiale, idiota.
Talmente idiota da essere incapace di partorire se non proprio il prossimo Moriarty, quantomeno un criminale capace di congegnare un piano apparentemente insolubile, un minimo intelligente, contro cui l’arguzia di un detective come Benoit Blanc, che qui si riconferma livella femminista e morale a servizio del popolo contro l’elite, possa misurarsi.
Il sequel di Johnson segue quindi la strada intrapresa recentemente da un certo cinema hollywoodiano (e non solo) di attacco e messa in ridicolo dei ricchi e potenti, di disvelamento delle proprie friabili certezze e delle loro ipocrisie engagé o, come direbbe qualcuno tra gli invitati di Miles Bron, della loro imprescindibile dipendenza dalle “mammelle d’oro” di un cerchio ancora più ricco, elitario ed esclusivo (gli Elon Musk e i Mark Zuckerberg di turno, appunto). Cosa, a sua volta, rimanda ad una sfera infantile che ben si confà agli atteggiamenti, ai capricci, ai non-problemi problematici, di questo 1% della popolazione globale.
Eppure, più che dalle parti di Adam McKay e del suo Don't Look Up, la pellicola di Rian Johnson si situa in prossimità di esiti meno brillanti, obnubilati e travolti dalle proprie intenzioni critiche, come, ad esempio, The Menu e Triangle of Sadness. Ed è proprio da quest'ultimo che Rian Johnson sembra mutuare la pericolosa ambiguità di sguardo nei confronti di ciò che racconta e rappresenta.
Lui, come Ruben Östlund, distrugge e ridicolizza, irride e deride, provoca e si prende gioco dei cosiddetti ricchi e potenti: in particolare, oltre al miliardario interpretato da un Edward Norton che gigioneggia con stile, di una governatrice del Connecticut (una Kathryn Hahn poco valorizzata), di uno scienziato brillante (un Leslie Odom Jr. non di grande impatto), di una ex-modella, proprietaria di una rivista di moda fallita, la quale crede che il termine “fabbriche di sudore” definisca l’efficienza degli operatori (una Kate Hudson assoluta ed incontrastata mattatrice), e di un influencer maschilista, politicamente scorretto e fallocentrico in tutti i sensi possibili (un Dave Bautista che, dopo Drax e James Gunn, non ha più e ancora trovato una parentesi credibile); ma non sembra detestarli fino in fondo.
Così come non sembra detestare davvero l’idea di celebrità e divismo (seppur vuoto e post-tutto) a cui si rifanno. Anzi, egli per primo sfrutta ed asseconda questa idea di ostentazione spettacolare, crogiolandosi nella consapevolezza di smisurate possibilità produttive e facendo sfilare inavvertitamente di fronte all’obiettivo, in cammeo più o meno raffinati, star (anche compiante) del mondo del cinema e non solo.
In un certo senso, lo stesso Johnson potrebbe essersi, inconsapevolmente o freudianamente, raffrontato e paragonato al tech-billionaire forse vittima, forse carnefice di questa cena con delitto, il quale si diverte e si sente stimolato dall’intrigo che ha confezionato più del detective (e logicamente dello spettatore) spettatore.
Con l’unica discriminante dovuta all’irreducibile ed inconfondibile brillantezza con la quale il cineasta riesce comunque a condurre e dettare le regole del proprio gioco, a fornirci tutti i possibili indizi per risolvere da noi il mistero fin dai primi minuti, e a posizionare tutte le pedine, gli strumenti e le variabili al posto giusto, in un intreccio meno appassionante e compatto del predecessore. In un semplice film a tesi (ancor più semplice). In un divertissement contro la noia da lockdown. In un saggio autoreferenziale sull’autoreferenzialità di oggi che, come nello scorso film, costruisce la propria idea postmoderna da una giustapposizione di aspetti ed ingredienti classici e paradigmatici (di cui vale la pena citare una “donna che visse due volte” e il riferimento beatlesiano nel titolo) con altri moderni e giocosi. In un giallo meramente di circostanza, il cui, unico, vero colpo di genio è la dislocazione temporale e geografica della vera scena del crimine, e in cui la soluzione, come il Glass Onion (ovvero la gigantesca cupola a forma di cipolla che domina l’isola), è sotto gli occhi di tutti sin dall’inizio. Nell’ennesimo scacco matto che cade vittima dei limiti del suo stesso gioco.
Con questo secondo capitolo di Knives Out, Rian Johnson sembra allora correggere e riformare ai tempi correnti la celebre frase di Sherlock Holmes, uno degli idoli irrinunciabili della propria visione. Quindi, “eliminata la complessità, ciò che resta, per quanto banale sia, deve essere la verità”. E peggio per voi - continua - se questa non è affascinante come lo sguardo della Gioconda, ma piuttosto sedativa e routinaria come una partita a Cluedo.
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