TITOLO ORIGINALE: The Last Duel
USCITA ITALIA: 14 ottobre 2021
USCITA USA: 15 ottobre 2021
REGIA: Ridley Scott
SCENEGGIATURA: Ben Affleck, Matt Damon, Nicole Holofcener
GENERE: drammatico, storico
Presentato fuori concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Ridley Scott torna a farci respirare l’atmosfera di quei blockbuster massicci ed imponenti con The Last Duel, uno dei due progetti che, nonostante l’età (84 anni) e l’anno abbondante di pandemia, è riuscito a confezionare. Un film che, oltre ad avere l'onere di essere la poetica chiusura di un viaggio che vide i suoi primi baluginii ben 44 anni or sono con I duellanti, segna la riunione della coppia di sceneggiatori Matt Damon-Ben Affleck. Nonostante un impianto tecnico-cinematografico magniloquente e di tutto rispetto ed alcune ottime interpretazioni, The Last Duel mostra ben presto il fianco ad una ridondanza deleteria per l’affabulazione, ad una dilatazione superflua del racconto, così come ad una fastidiosa verbosità e superficialità argomentativa.
Come sostiene brillantemente il critico Emanuele Rauco nel suo approfondimento contenuto all’interno del catalogo ufficiale della 78ª edizione della Mostra del cinema di Venezia, la filmografia di Ridley Scott è fatta di cerchi che si aprono, chiudono e riaprono a loro volta. Il primo cerchio, quello inaugurato nel 1977 con I duellanti, suo esordio alla regia cinematografica dopo anni di gavetta nella pubblicità, si è chiuso molteplici volte, ma mai del tutto.
Fino ad oggi; fino a Venezia 78, in cui Scott riceve il Leone d’Oro alla carriera e presenta fuori concorso uno dei suoi ultimi lavori - uno dei due [l’altro è l’atteso House of Gucci] che, nonostante l’età (84 anni) e l’anno abbondante di pandemia, è riuscito a confezionare (il che non è da tutti, anzi quasi “da nessuno”). Lavoro che, già dal titolo, sembra richiamare il suo ouverture, il quale è tuttora uno dei suoi lavori più pregevoli ed ingegnosi.
The Last Duel, questo il titolo della pellicola, nasce per una serie di fortuite coincidenze. Infatti, come afferma lo stesso Scott nel suo commento al film, “la prima volta che ho sentito parlare dell’ultimo duello legalmente autorizzato disputato nella Francia medievale, ho capito subito che se ne sarebbe potuto ricavare un film potente. E - continua - quando ho saputo che Matt Damon, Ben Affleck e Nicole Holofcener stavano scrivendo la sceneggiatura, non ho avuto dubbi sul fatto che sarei stato io a dirigerlo”.
Un'opera, The Last Duel, che quindi non porta con sé soltanto l'onere di rappresentare il ritorno del regista a quel “tipo di storia epica che amo” e di essere la poetica chiusura di un viaggio che vide i suoi primi baluginii ben 44 anni or sono (pur ambientandosi quasi sei secoli prima del film con Keitel e Carradine), ma che segna anche e soprattutto la riunione di una coppia di amici e sceneggiatori, quella Damon-Affleck, che, da quella notte del 1998, quando entrambi vinsero il premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale per Will Hunting - Genio Ribelle, si era persa un po' di vista artisticamente parlando.
I due tornano dunque a far parlare di sé con questo The Last Duel, con cui, insieme a Nicole Holofcener (Copia originale), tentano di adattare per il grande schermo il romanzo storico di Eric Jager, dal titolo L'ultimo duello. La storia vera di un crimine, uno scandalo e una prova per combattimento nella Francia medievale, a sua volta ispirato dalla storia vera di Jean de Carrouges e Jacques Le Gris, rispettivamente cavaliere e scudiero che, nella Francia del XIV secolo, si sfidarono nell’ultimo duello di Dio legalmente riconosciuto. Il motivo dello scontro è da ritrovare nel brutale stupro che Le Gris perpretrò ai danni della moglie di Carrouges, Marguerite, che, di tutta risposta, (cosa più unica che rara per il tempo) scelse di denunciare pubblicamente lo scudiero.
