TITOLO ORIGINALE: C'mon C'mon
USCITA ITALIA: 7 aprile 2022
USCITA USA: 19 novembre 2021
REGIA: Mike Mills
SCENEGGIATURA: Mike Mills
GENERE: drammatico
Joaquin Phoenix interpreta un giornalista radiofonico che si ritrova a dover fare da padre al nipote Jesse, perspicace, sensibile, fin troppo precoce, come tanti bambini d'oggi, in C'mon C'mon, nuovo film di Mike Mills, uno dei registi indie d'eccellenza del panorama statunitense. Al tema della genitorialità si unisce ben presto quella dell'incomunicabilità emotiva e della perdita del valore dell'ascolto e delle parole in un testo che, teso tra saggio e dramma familiare con tutti i crismi, si e ci chiede perché noi esseri umani sentiamo sempre e comunque la necessità di trovare una ragione logica, una possibile correzione al nostro malessere, senza invece riconoscere che, a volte, è più che giusto ed altrettanto ragionevole (ammettere di) non stare bene. Peccato però che, nel fare questo, il film di Mike Mills non riesca a conciliare queste sue due nature antitetiche. Ne risulta perciò un'opera modestissima, verbosa, troppo distaccata ed impassabile per risultare sincera e calorosa come vorrebbe far credere. L’ennesima dimostrazione di un cinema d’autore arrivato ormai allo stereotipo di sé stesso.
La continua, insostenibile e perentoria rivendicazione di un tono e di un’idea di cinema così smaccatamente autoriali, sofisticati, intellettuali, virtuosistici, sarà mica una sorta di prerogativa non scritta di tutti i film in bianco e nero degli ultimi due anni? Oppure è giusto un bisogno primordiale di ogni singolo prodotto targato A24? Qual è il senso di andare così insistentemente alla ricerca di alibi, pretesti, giustificazioni, pezze di appoggio al proprio modo (spesso approssimativo) di fare cinema, se poi si finisce per assomigliarsi l’un l’altro?
Sono queste domande che potremmo porre a tanti registi che recentemente hanno ben pensato di distinguere, non senza un pizzico di arroganza, le proprie opere dalle molteplici direzioni verso cui si sta spingendo il cinema d’oggi, chiudendosi in mondi artefatti, dagli evidenti (e sempre passatisti) modelli di riferimento, resi stagnanti attraverso la certezza, la compiutezza e il rigore inscalfibile della forma.
Potremmo chiederlo, per esempio, a Sam Levinson, che, con il suo Malcolm & Marie, ha dato forma ad una trascurabile ed inconcludente diagnosi del mondo dello spettacolo e delle arti in generale, che si intreccia, a sua volta, con l’esplosione di un rapporto di coppia solo apparentemente perfetto. A David Lowery e al suo Sir Gawain e il Cavaliere Verde, un high concept fantasy che, dietro belle immagini, una superba fotografia ed un ottimo lavoro di production design, cela un discorso convenzionalissimo, dai risvolti interpretativo-concettuali ancor più prevedibili, nonché contorti inutilmente. Potremmo chiederlo pure a Kenneth Branagh, che invece è riuscito a vincere addirittura un Oscar con Belfast, un racconto autobiografico che usa il bianco e nero in modo puerile, un film furbo, troppo elementare, monocorde e “scortato” dal cuore del suo regista per soddisfare le ambizioni che si propone.
Oggi però, anche se improbabile, preferiremmo chiederlo a Mike Mills, ora nelle sale italiane con il suo C’mon C’mon, dramma familiare-esistenziale nel quale Joaquin Phoenix interpreta Johnny, un giornalista radiofonico alle prese con un’inchiesta in giro per gli Stati Uniti nella quale intervista bambini di diverse estrazioni sociali sulle loro vite e i loro pensieri, che si ritrova a dover correre a Los Angeles per accudire il nipote Jesse, fintanto che sua sorella Viv - con la quale non parla dalla morte della madre, avvenuta un anno prima - non torna da Oakland, dove si è recata per aiutare il marito Paul, affetto da una forma non meglio specificata di bipolarismo.
