TITOLO ORIGINALE: Triangle of Sadness
USCITA ITALIA: 27 ottobre 2022
REGIA: Ruben Östlund
SCENEGGIATURA: Ruben Östlund
GENERE: satirico, commedia
Vincitore della Palma d'oro al 75º Festival di Cannes
Cinque anni dopo la vittoria della Palma d'oro con The Square, lo svedese Ruben Östlund torna a vincere l'ambito premio con Triangle of Sadness, la sua ultima, piccante e pungente satira nei confronti del mondo aristocratico/alto-borghese. Dopo una prima mezz'ora semplicemente perfetta, in cui il film sembrerebbe voler continuare il percorso del predecessore, solo cambiato di contesto, il film emigra, cambia pelle, si imbarca su uno yacht da 250 milioni di dollari e diventa tutt’altro. Ossia un greatest hits del miglior cinema comico-satirico-grottesco, senza però alcuna vera rielaborazione personale e, dunque, realmente autoriale, che si accontenta inoltre del mero spettacolo della provocazione, della futile presa in giro, di un divertissement gratuito e al risparmio.
Se c’è una cosa che Ruben Östlund sa fare bene è prendere situazioni più o meno, se non del tutto ordinarie, normali, scontate, e plasmarle, stirarle, estenderle, contaminarle a proprio piacimento, fino a portarle all’eccesso, a renderle assurde ed estenuanti, a farne preda dell’imprevedibilità o addirittura del surrealismo.
Se non vi dovessero bastare gli scambi tra Claes Bang ed Elisabeth Moss, oppure tutto il segmento della lettera in The Square, vi basterà la prima mezz’ora della sua ultima, piccante e pungente satira nei confronti del mondo aristocratico/alto-borghese, Triangle of Sadness, che dovrà aver colpito (e affondato) qualcuno abbastanza da aggiudicarsi nientemeno che la Palma d’oro allo scorso festival di Cannes. La seconda per Östlund, a soli cinque anni dal già citato The Square, che, messo a confronto con quest’ultimo tentativo di calare la maschera dell'élite, diventa praticamente un capolavoro.
Perlomeno quel film, qualcosa nello spettatore, la scatenava, un minimo di discorso lo aveva, nascosto tra simbolismi non immediatamente di facile lettura e l’interessantissimo concept del quadrato quale figurativizzazione della rigidità ipocrita, vacua, presuntuosa, superficiale, sterile, degradante ed autoreferenziale che imprigiona l'upper class, rendendola facile preda del caos dell’inatteso.
Ciò nonostante, forse non è propriamente giusto dire che Triangle of Sadness non abbia di fatto nulla che valga davvero la visione, che non si possa davvero salvare.
Appunto, la prima mezz’ora - ovvero quando ancora il film, come da titolo, sembra voler intraprendere la strada di The Square, solo reindirizzando il tutto in direzione del mondo della moda, dei brand, del #MeToo, delle logiche dell’apparenza che governano la nostra civiltà - è un'interessantissima riflessione - sotto forma di schermaglia e litigio tra una coppia di modelli (dove lui guadagna meno ed è meno famoso di lei, anche influencer) per il pagamento di una cena - dei ruoli all’interno della coppia, e delle gelosie, invidie ed ipocrisie che seguono un eventuale rovesciamento dei modelli precostituiti, degli stereotipi di genere. Un tema, quest’ultimo, su cui Östlund torna ciclicamente almeno dai tempi di Forza maggiore, e la cui riproposizione è qui integrata con l’aspetto della celebrità e tinteggiata da tocchi molto raffinati, quasi impercettibili di messa in scena e da elementi scenografici che contraddicono direttamente e smentiscono istantaneamente ciò che i personaggi dicono.
Ma poi il film emigra, cambia pelle, si imbarca su uno yacht da 250 milioni di dollari e diventa tutt’altro. Diventa innanzitutto un’esposizione di mostri, di creature grottesche, di figurine esilaranti, filmate e dirette da Östlund con la sua solita severità e staticità, con il distacco e il minimalismo di movimenti che è cifra specifica del suo cinema e favorisce una comicità riconoscibilissima e tutta sua, basata sul contrasto tra una macchina-cinema che si limita ad osservare da una posizione sempre altolocata ed un pro-filmico che, una volta acceso e definito dall’atto cinematografico, esplode in un teatrino di vorticosa, convulsa e - nella maggior parte dei casi - ripugnante e mostruosa umanità.
