TITOLO ORIGINALE: Sei fratelli
USCITA ITALIA: 1° maggio 2024
REGIA: Simone Godano
SCENEGGIATURA: Simone Godano, Luca Infascelli
CON: Riccardo Scamarcio, Valentina Bellè, Axel Gallois, Adriano Giannini, Gabriel Montesi, Linda Caridi
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 103 min
"Persa" la sodale Giulia Steigerwalt, Simone Godano si affida a Luca Infascelli per co-sceneggiare il suo quarto lungometraggio. Purtroppo, malgrado il promettente curriculum di quest'ultimo e un ensemble di attori niente male, Sei fratelli è un film totalmente, quasi assurdamente generico. Il riflesso o rigurgito mucciniano di Groenlandia, la cui filosofia produttiva, cinematograficamente parlando, si trova ora in un vicolo cieco, nel mezzo di un processo di standardizzazione. Una serie TV non avrebbe guastato.
Il cinema di Simone Godano ha sempre avuto un elemento distintivo, alieno. Uno magari non propriamente inedito o esclusivo, ma quantomeno capace di portare le storie da lui raccontate fuori dal tracciato, lontano dalla direzione e dalla tradizione del dramma, della commedia o, per dirla in termini odierni, del dramedy italiano. Un atomo, una variabile, che non appartengono solo ed esclusivamente ad una raffinata, singolare, spiccata sensibilità autoriale e artistica, ma dimostrano piuttosto una rara intelligenza, un fiuto e una perspicacia (oltre che sua, del produttore e co-fondatore della sempre stimata Groenlandia Matteo Rovere) nella scelta dei collaboratori.
O, per essere più specifici, di una collaboratrice: una penna unica e inimitabile, di nome Giulia Steigerwalt, di cui portano il nome soggetti e sceneggiature dei primi tre lungometraggi di Godano. Il suo talento e fiuto evidenti per idee magari non sempre vincenti, ma abbastanza interessanti per costruirvi sopra qualcosa di riconoscibile, sono ciò che ha garantito a queste pellicole grazia e levità, respiro e freschezza, informando un sano compromesso fra il segno italiano più tipico, i cosiddetti fasti del nostro cinema, e la necessità di reinventare, di schiodarsi dalle solite situazioni e dai soliti caratteri, di scardinare queste consuetudini.
Partendo dal singolare body swap di Moglie e marito, senza alcuna traccia di complessi o ansie da prestazione nei confronti della produzione d’oltreoceano, passando per il ribaltamento virziano di Croce e delizia, fino all’ultimo squinternato e amabile (per quanto fin troppo lucido) Marilyn ha gli occhi neri, Steigerwalt, insomma, è stata a tutti gli effetti co-autrice di uno stile cosiddetto godaniano, semmai lo si possa definire tale. Quel che si dice una lieta circostanza, a cui però il regista ha dovuto rinunciare ora che questa ha fatto il suo esordio dietro la macchina da presa, divenendo autrice a tutto tondo e reclamando la maternità della sua firma con un film, Settembre, che ne rispetta a pieno le premesse e le promesse, gran premiato ai David di Donatello 2023.
Arriviamo pertanto a Sei fratelli, quarto tentativo di Godano e primo, appunto, senza la sua sodale (co-)sceneggiatrice, “rimpiazzata” per l’occasione da Luca Infascelli, una scelta giusta, ponderata, specie considerata la sua versatilità nello spaziare fra i toni, le atmosfere e le tipologie di racconto (come testimoniano le due, seppur discutibili, collaborazioni con Stefano Mordini: Lasciami andare e La scuola cattolica, e quelle più libere, divertite e anarchiche con Roberto De Paolis e Cosimo Gomez). Ed è purtroppo inspiegabile come, da questo nuovo sodalizio, sia potuto nascere un prodotto del genere, che, del tocco, dell’agilità, della verve di Steigerwalt e del vicario Infascelli, ha forse giusto la scelta di ambientare il tutto in Francia, in una Bordeaux addormentata, o al limite la gestione diciamo "particolare" di un’urna di ceneri.
Sì, al di là di un’intuizione interessante in sede di montaggio (che però si arena mentre ci si avvia verso la conclusione), Sei fratelli è un film totalmente, quasi assurdamente generico. In questo, rimane fedele al destino di un incipit narrativo a dir poco sdoganato. Un soggetto usato e abusato dal dramma italiano di scuola mucciniana: quello dell'improvvisa riunione di famiglia, col conseguente carico di litigi, rappacificamenti, gelosie, segreti inconfessabili e svelati, vecchi dissapori che tornano a galla, passioni che si davano per assopite.