Ha così inizio un film in cui Mills, attraverso un’osservazione frugale, ma martellante delle dinamiche relazionali tra un uomo che forse non ha ben metabolizzato o fatto ancora i conti con il proprio passato, i propri rancori e i propri fantasmi ed un tipico bambino d’oggi, dunque perspicace, sensibile, fin troppo precoce; intende raccontare l’attualità della figura genitoriale o, più in generale, della figura adulta in relazione alle giovani generazioni. C'mon C'mon è perciò, innanzitutto, il racconto di un mondo degli adulti assente, fatto di continue surrogazioni e surrogati, si non-genitori che diventano tali. Un mondo esausto e prosciugato dall'energia vitale e dalla precocia di questi piccoletti. Un mondo contraddittorio che i bambini (ci) guardano e giudicano; al contempo, amico e nemico, fonte di amore indissolubile, ma anche motivo di dolori, dispiaceri, nevrosi ed angosce progredite, abitudini da estirpare o migliorare.
A questo discorso sulla genitorialità, senz'altro arduo e complesso, Mills decide poi di congiungere ed incorporare temi collaterali come l’incomunicabilità, soprattutto emotiva, che affligge il presente, la perdita del valore dell’ascolto e delle parole, chiedendosi e chiedendoci, in chiusura, il motivo per cui noi esseri umani sentiamo sempre e comunque la necessità di trovare una ragione logica, una possibile correzione al nostro malessere, senza invece riconoscere che, a volte, è più che giusto ed altrettanto ragionevole (ammettere di) non stare bene.
Ciò detto, quantomeno sulla carta, C’mon C’mon si propone pertanto come un testo che vorrebbe affiancare atmosfere, situazioni, ambizioni e fini emotigeni da tipico racconto familiare alla Linklater e alla Malick, con una parure di argomenti degni, se non proprio dei migliori Antonioni e Bergman, di pellicole come le recenti Petite Maman e La figlia oscura.
Peccato che, nel porsi e nel porre a noi spettatori questi continui interrogativi, quasi fosse un bambino nella tipica “fase del perché”, il film di Mike Mills non riesca davvero a conciliare o a far risaltare in egual maniera una natura più prettamente saggistica (con tanto di bibliografia esposta a schermo), dunque più indie e artsy, a metà tra l’inchiesta giornalistica e il cinema verità (con tanto di ode alla città e, soprattutto, ai suoi suoni); ed una invece evidentemente più commerciale, ascrivibile non solo alla scelta di un attore come Joaquin Phoenix, ma più che altro alla costruzione di un racconto di famiglia disastrata con tutti i crismi e problemi del caso, all’usufrutto patetico di un rapporto simil padre-figlio come tanti, e all’impiego furbo della colonna sonora delicata, aliena, avvolgente di Aaron e Bryce Dessner.
Ne risulta un film modestissimo che professa e riconosce l'importanza del silenzio, pur non chiudendo bocca un attimo, verboso, enfatico, naif, già visto (e in modi decisamente migliori), troppo distaccato ed impassabile per risultare sincero e caloroso come vorrebbe far credere. In altre parole, un'opera la cui pretenziosa fattura, per non dire formalismo, è soltanto l’ennesima dimostrazione e riconferma di un cinema d’autore (statunitense) arrivato ormai alla caricatura, allo stereotipo di sé stesso; manierista, sfrontato e petulante, perso sempre più nei suoi complessi e nei suoi capricci (che gli preme assicurare nei territori intoccabili dello “stile” e della “scelta registica”), incapace di parlare con la contemporaneità, se non attraverso sentenze vagheggianti, visioni del mondo semplicistiche o verità gelosamente custodite, o, come nel caso di C'mon C'mon, di far parlare davvero i propri attori, invece appesantiti, resi fastidiosi, quasi annullati nel proprio apporto sinergico ed emozionale, dalla fisionomia e dalle esigenze di una macchina cinematografica, sì, magniloquente, ma apatica, fiacca, irresoluta.
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