Per la trasposizione, il trio di sceneggiatori opta per una soluzione apparentemente insolita: raccontare la vicenda dai punti di vista dei suoi tre protagonisti e suddividere, di conseguenza, l’intreccio in tre capitoli che ora combaciano, ora si ripetono, ora mostrano lo stesso avvenimento in modi completamente diversi. Spiega Damon: “Io e Ben abbiamo scritto i primi due atti, mentre Nicole si è occupata della storia raccontata dal punto di vista di Marguerite, anche se poi è intervenuta anche nelle nostre. Un processo totalmente diverso rispetto a quando scrivevamo negli anni ‘90”. Un processo di scrittura che, se ben sfruttato, potrebbe dinamizzare e rendere più cinematograficamente coinvolgente la messa in scena di una storia di cui, se ci si documenta, è possibile conoscere già il finale, ma che, al contempo, deve evitare di incappare in una ridondanza deleteria per l’affabulazione, in una dilatazione superflua del racconto, così come in una fastidiosa verbosità argomentativa.
Purtroppo, Scott non sempre riesce a tradurre questa costruzione così letteraria e così apparentemente complessa, senza incorrere in ripetizioni, ampollosità e didascalismi, dimostrando così un’evidente pigrizia compositiva. Basti pensare al modo con cui, nel terzo atto - quello un po’ Promising Young Dame, tutto vista dal punto di vista di Marguerite; quello che, come espresso (troppo arbitrariamente) dall’istanza narrante, mostra le cose per come sono andate realmente -, fa convergere, ricontestualizza e quindi ri-mostra tutto ciò che abbiamo visto nei due precedenti, che già da soli prestano comunque il fianco ad un paio di lungaggini e a momenti dalla dubbia funzionalità drammaturgica.
D’altra parte però, questa ripetizione di sequenze e frammenti interi permette a Scott e al film di condurre un discorso sulla percezione individuale (differente in base alla prospettiva considerata, specie per quanto riguarda il famigerato momento dello stupro), e di sorprendere lo spettatore con una caratterizzazione ed una scrittura dei personaggi che cambia (anche se non quanto basta) e si mostra radicalmente opposta od inasprita di segmento in segmento e, ovviamente, di capitolo in capitolo.
La divisione in capitoli consente in più al film di affrontare una riflessione metacinematografica interessante, ma (sfortunatamente) subliminale.
Difatti, i primi due capitoli - quelli che appunto relegano il racconto agli occhi prima di Jean de Carrouges, poi di Jacques Le Gris; atti dunque a delineare il rapporto e le acredini tra i duellanti (più simili, inizialmente, a scaramucce fanciullesche per ingraziarsi il rispetto e l’amore di un padre che, nel film, potrebbe ritrovarsi nel conte Pierre d'Alençon, interpretato da un Ben Affleck ossigenato e sopra le righe) - potrebbero essere visti come l’espressione di una tradizione filmica ormai sfiorita. Una tradizione che lo stesso Scott, con pellicole come Il gladiatore, Le crociate e Robin Hood, ha contribuito a fissare. Un cinema in cui un conflitto d’onore come quello qui proposto avrebbe considerato solo ed esclusivamente lo sguardo dei duellanti e (cosa ancor più importante) dei maschi, trattando invece le donne come mero soggetto narrativo; come innesco della trama.
Dall’altra parte, la terza ed ultima sezione di The Last Duel ritrae invece un’idea contemporanea del cinema storico, in cui la prospettiva e il punto di vista della donna e, in questo caso, della vittima sovrasta, si serve e denuncia l’elemento storico stesso, quasi sempre (anche qui) principale elemento affabulatorio e di fascinazione spettatoriale.
Ciò nonostante, pur fondando la quasi totalità delle proprie intenzioni argomentative sull’analisi della condizione femminile, della sessualità (spesso determinata dalla superstizione) e della società francese del '300, con tutte le sue contraddizioni, storture e arretratezze, e nonostante ponga pertanto grande attenzione all’anima femminile della storia, la pellicola viene meno quando si tratta di affrontare suddette tematiche e portare allo scoperto “tutto ciò che non funzionava”.
