TITOLO ORIGINALE: Death on the Nile
USCITA ITALIA: 10 febbraio 2022
USCITA USA: 11 febbraio 2022
REGIA: Kenneth Branagh
SCENEGGIATURA: Michael Green
GENERE: giallo, drammatico, thriller
Dopo molteplici rinvii, pandemie e scandali degni di un film di Ruggero Deodato, ben cinque anni dopo quel primo capitolo, Assassinio sul Nilo, la seconda iterazione di questa serie incerta, vede finalmente la luce del grande schermo. Kenneth Branagh torna a ribadire la propria visione di Hercule Poirot e lo fa scontrandosi con la trasposizione di uno dei romanzi più complessi di Agatha Christie. Un prologo in bianco e nero ambientato durante la prima guerra mondiale, utile soltanto a spiegarci perché il detective abbia poi deciso di farsi crescere i baffi in quel modo così buffo e finto è la cifra più esemplificativa di un film puerile e modesto come Assassinio sul Nilo. Un party esotico del cattivo gusto e di un'estetica così stilizzata da raggiungere le vette del fumetto, in cui non sono ammessi l’intrigo e il mistero, la tensione e la suspense, l’attesa e il godimento intellettuale e sensoriale provocati dall’investigazione, la claustrofobia del Kammerspiel: tutti aspetti che il regista scarta e dà per scontato, a favore di un incedere di scrittura pietistico e cattedratico sulle nevrosi, i traumi, le ossessioni e i capricci del personaggio da lui interpretato. Un giallo in cui è altamente probabile morire (di noia) prima degli stessi personaggi.
Gli adattamenti dei celebri gialli di Agatha Christie diretti, prodotti ed interpretati da Kenneth Branagh sono sempre stati interessati più all’indagine interiore, morale ed emotiva dell’integerrimo ed iconico detective Poirot, che non all’indagine criminosa ed efferata in sé e per sé. Le sue sono trasposizioni interessate a distanziarsi dalla mitologia, dal classicismo e dallo stoicismo sardonico e tagliente del personaggio cartaceo, volte dunque a crearne un profilo nuovo, più cinematografico e drammaturgicamente dinamico, ma anche più action, seppur contraddistinto, come sempre, da quell’acume pacato e misurato, tanto incredibile da definirsi quasi impossibile finanche inumano. In poche parole, l’idea di adattamento di Christie ad opera di Branagh è sempre ruotata attorno alla reinvenzione di una figura talmente pittoresca e stravagante da poter saziare le spinte narcisistiche di un creativo teatrale e melodrammatico, di chiara deformazione shakespeariana, come lui.
Reinvenzione e dinamizzazione che purtroppo non sono state condotte con altrettanto impulso sul fronte della narrazione vera e propria del caso, del mistero e delle fasi di detection, che, in quanto a macchinosità, hanno molto a che spartire con le traduzioni più classiche e rigorose dei romanzi di una delle gialliste più prolifiche e note di tutti i tempi [il riferimento è soprattutto a quelle televisive con protagonista David Suchet].
Fino a qualche giorno fa, questo valeva solo per Assassinio sull'Orient Express del 2017, fortunatissimo primo approccio al mondo christieano da parte del regista, il quale inseriva questo discorso di umanizzazione e maggior approfondimento della figura di Poirot nella cornice di una trasposizione difettosa ma sommariamente riuscita, sul limite tra palcoscenico e grande schermo. Lì, forte di un grandioso (ma soffocato) ensemble attoriale, il regista sapeva sfruttare bene gli angusti spazi di un treno in corsa tra i paesaggi innevati dell’est Europa, per dar vita ad un racconto confortevole che, pur riservando ai suoi spettatori tanti brividi effimeri e ben poche sorprese, rivoluzionava intelligentemente la proverbiale ricostruzione plateale e arzigogolata del fattaccio - che è forse uno dei capisaldi irrinunciabili dell’opera di Agatha Christie - in una sequenza (forse l’unica) a dir poco memorabile.
Oggi il discorso si amplia e assume forme nuove. Infatti, dopo molteplici rinvii, pandemie e scandali degni di un film di Ruggero Deodato, ben cinque anni dopo quel primo capitolo, Assassinio sul Nilo, la seconda iterazione di questa serie incerta, vede finalmente la luce del grande schermo. L’amletico (di nome e di fatto) Kenneth Branagh torna così a ribadire la propria visione di Hercule Poirot e lo fa scontrandosi, questa volta, con l'adattamento che John Guillermin trasse dal romanzo più complesso di Agatha Christie in quello scult prolisso, ridondante, spesso arenato e tremendamente televisivo, il cui più grande pregio, oltre al magnifico collier di star e dive (Bette Davis, Mia Farrow, Maggie Smith, Angela Lansbury, David Niven), è stato senz’altro aver fatto di Peter Ustinov l’incarnazione più riconoscibile di Poirot.
Pertanto, se nel caso di Assassinio sull’Orient Express, il britannico partiva sicuramente svantaggiato, in quanto pochissime erano le speranze che riuscisse a sormontare il fascino, l’eleganza e la maestria del film del 1974 diretto nientemeno che da Sidney Lumet, con Assassinio sul Nilo - eccezion fatta per il cast del tutto invalicabile del vecchio film - ci si sarebbe pure potuti illudere che Branagh potesse fare di meglio, che non vi sarebbe stata alcuna necessità di richiamare il paragone con l’originale, o che almeno, dal nostro punto di vista, non avremmo dovuto rimpiangerlo, l’originale.
Ebbene sì, avete fiutato bene: laddove infatti Assassinio sull’Orient Express si mostrava tutto sommato un thriller godibile e meritevole del successo di pubblico che ha poi effettivamente ottenuto, viceversa Assassinio sul Nilo non meriterebbe nemmeno di coesistere nello stesso universo narrativo del predecessore.