Nel caso degli Alicante - Marco, Guido, Leo, l’adottata Gaelle, Mattia e l’appena arrivata Luisa (della cui esistenza, tutti gli altri erano stati tenuti all’oscuro), i sei fratelli del titolo, nati da quattro diverse relazioni - si tratta della morte (suicida) del padre padrone Manfredi, il modello di patriarca baby boomer: egoista, burbero, spendaccione, naturalmente assente, libero di vivere (e morire) come meglio gli aggrada, pure a costo della salute e dell'equilibrio mentale dei suoi cari. Diversissimi l’uno l’altro, eppure accomunati da dolori, insoddisfazioni, traumi abbastanza similari, questi si ritrovano e riuniscono, in occasione del funerale e dell’apertura del testamento, nella casa dell’ultima compagna del vecchio, dove finiranno per trascorrere una settimana. Sette giorni durante i quali saranno costretti a fare i conti con sé stessi e con i non detti, i rancori, che tutti loro si portano dentro e dietro da fin troppo tempo…
Così proverbiale e prevedibile come suona, il film di Godano scivola di sequenza in sequenza, tra un dialogo e l’altro, un alterco e una confessione, un momento di commozione e uno di ilarità in maniera perlopiù corretta, sicura, confortevole, mancando però di quello slancio necessario a rendere il suo intreccio qualcosa che varrebbe la pena ricordare. Se non altro, ciò che riesce a regalare è un ensemble di attori - molti di famiglia Groenlandia - che sanno farsi voler bene e portano nell'interpretazione dei loro personaggi la credibilità, la naturalezza, la complicità e l’umanità necessarie a renderli più veri, sinceri, tridimensionali.
Nella fattispecie: Riccardo Scamarcio dimostra che quando è contingentato e disegnato come un vincente, diventa una presenza potentissima e magnetica, mentre Adriano Giannini si muove in scena col suo abituale passo felpato, scomparendo, mimetizzandosi, calzando al millimetro i panni del proprio personaggio e trasformandosi perciò nel collante, nella chiave di volta dell'architettura filmica e drammaturgica. Poi ci sono Gabriel Montesi e Valentina Bellè. Lui, in uno dei ruoli che meglio rivelano la sua duplice natura di figura e corpo fragili, teneri, talora goffi e infantili nel loro essere struggenti e tormentati, ma che cionondimeno conservano un lato bestiale, efferato, imprevedibile, inquietante. Lei, invece, abile nel riuscire a rendere non solo verosimili ma anche visibili tutte le peripezie che ha attraversato il suo personaggio, e precisissima nel corredare ogni linea di dialogo con la giusta espressione. Funzionali e decisivi infine una sempre brava Linda Caridi, una Claire Romain suadente, e un Louis Emile Galey che è un po’ una crasi (e, narrativamente, una logica conseguenza) di tutti e cinque i suoi fratelli (di finzione).
Basterebbero già solo le prove di questo gruppo affiatatissimo di volti, nonché la loro disinvoltura nel mantenersi stabili sui registri di dramma e commedia (il più delle volte inattesa e riuscita), per accendere l’emotività della storia e per infammarne la drammaturgia. Per loro sfortuna, il comparto tecnico e la regia di Godano sembrano provarle tutte (volontariamente o meno) per sabotarne, appiattirne, coprirne le potenzialità nude e crude. Da un lato, tramite il filtro patinato adottato dalla fotografia di Guillaume Deffontaines, a metà tra quella nota dolceamara e boudoir del cinema francese e la freddezza pungente e omogeneizzante di quello scandinavo. Dall'altro, mediante una colonna sonora invadente, martellante che getta ogni buona intenzione recitativa nella banalità, nella retorica, nell’artificioso e nel patetico.
Sei fratelli costituisce, in tal senso, un naturale contraccolpo della filosofia produttiva e delle ambizioni internazionali di Groenlandia, la cui perentoria adesione al segno di altre cinematografie finisce col privare la nostra, o più concretamente il film di Simone Godano, della benché minima personalità. In altre parole, la casa di Matteo Rovere è arrivata ad un momento di stallo, ad un vicolo cieco, e dovrà pertanto trovare una maniera, un nuovo sguardo, per evitare di banalizzare e standardizzare quel suo approccio, nato come rottura, avanguardia produttiva, fortunata ricetta, e ora imborghesitosi, fattosi rigido stereotipo. O, chissà, semplicemente esauritosi sul grande schermo. Non è allora una coincidenza che tutto di Sei fratelli, dalla quantità di archi narrativi e backstories, alla chiusura di per sé abbastanza frettolosa, sembri farne la riduzione cinematografica di un qualcosa di più ampio. La televisione, la serialità: erano forse loro la "casa dolce casa" per gli Alicante e la loro tragicommedia?
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