TITOLO ORIGINALE: The Menu
USCITA ITALIA: 17 novembre 2022
USCITA USA: 18 novembre 2022
REGIA: Mark Mylod
SCENEGGIATURA: Seth Reiss, Will Tracy
GENERE: drammatico, orrore, satirico
DURATA: 106 min
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Il mondo del cinema e quello (oggi incontrastato e popolarissimo) dell'alta cucina si incontrano in The Menu di Mark Mylod, dove uno chef stellato, col suo menu definitivo, si prenderà gioco ed una personale rivincita su un ristretto gruppo della high-society, servendogli e facendoli patire della loro stessa arroganza ed esclusività, dei loro valori vacui, della loro poca responsabilità e rispetto per l'arte tutta. Prodotto da Adam McKay, The Menu intavola così un rischiosissimo cortocircuito tra forma e contenuto, rivelandosi proverbialmente tutto fumo e pochissimo arrosto. A risultare davvero affascinante, completa e complessa è infatti solo l'interpretazione di un magistrale Ralph Fiennes, capace, anche solo con un campionario limitato, eppure calibratissimo di gesti, movenze, tic, microespressioni, movimenti, di rendere iconico il proprio personaggio, risollevandolo dalla scrittura bozzettistica del copione.
Oggi più che mai, in un mondo in cui il concetto di esperienza è dietro l’angolo, in cui tutto appare possibile ma in cui tutto sembra esser già stato fatto, dove un semplice swipe sullo schermo del nostro smartphone può tramutarsi in un happening non richiesto, ma per qualche motivo irresistibile; lo storytelling, appunto l’unico ed irripetibile fattore esperienziale è diventato importantissimo, se non proprio fondamentale. È diventato la vera moneta corrente di capitalismo e consumismo, l'ingrediente essenziale per la vendita di qualsiasi prodotto acquistabile sulla faccia della Terra,
Tra questi, vi sono anche il cinema - specie per quel che riguarda il panorama hollywoodiano, le cui grandi major si stanno dedicando sempre più alla (sola) creazione di film evento, di esperienze da vivere idealmente sul grande schermo - e la cucina. Soprattutto la cucina, che, in quest’ultimo decennio o poco più, grazie alla folta e, ad oggi, inarrestabile proposta di cooking show, ha conosciuto una rigogliosa primavera, incontrando l’interesse di un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo, consacrandosi in termini iconografici e di immaginario, e nobilitandosi, invece, a livello prettamente filosofico e concettuale. Per quanto importa, in questi anni, chi vi parla ritiene - seppur tangenzialmente, per procura e circostanza - di aver passato più tempo tra i fornelli delle varie cucine di chef stellati da tutto il mondo o di studi televisivi allestiti ad hoc (e amministrati da quegli stessi chef, che sono diventati vere e proprie star del piccolo schermo), di quanto ne abbia passato, viceversa, a cucinare effettivamente qualcosa per sé.
A parte questo però, una cosa è certa: in un mondo in cui è così alto il valore dell’esclusività esperienziale, direttamente proporzionale diventa il peso del concept, dell’idea alla base, delle intenzioni più disparate e diversificate di un qualsiasi progetto.
Quello stesso concept e quello stesso senso di elitarismo (legato al poter essere testimoni di un evento unico ed irripetibile), come può essere una cena, più simile ad un pellegrinaggio, ad un percorso spirituale, dal costo di 1250 euro a testa, su un’isola remota e persa nel nulla più totale, che, quasi fossero una sorta di dantesca pena del contrappasso, si tramuteranno nella cinica, perversa, sanguinosa, cotta e mangiata rovina per un ristretto gruppo di membri della high-society, pensata per loro e curata in ogni minimo dettaglio dal celebrity chef Julian Slowik.
È proprio il concept, d’altronde, uno degli aspetti più accattivanti e compiuti di The Menu di Mark Mylod (conosciuto per la regia di alcuni episodi di Shameless e Succession), horror con derivazioni da comedy grottesca, che è anzitutto un singolare connubio ed ibridazione di due mondi, l’oggi incontenibile e ricchissimo mondo culinario (specialmente quello della haute cuisine) e l’ora disgraziato e caotico mondo del cinema o, più generalmente, dell’audiovisivo.
L’arte dei fornelli o, come si dice in una delle prime sequenze di The Menu, “l’arte sull’orlo dell’abisso”, l’arte di “lavorare con la materia grezza della vita e della morte” [che, tra l’altro, nell’ultimissimo periodo, si sta ritagliando un suo spazio ben preciso sotto i riflettori delle scene cinematografiche e seriali, da The Bear a Boiling Point, ndr] diventa perciò non solo il biglietto da visita, ma soprattutto il mezzo espressivo, allegorico, il tramite, insomma, del presunto (poiché prodotto da Adam McKay e Will Ferrell) contenuto ironico, delle intenzioni discorsive, della satira pungente del copione di Seth Reiss e Will Tracy, mentre il cinema ci mette i volti, dunque lo stardom, e la promessa di un’esperienza quanto più coinvolgente ed inquietante possibile.