Ché poi la puzza di bruciato, la si potrebbe già subodorare nella scelta di aprire il film con un prologo ambientato durante la prima guerra mondiale, rigorosamente in bianco e nero [perché la guerra è crudele e devitalizzata, perché così l’idea della tragedia umana è istantanea, perché è il passato, perché così doniamo realisticità e drammaticità alla scena o, più verosimilmente, perché è la scelta fotografica giusta per un film puerile come questo], in cui Branagh ci mostra il suo Poirot “de-baffizzato” mentre è intento a combattere l’invasione del Belgio da parte dell’esercito tedesco. E, tutto sommato, non si tratterebbe nemmeno di questo grande scandalo, se solo non fosse che l’unico, vero scopo di questo incipit stucchevole e leccato all’inverosimile, alla fine di tutto, consiste banalmente nel rivelare la ragione per cui il detective abbia poi scelto di farsi crescere i baffi in quella maniera così buffa e fintissima.
Sì, sembra una follia, per giunta inutile (chi si metterebbe mai a giustificare una mera connotazione estetica?), ma non temete, il viaggio sulle acque del Nilo è solo all’inizio.
A proposito di acque, qualcuno diceva che “l’acqua cheta rovina i ponti”. Ecco, lo stesso vale per il Kenneth Branagh di Assassinio sul Nilo, che, in seguito a questo inizio davvero discutibile, tenta e, per un attimo, riesce ad illuderci di aver capito la lezione, mettendo da parte il proprio ego fino quasi a sottrarsi, lasciando che il crimine si inneschi e permettendo al cast - in primis, ad una Gal Gadot affascinantissima - di esprimersi, se non nel modo più giusto e libero, comunque in quello più funzionale.
E, malgrado una serie di problematiche: qualche incrinatura nel montaggio, un utilizzo fin troppo ingombrante del blue screen e della computer grafica nella ricostruzione visiva dei suggestivi panorami della Valle dei Re e dell’Egitto fluviale, una resa fallimentare della disparità tra il personaggio della ricca e aristocratica Linnet/Gadot e quello del debosciato ed umile Simon/Armie Hammer (sia nel look, sia nella comprensione dello status divistico di un interprete naturalmente principesco come Hammer) e qualche lungaggine di troppo; la pellicola trascina e accompagna lo spettatore fino a bordo del Karnak, il battello che, fedelmente alla controparte cartacea, si rivelerà poi essere il teatro dell’assassini(o) “a porte chiuse” che metterà alla prova le abilità del nostro detective.
Tuttavia, se Branagh detenesse anche solo metà dell’acume ed ispirazione che affibbia al suo Hercule Poirot, il nucleo narrativo fondamentale di Assassinio sul Nilo - quello relativo all’omicidio, all’indagine e alla rivelazione finale - avrebbe potuto ambire ad orizzonti ben più elevati. Quelli, per intenderci, che separano il disastro più totale da un più “accettabile” attentato all’intelligenza e al buon gusto dello spettatore.
Difatti l’interesse di cui sopra per un’evoluzione ed umanizzazione evidenti e reiterate, nonché di chiara estrazione seriale, del detective belga si concretizza paradossalmente in un disinteresse quasi atavico, ma indubbiamente esplicito nei confronti delle varie fasi del giallo in senso stretto. Ad un certo punto, ma soprattutto sul finale, lo spettatore potrebbe pure sentirsi spaesato o, meglio, travolto dal flusso inarrestabile di nomi, indizi, rimandi, ricordi e testimonianze che Poirot/Branagh sciorina ed espone, talora con inaudita rapidità - a riprova della generale noncuranza nei confronti del coinvolgimento e compartecipazione del pubblico nell’indagine.
A questo party esotico del cattivo gusto e di un'estetica così stilizzata da raggiungere le vette del fumetto, sembrano perciò non essere ammessi l’intrigo e il mistero, la tensione e la suspense, l’attesa e il godimento intellettuale e sensoriale provocati dall’investigazione, la claustrofobia del Kammerspiel: tutti aspetti che il regista - e la produzione intera con lui - sembrano scartare o, peggio, dare per scontato, a favore invece di sequenze a dir poco patetiche e passaggi ridicoli come l’imbarazzante dialogo incentrato su una zucchina che intrattengono lo stesso detective e Salome Otterbourne, il momento Cleopatra di Gal Gadot e le effusioni amorose in bilico tra le statue del tempio di Abu Simbel, o di un incedere di scrittura pietistico e cattedratico sulle nevrosi, i traumi, le ossessioni e i capricci di un personaggio come Poirot, che, rispetto al film precedente, qui sembra perdere moltissimo del suo carisma (non che prima ne avesse chissà quanto).
A rendere ancora più (in)dimenticabile questa crociera - in cui è altamente probabile morire (di noia) prima degli stessi personaggi - ci pensano, per chiudere, la fotografia di Haris Zambarloukos - che quando non è impegnata ad inerpicarsi su strane voglie estetistiche, è quanto di più pop, pomposo e, a lungo andare, stomachevole che avrete il piacere di vedere quest’anno - un gruppo di attori che - eccezion fatta forse per la già citata Gal Gadot, una sfuggente Emma Mackey ed un interessante Letitia Wright - non riesce a reggere il confronto né con il capitolo del 2017, né (ovviamente) con l’originale del ‘78, ed una colonna sonora che definire anche solo presente sarebbe un eufemismo. In questi casi, la domanda allora non è tanto “chi è l’assassino?”, “cosa verrà dopo?”, “Assassinio sul Nilo avrà un sequel?”, ma piuttosto se sia meglio “essere o non essere” Poirot. Come Branagh ben sa, “è questo il dilemma”.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.