È in questi frangenti infatti che il film di Scott si scontra con le sue vere lacune, tra cui è d’obbligo citare una banalità disarmante di scrittura (tanto di personaggi, quanto di dialoghi e monologhi) ed una proverbialità di mezzi ed espedienti. Se a tutto ciò aggiungiamo poi quella generale prolissità di cui discutevamo sopra ed una ripetizione non adeguatamente e sufficientemente diversificata di interi segmenti (talora mostrati anche tre volte in due ore e venti di racconto, che, per The Last Duel, è pure troppo), capite bene il motivo per cui la sceneggiatura di Affleck-Damon-Holofcener non possa certo aspirare alle vette del grande cinema, né tantomeno della piena sufficienza.
Al tentativo, a nostro avviso, fallimentare di riprendere la sintassi narratologica di Rashomon [un film che sfrutta l'assassinio di un samurai e lo stupro di sua moglie per mano di un bandito ed una divisione del racconto in tre versioni e tre segmenti, per tracciare una riflessione sulla natura menzognera dell’uomo], coincide tuttavia con un impianto cinematografico di tutto rispetto, in linea con gli standard qualitativi a cui ci ha abituati, col tempo e coi film, l’opera di Scott, specie quello di soggetto storico-medievale.
Un interessante ribaltamento della percezione dello stardom di attori come Matt Damon e Adam Driver (geniale la scelta di far interpretare al primo, normalmente accigliato e torvo, la parte di Jean de Carrouges e al secondo, dal volto più particolare ed apparentemente puro, quella di Le Gris) è giusto la punta dell’iceberg di una regia robusta e di grande respiro che deve il suo successo al lavoro equilibrato e ben amalgamato di interpretazioni (tutte di altissimo livello), di scenografie suggestive, anche se superficialmente caratterizzate; di una ricostruzione storica tangibile e curata nel dettaglio, di una colonna sonora coerente ma non eccezionale, e di una resa spettacolare degli effetti pratici (specie di sangue e fuoco).
Discorso a parte riguarda invece il montaggio di Claire Simpson, la quale, sulla falsariga di quanto intrapreso dalla sceneggiatura, sceglie di accentuare ancor più questa scomposizione dell’intreccio, sfociando però nel disordine, in una disorganicità che, soprattutto nella prima ora, turba non poco l’esperienza di visione, e in un vortice di momenti che sembrano relazionati secondo una casualità non meglio specificata.
Avrà cospicue chance ai prossimi Oscar (nello specifico, sotto il profilo attoriale e di mestieri come costumi, scenografia e sonoro), rappresenterà una boccata d’aria fresca per tutti coloro che si sono sentiti delusi dal mediocre Tutti i soldi del mondi e potrà colpire per la cura e la magniloquenza della confezione, del comparto immagini e di ottime prove attoriali, ma per noi The Last Duel è tutto fuorché uno dei migliori Scott degli ultimi anni. Sì, ha un paio di momenti virtuosi, in cui (finalmente) si notano la mano e l’occhio del regista dietro la macchina da presa; che potremmo quasi definire propri del cinema nelle sue forme espressive più alte (uno di questi è proprio il duello finale).
Al contempo però, c’è anche tanto dello Scott minore, quello più convenzionale ed indolente. Intendiamoci, non stiamo parlando del Ridley Scott di Un’ottima annata o di, per l’appunto, Tutti i soldi del mondo, quanto piuttosto di quello incastrato nella creazione di vasti(?) universi cinematografici che tuttavia non vanno oltre la superficialità epidermica di un grande impatto visivo e di una sbalorditiva coerenza interna.
Con The Last Duel, Scott torna allora a farci respirare l’atmosfera di quei blockbuster massicci ed imponenti (pur raccontando una storia nella Storia) che tanto andavano nei primi anni 2000. Peccato soltanto che, tolto questo, il film non vada poi così in là...
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