TITOLO ORIGINALE: House of Gucci
USCITA ITALIA: 16 dicembre 2021
USCITA USA: 24 novembre 2021
REGIA: Ridley Scott
SCENEGGIATURA: Becky Johnston, Roberto Bentivegna
GENERE: drammatico, biografico, giallo
A pochi mesi dal suo ultimo The Last Duel, Ridley Scott torna al cinema con un film ispirato ai fatti che, nel 1995, portarono Patrizia Reggiani ad essere la mandante dell'omicidio di suo marito Maurizio Gucci, imprenditore e presidente della casa di moda omonima. Nonostante qualche barlume di intuizione, parallelismo o parabola con l'attuale situazione cinematografica, House of Gucci è una pellicola che manca di guizzi, di invenzioni o, ancora meglio, di un brio e di una brillantezza che avrebbero salvato, lei e le sue due ore e quaranta di racconto, dal baratro della pigrizia, della noia, finanche del fastidio. L'idea che ci si fa, guardando House of Gucci, è proprio quella di assistere ad un film che parte con l’impianto tecnico-artistico solito e solido dei film di Scott ed un’intenzione ben chiara a monte, per poi arenarsi in procedimenti ed un formato quasi soap operistico, alla stregua di un Dallas o Beautiful sotto la Madonnina. Un (im)perfetto falso d'autore.
C’è un momento di House of Gucci in cui lo spettatore più attento e consapevole potrebbe pure risollevarsi dal torpore della visione e risistemarsi più compostamente sulla poltroncina dove è affondato per la mezz’ora appena trascorsa, colto da un senso di apatia, ridondanza e noia generale. Più precisamente, quando Patrizia Reggiani illustra o, meglio, impone (come suo solito) al marito Maurizio Gucci la propria visione rispetto al futuro del brand, dell’impero e, di conseguenza, della famiglia Gucci. Ebbene, proprio in quel momento, l’ultima fatica di Ridley Scott - che esce nelle sale italiane a pochi mesi di distanza dal ben superiore The Last Duel - sembra quasi voler sfruttare la parabola tragica e discendente di una delle dinastie italiane più conosciute all’estero e, con essa, di una delle firme più prestigiose nel settore della moda e del lifestyle, per tracciare un parallelismo e costruire un discorso sia sull’attuale status del cinema scottiano, sia, più in generale, sulle condizioni di salute dell’odierna industria cinematografica.
Peccato che questo barlume intuitivo venga inserito (e dunque sgominato) in una pellicola che, al di là di tutte le questioni inerenti ad una recitazione e ad un parlato costruiti per stereotipi, travisamenti ed incorrettezze, che lasciano un po’ il tempo che trovano - e rispetto cui il doppiaggio risulta, per alcuni, una benedizione, per altri, invece, una forma di castrazione -, manca proprio di guizzi, di invenzioni o, ancora meglio, di un brio e di una brillantezza che avrebbero salvato, lei e le sue due ore e quaranta di racconto, dal baratro della pigrizia, della noia, finanche del fastidio. Dall’essere, per chi scrive, una delle esperienze cinematografiche più infelici e sofferte degli ultimi anni.
Ciò nonostante, nell’adattamento del libro di Sara Gay Forden ispirato ai fatti che, nel 1995, portarono Patrizia Reggiani ad essere la mandante dell'omicidio di suo marito Maurizio, imprenditore e presidente della casa di moda Gucci, ciò per cui opta il regista è un approccio più simile ad una parodia del grottesco a briglia sciolta, ad un’annoiata rivisitazione del mafia movie alla Scorsese, alla Coppola o alla De Palma, con tanto scalata al potere e conseguente crisi; ad un (im)perfetto falso d’autore, oppure ancora all’unica - secondo certuni - forma di mettere in scena e raccontare una storia del genere, al giorno d’oggi, in un mondo che è andato ben oltre la post-modernità e che non presenta più confini ben definiti.
E, in questo, si potrebbe pure ritrovare un fondo di verità, dal momento che stiamo parlando di uno dei fatti di cronaca più particolari, assurdi e contraddittori del Novecento italiano. Un caso che fonda le proprie radici e ragioni in una personalità - quella di Patrizia Reggiani - già sui generis, sopra le righe, instabile, ma pure affascinante nel suo essere criptica, eccentrica e stravagante - un fascino per un male banale e dilettantesco che solo in un paese come l’Italia avrebbe potuto e potrebbe avere terreno fertile.
La interpreta una Lady Gaga talmente a suo agio (forse pure troppo) in questo eccesso della farsa (e farsa dell'eccesso) da dominare la scena, senza mai essere messa in difficoltà (ed è un errore) tanto dall’istanza narrante, quanto dalle sue co-star, fatta eccezione forse per un Adam Driver buffissimo, mai così goffo, più sciolto e divertito rispetto al serioso, pedante e colpevole(!) Jacques Le Gris del già citato The Last Duel.
