TITOLO ORIGINALE: Don't Look Up
USCITA ITALIA: 8 dicembre 2021
USCITA USA: 10 dicembre 2021
REGIA: Adam McKay
SCENEGGIATURA: Adam McKay
GENERE: commedia, fantascienza, satirico
Su Netflix dal 24 dicembre
Il nuovo film del premio Oscar Adam McKay è un varietà che racconta la storia di un mondo - purtroppo, fin troppo simile al nostro - che sta per essere disintegrato dall'arrivo di una cometa. Nonostante una durata fin troppo ingente, costellata, nelle sue parti centrali e finali, di segmenti dalla comicità fin troppo semplice, la pellicola di McKay trova in un ritmo sferzante, in un cast ben assortito nel ruolo di maschere spregevoli e malate, e nell'esposizione di un mondo esilarante, se solo fosse il fondamento dell'ebete trama di un film, i modi per puntare al successo. Purtroppo però, le vette de La grande scommessa paiono sempre più irraggiungibili.
Si apre con il rumore di una teiera a punto di ebollizione, Don’t Look Up, l’ultimo film del premio Oscar (per La grande scommessa) Adam McKay. Il suono è prodotto dalla teiera di Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), cinica ed impulsiva dottoranda di astronomia che, durante il corso di alcuni esperimenti, scopre l’esistenza di una cometa non ben identificata. Decide così di chiedere un consulto al maestro e professore Randall Mindy (un Leonardo DiCaprio sudaticcio, goffo e sempre affannato, chiamato ad interpretare un personaggio che condensa in sé tutte le ansie, le sofferenze e le tensioni attuali della comunità scientifica), il quale, calcolandone la traiettoria, scopre che questa cometa - che prenderà poi infaustamente il cognome della giovane ricercatrice - colpirà e, con assoluta probabilità, disintegrerà la Terra in meno di sette mesi.
I due scienziati, insieme al collega Clayton "Teddy" Oglethorpe (Rob Morgan) decidono pertanto di rivolgersi alla Casa Bianca, presieduta dalla gigiona, ottusa e demagogica presidentessa Janie Orlean (Meryl Streep in una geniale e disorientante rivisitazione trumpiana al femminile) e dal suo infantile capo gabinetto/figlio Jason (un Jonah Hill in versione baby-dandy). Inutile dire come le scoperte illustrate dal gruppo di accademici vengano prese e considerate da un’amministrazione che, a suo modo, altro non è che una perversione estrema e grottesca dei propri elettori.
I nostri decidono perciò di rendere pubblica la notizia in uno dei talk show più famosi del paese, condotto dalla voluttuosa Brie Evantee (Cate Blanchett) e dal sordido Jack Bremmer (Tyler Perry). Ma non c’è niente da fare, nessuno sembra credere alle loro scioccanti rivelazioni. Come non bastasse, il trio inizia ad essere ostacolato pure da un sistema ipocrita che nasconde i propri veri scopi - manco a dirlo, arricchirsi e vincere le prossime elezioni - dietro la facciata della lotta alla disoccupazione e alla fame nel mondo, sotto suggerimento di Peter Isherwell (Mark Rylance che revisiona il proprio ruolo in Ready Player One), lo sfinito e compassato CEO della Bash, multinazionale - per certi versi, simile alla nostra Apple - specializzata nella produzione di smartphone intelligentissimi, che vede nell’asteroide l’opportunità per ottenere preziose componenti che, sulla Terra, sono ormai irreperibili.
Ecco spiegata allora l'importanza di quella teiera sul punto di ebollizione, di massima trazione, di eccitazione assordante, quale perfetta e sintetica metafora di una società, quella in cui si ambienta e di cui parla Don’t Look Up, che è, in tutto e per tutto, un surrogato fin troppo reale della nostra. Una società (la nostra o quella del film?) che un Adam McKay mai così perfido e cinico raffigura come un circo assurdo, surreale, indifferente, deforme e sciocco, i cui valori fondamentali sono le apparenze e l’appariscenza, la fotogenia, la falsità e l’artificiosità, un’onnipresente spensieratezza, l'arte del negazionismo, la ricerca del consenso, la chiacchierata brillante e scherzosa più che quella sostanziosa e scientifica, il mondo esteriore più che quello interiore, intimo e familiare, l'ironia sulla realtà che la realtà stessa, il come più che il cosa, la pancia (per non dire altro) più che il pensiero, dunque il sesso più che la politica (dunque ignorando che il sesso è politica), ma, in particolar modo, la diffidenza, lo scetticismo e l'abitudine al complottismo, anche di fronte ad un qualcosa di vero e autentico, pure di fronte all'apocalisse.
In tal senso, nonostante sia “basato su fatti realmente possibili”, è impossibile non pensare alla correlazione e all'ispirazione di questo soggetto, in sé veramente stupido, rispetto all’emergenza pandemica che ha travolto il nostro pianeta negli ultimi due anni (e che, a differenza della cometa, purtroppo è invisibile) e al conseguente impatto che quest'ultima ha avuto sull'equilibrio socio-politico di ogni nazione, con particolare riferimento al contesto statunitense.