Peccato o per fortuna che, a funzionare e a dirsi realmente soddisfacente, è giusto il concept, il cosiddetto involucro, l’esperienza in sé e per sé, la location, la mise en place, il servizio, lo storytelling, il ritmo, il rigore, il flusso, con cui Mylod & co. intrattengono, dilettano ed accompagnano lo spettatore nella scoperta di questo diabolico Menu, che, dal canto suo, di vera sostanza, di autentico sapore, ne ha ben poco.
Per utilizzare l’ennesima (ma, ahinoi, non certo l’ultima) metafora culinaria, tutto fumo e pochissimo arrosto, anche se qualcuno azzarderà senz'altro l’idea che questo suo confarsi (e non liberarsi d)alla prigione delle arti contemporanee - asservite ad un bieco ed elitario capitalismo, depauperate del proprio senso più nobile e romantico, prive di cuore e della benché minima forma di responsabilità nei confronti di ciò che creano, indisposte a portare fino in fondo le proprie visioni e i propri progetti -, a ciò di cui si lamenta e che mette in ridicolo, che tenta a tutti i costi di scardinare e portare al punto di ebollizione, che provoca e dissacra, che confuta ed infine purifica; altro non sia che un modo intelligentissimo di sottolineare in maniera ancora più evidente l’adesione soffocante a questo morbo incurabile, a questa croce (artistica) e delizia (pecuniaria), a questa opprimente sovrastruttura ideologica e filosofica. Dunque, a questa macchina inscalfibile di prostituzione subdola ed obbligata, che porta inevitabilmente ad una schizzata, ossessiva e maniacale forma di masochismo.
Ma il gioco (e il cortocircuito) vale davvero la candela? Per chi scrive, no, specie se ciò che si riceve in cambio è un film elegante ma stilisticamente insipido (tranne quando è impegnato a mutuare e reinvestire per fini comico-parodici espedienti tipici di quegli stessi cooking show, come, ad esempio, Chef's Table), la cui unica ragione di esistere - oltre che il solo elemento quantomeno stratificato, completo e complesso - è l’interpretazione magistrale e perturbante di un insostituibile ed azzeccatissimo Ralph Fiennes, ormai consapevolissimo delle complessità intrinseche al mezzo cinematografico, e capace pertanto, anche solo con uno sguardo al momento gusto ed un campionario limitato, eppure calibratissimo di gesti, movenze, tic, microespressioni, movimenti, di creare un’intera iconografia e dar vita ad un valido ed accattivante paratesto mitologico per il suo personaggio. Personaggio, che egli di fatto sottrae al bozzettismo con cui era stato pensato e scritto da Reiss e Tracy.
Tutto il resto: la scrittura grottesca, ripugnante o pietistica degli invitati alla cena (in cui comunque ognuno potrebbe inizialmente ritrovare qualcosa di sé), l’idealmente incalzante e sorprendente costruzione tensiva ed inquietante che invece va scemando man mano, mostrandosi sempre meno precisa e centrata; le prove di una diafana ed inefficiente Anya Taylor-Joy e di un curioso, appassionato, ma forse troppo esasperato Nicholas Hoult, il mistero legato al vero concept che lega le preparazioni - con i loro titoli evocativi, arroganti, aneddotici - e, in generale, definisce l’esperienza definitiva (d’altronde, è “Il Menu”) proposta da Slowik, una pausa a metà cena in cui assecondare il discorso #MeToo con tanto di “follia dell’uomo”, per non parlare infine delle innegabili incertezze nella messa in scena dei momenti più prettamente action (leggasi la colluttazione ad arma bianca tra la Joy e Hong Chau); pare sintomatico di una pellicola che, esattamente come le vittime della sua satira, si dà un piglio, un’aria, una levatura che non le appartiene davvero, una sofisticazione di circostanza, che non è tale nei fatti. Di un’opera che si ritiene e ci vuole far credere più intelligente e perspicace di quanto in realtà non sia.
Pochissimi sono quindi i veri ingredienti segreti di un’esperienza sommariamente riuscita, ma che, a quaranta minuti dall’inizio, diventa prevedibile, indolente. Di una pietanza dal retrogusto particolare e piacevole, ma in fondo tiepida e precotta. Che sia questo lo scacco matto, il decisivo cortocircuito, l’attentato definitivo di The Menu ai palati anestetizzati ed anestetizzanti del concept e dell’esperienza? Prosit!
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