Ad accompagnarli, in questa passerella di forme, prima anche spiritose, beffarde e pungenti, poi sempre più facili, prevedibili, pacchiane e malfunzionanti; utili solo a mettere in ridicolo tutto ciò e tutti coloro che sfilano di fronte alla macchina da presa, un Al Pacino imbolsito nei panni di Aldo Gucci, lo zio di Maurizio, a cui sono riservate però le uscite più ilari, un Jeremy Irons etereo e abbastanza sacrificabile nel ruolo del padre Rodolfo Gucci, una Salma Hayek a dir poco imbarazzante come Giuseppina Auriemma - la complice/maga/serva di Patrizia -, ed infine un Jared Leto che si conferma ancora una volta quale attore esageratamente sovrastimato, disposto a piegarsi al più ridicolo e squallido dei personaggi (e dei trucchi prostetici) per puntare a qualche nomination, qui massimo emblema del film e del suo fanatismo quasi isterico ed iperattivo verso la carnevalata, la beffa, l’estemporaneità tanto nella recitazione, quanto nella messa in scena. Crediamo di non sbagliare o non esagerare nel dire che, in alcuni frangenti, sembra quasi che Ridley Scott abbia abbandonato del tutto il set e che, di conseguenza, gli attori abbiano dovuto dirigersi da soli per portare a termine le scene, salvando il salvabile.
Pertanto, l'idea che ci si fa, guardando House of Gucci, è proprio quella di assistere ad un film che parte con l’impianto tecnico-artistico solito e solido dei film di Scott ed un’intenzione ben chiara a monte, per poi arenarsi in procedimenti ed un formato quasi soap operistico, alla stregua di un Dallas o Beautiful sotto la Madonnina. La pellicola si tramuta allora in un lento avvicendarsi di frammenti, scenari e situazioni che finiscono per confondersi tra loro. In un’ipertrofia di momenti di dialogo cinematograficamente insipidi e contenutisticamente poco affascinanti, commentati dalla casualità di una colonna sonora - originale e non - inserita prima didascalicamente (vedasi Sono bugiarda di Caterina Caselli durante il primo periodo di innamoramento e relativa spensieratezza di Patrizia e Maurizio), poi ogni qualvolta vi sia bisogno di un accompagnamento. (È questo il caso dei numerosi pezzi di musica classica o degli sdoganati inni anni ‘80/’90 inseriti tanto per fare ambientazione e restituire un’Italia d’epoca che, di per sé, l’impianto estetico non contribuisce poi molto a ricreare.) Colpiscono mortalmente, in secondo luogo, l’assenza di un montaggio non inteso come una bulimica, abulica e piatta unione di segmenti pressoché stagnanti l’un l’altro, e, in particolar modo, la generale mancanza di fascino, di un qualsiasi tipo di appiglio interno ed intestino al film (e non para testuale od ermeneutico) a cui poter aggrapparsi, per sfuggire ad un’indifferenza angosciosa tanto verso i fatti narrati, quando per il modo in cui questi vengono trasposti su schermo.
Eppure, il problema principale di House of Gucci si situa ben prima. Cioè nella scelta, da parte prima della sceneggiatura di Becky Johnston e Roberto Bentivegna, poi dello stesso Scott, di sopprimere, sminuire o mascherare ogni sorta di ambiguità, di non detto, di indizio o segno visivo, di lavoro espressivo sull’immagine. In tal senso, come a voler riprendere il bisogno di una Verità chiara e ben definita alla base del suo film precedente, il cineasta sceglie la strada dell’evidenza, di una prolissità quasi parossistica nelle parole che cozza tremendamente con una sequela di personaggi insulsi e bambineschi [il film sembrerebbe imboccare pure quella strada, ma la abbandona prontamente], di una concezione del mezzo cinematografico che, sulla scia di una risata imbarazzata o un sorriso di pietà, mette in mostra tutti i propri processi per riparare una storia che, nella sua onnipresente falsità e contraddizione, ormai può essere letta e riletta solo attraverso una sovraesposizione e ripetizione distorta, debordante, oltre che filologicamente inaccurata di fatti, pareri, giudizi, successi, fallimenti, metafore, sensazioni, status.
In fin dei conti però, quello che ferisce di più è rendersi conto che House of Gucci disporrebbe pure di tutti gli elementi utili a permettergli di conquistare la passerella e vincere la stagione, ma, purtroppo, è costretto a scontrarsi con la visione inconsapevole, disarmonica ed estremamente vetusta di un cineasta sempre più alla ricerca di punti fermi e certezze in un presente cinematografico che non riesce più ad inquadrare, al punto da arrivare a snaturare e rovinare, in modo a dir poco disastroso, la propria arte.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.