Tuttavia, pur affermandosi in qualità di esponente più sregolato, sbrigliato, ferino, ostinato ed inesorabile del cinema di Adam McKay - che è poi un'evoluzione caustica, frizzante e nevrotica di quello, più monumentale ed investigativo, di Oliver Stone - e riuscendo ad inquadrare, rileggere e restituire un quadro calzante e preciso dello zeitgeist nelle sue innumerevoli sfumature, Don't Look Up non è certo il capolavoro del regista. Il motivo è presto detto, in quanto, così come avvenuto nel predecessore, McKay non riesce a superarsi, migliorarsi e riconsacrarsi rispetto alle vette conquistate con l'intoccabile, dinamico, ben più sofisticato ed equilibrato La grande scommessa.
Nondimeno, sia che si tratti di un film più o meno riuscito del regista, colpiscono sempre la lucidità, la compattezza e la coerenza con cui questi porta avanti e sviluppa cinematograficamente i propri discorsi e questa sua peculiare visione satirica e caricaturale.
Dunque, quale miglior modo di parlare di un mondo preda delle apparenze, dell’isteria facile, della falsità, della contraffazione, della mistificazione, della brillantezza del modo rispetto all’importanza e contingenza del contenuto, se non mettendo costantemente in rilievo la presenza dell'istanza narrante; un’artificiosità ed un manierismo che sono intrinseci e connaturali al linguaggio cinematografico e ai suoi specifici.
Primo su tutti, il montaggio, “specifico filmico” per eccellenza e cifra stilistica più riconoscibile e personale del cinema di Adam McKay, anche qui affidato al sodale Hank Corwin. Sotto questo aspetto, seppur in alcuni frangenti apra effettivamente la strada a possibili nuove definizioni, lidi e modi di intendere questo procedimento essenziale ed incontrovertibile dell’arte cinematografica, Don't Look Up si arena ben presto su intuizioni che, perlomeno nel cinema mckayiano, si erano già viste in abbondanza, talora pure in forme più esaltanti ed intellettualmente stimolanti (vedi, ad esempio, il didascalismo da Powerpoint oppure l'intreccio di piani temporali del racconto in un continuo disorientamento e torsione della logica).
Un po’ come House of Gucci - che sceglie la via della farsa, della messinscena, del videoclip patinato, della soap opera fastidiosa per evidenziare la crisi dei valori e la caduta di un’importantissima dinastia -, McKay racconta dunque una società che ha raggiunto il limite della parodia, della caricatura e della beffa di sé stessa e dei suoi lati più negativi, lavorando con la scenografia e i piani dell’inquadratura, e abbracciando molteplici forme e registri di racconto ed esposizione - il dramma, la tragedia, la commedia a sketch, la pubblicità progresso, il finto documentario, il thriller cospirazionista, il disaster movie - in un calderone che si rifà proprio alla logica dell’avanspettacolo, del varietà, dei programmi-contenitore, finanche del late night show (ambiente in cui lo stesso McKay si è fatto le ossa), con tanto di stacchetto musicale ad opera di Ariana Grande e Kid Cudi, la cui canzone, Just Look Up, è solo l’ultima e più banale espressione del discorso sulla cultura che reinterpreta lo spirito del tempo, portato avanti dal cinema mckayiano.
Ciò nonostante però, proprio come Scott nel suo ultimo film, McKay si lascia inebriare fin troppo da un cast di grandissimi interpreti - a cui si uniscono pure un immancabile Timothée Chalamet ed un Ron Perlman volutamente macchiettistico -, dalla propria indiscussa cattiveria nella scrittura di un’America reazionaria, divisa, medievale, chiassosa e volgare, e da strabilianti e fantascientifiche possibilità effettistiche, perdendosi ed incartandosi - dopo un inizio energico e zelante - in una porzione centrale viceversa disseminata di momenti e passaggi dalla comicità fin troppo puerile e facilona, che sintetizza infine in un epilogo parimenti retorico, convenzionale e pedestre nel suo nichilismo.
Sia ben chiaro, le due ore e trenta circa di McKay trascorrono in modo più gioioso e, di certo, più divertente delle due e quaranta di House of Gucci, merito di un ritmo e di una comicità a dir poco martellanti e delle maschere che compongono il mosaico narrativo intessuto dal cineasta, servizievoli e attente, nella loro essenza snervante, mostruosa e spregevole, a soddisfare le necessità di una pellicola, il cui più grande pregio è, ancora una volta, dipingerci un mondo che sarebbe proprio esilarante, se solo fosse il fondamento dell'ebete trama di un qualunque e qualunquista disaster movie “da popcorn”. L'unica speranza che ci rimane è che si possa almeno ridere, quando calerà il sipario...
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