In tal senso, è proprio questa nota comica, che il cineasta svedese indovina ancora una volta, a rendere senz’altro più gradevole, se non proprio a dissimulare la generale e di per sé inconciliabile ed ossimorica superficialità e vacuità, nonché dell'infantilità, gratuità e innocuità degli attacchi, delle critiche, della satira, finanche degli sberleffi che il copione muove nei confronti di una galleria di ricchissimi “in den Wolken”, ebbri delle loro smisurate possibilità, delle loro ricchezze, del loro prestigio, che si ritroveranno ben presto a fare i conti con la testimonianza custodita e repressa nella loro corporeità, nei loro liquidi e rifiuti organici.
La comicità e le (poche) intuizioni risultano inoltre utilissime anche per palliare l’innata natura derivativa di Triangle of Sadness, che si rivela in pratica quale greatest hits del miglior cinema comico-satirico-grottesco, senza però alcuna vera rielaborazione personale e, dunque, realmente autoriale - il che fa di Östlund un grande imitatore(?).
Tutto è preso ed inserito nella pellicola a mero uso e consumo (indubbiamente onanistico) del regista: dalla crociera catastrofica de Le incredibili avventure del signor Grand col complesso del miliardo e il pallino della truffa al vomito dorato de Il senso della vita dei Monty Python, ad una rappresentazione dell’alta società sulla falsariga di come facevano Blake Edwards, Luis Buñuel o Marco Ferreri, fino ad arrivare al naufragio in pieno stile wertmülleriano di Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto.
Sì, perché superati le ennesime scaramucce di gelosia tra la coppia di modelli (che rimane comunque la porzione di film in cui Östlund mantiene un minimo di grazia e lucidità), i capricci di alcuni passeggeri (tra cui citiamo la chiasmatica ed adorabile coppia di guerrafondai britannici), il gioco al rialzo di citazioni pro- o anti-comuniste tra il capitano (americano e marxista) dello yacht e l’oligarca russo (capitalista) venditore di fertilizzante, o “merda” come piace definirla a lui - giusto per farvi capire il livello della cosiddetta “caricatura” o “satira” -, o, per riassumere, il segmento in cui Triangle of Sadness punta troppo in alto, minimizza eventi, concetti e fenomeni troppo grandi per lui e si incarta rovinosamente; attende lo spettatore un’ora intera su un’isola apparentemente deserta, durante cui Östlund non solo incorre nello stesso errore di The Square, ossia di diluire sin troppo qualcosa per cui basterebbe, sì e no, un’ora e trenta di durata; ma raffredda, quasi stereotipando, la carica polemica e dissacrante che lo aveva pervaso sino ad allora.
E, diversamente da ciò che pensa il film, non è tanto l’idea di una ricostruzione e ripartenza della civiltà, di una nuova civiltà, matriarcale, basata sul fare più che sull’avere, bensì un breve scambio di battute, di nuovo, tra la coppia di modelli-influencer (un altro, bello e stimolante ribaltamento, dove è lui a dover chiedere a lei come comportarsi di fronte ad una serie di evidenti avance), l’unico e solo sprazzo di lucidità nella scrittura e di brillantezza nella composizione di un mero gioco al massacro dialettico e primitivo tra i sopravvissuti alla crociera.
Un’ora interminabile, se non addirittura improponibile, in cui Östlund compiace, seduce, fa leva, per l’ultima volta, sui complessi di un certo tipo di intellighenzia - nella quale sono ancora vivi e vividi l’incantesimo epifanico e la folgorazione di Parasite -, salvo poi chiudere il tutto nella maniera più irresoluta, vile e paurosa possibile, non punteggiando la propria visione, ma accontentandosi del mero spettacolo della provocazione, della futile presa in giro, di un divertissement gratuito e al risparmio.
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