TITOLO ORIGINALE: Petite Maman
USCITA ITALIA: 21 ottobre 2021
REGIA: Céline Sciamma
SCENEGGIATURA: Céline Sciamma
GENERE: drammatico
Dopo aver raggiunto il successo internazionale di critica e pubblico con il meraviglioso Ritratto della giovane in fiamme, la francese Céline Sciamma spiazza tutti, puntando su una produzione evidentemente low-budget che fonda la propria riuscita su un numero risicato di elementi e trova il proprio fascino nel modo elegante, sottrattivo, sofisticato ma, al contempo, sobrio ed essenziale, nonché intrinsecamente cinematografico, con cui mette in scena, sviluppa e reinventa una trama abbastanza semplice. Il risultato finale è un film dove la Sciamma, in poco più di 70 minuti, riesce a dire tutto quello che ha da dire, nel modo in cui vuole dirlo. Vale a dire raccontando il lutto e la tristezza di un piccolo nucleo familiare, dando vita, forma e voce ad un ecosistema perfetto, ordinato e scorrevole nella sua microscopia, in bilico tra passato e futuro.
Una sorpresa che giunge sullo schermo con una grazia sommessa, una sconvolgente capacità di sintesi ed un minimalismo che lascia a dir poco interdetti. Così si potrebbe riassumere il nostro giudizio su Petite Maman, l’ultima, piccola ma densissima fatica di Céline Sciamma, una, se non la migliore regista francese attualmente in circolazione, che, sin dai tempi del meraviglioso Tomboy, ha dato prova di una visione personalissima, corporea, ammaliante e del tutto anticonvenzionale del mezzo cinematografico, di una capacità indescrivibile di lavoro, composizione e scrittura dell’immagine, così come di un equilibrio registico che ha veramente pochi eguali, specie tra le nuove promesse dietro la macchina da presa.
Come molti hanno già scritto, per la Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme - l’unico degno rivale di Parasite alla 72ª edizione del festival di Cannes - rappresenta e ha rappresentato il primo vero traguardo di un percorso cinematografico idilliaco, di un'arte e di una tecnica che si sono evolute e reinventate con coerenza e chiarezza di pellicola in pellicola. Un film che, a suo tempo, definimmo “un gioiello in cui ogni minimo particolare ha un senso, cela un significato ignoto e misterioso, ha un ruolo ben preciso all’interno del mosaico generale”. Insomma, l’opera che ha consacrato il nome e il cinema di Céline Sciamma non solo presso la critica, ma anche e soprattutto presso un pubblico internazionale più o meno grande.
Detto ciò, stupisce quindi che una regista al massimo delle sue possibilità - che, pandemia permettendo, sulla scia del neonato successo, dovrebbe e potrebbe puntare ancora più in alto, ad un’impresa ancora più ambiziosa e spettacolare - opti viceversa per un film che, non fosse per l'indubbia maturità, avrebbe tutte le caratteristiche di un’opera prima.
In altri termini, con Petite Maman è giusto parlare di "sorpresa" perché è a dir poco sconcertante la scelta, da parte di Sciamma, di puntare su una produzione evidentemente low-budget che fonda la propria riuscita su un numero estremamente risicato di elementi e trova il proprio fascino nel modo elegante, sottrattivo, sofisticato ma, al contempo, sobrio ed essenziale, oltre che intrinsecamente cinematografico, con cui mette in scena, sviluppa e reinventa una trama semplicissima che, in mani meno abili, esperte o sensibili, sarebbe potuta sfociare nel già visto, nello scontato o, peggio ancora, nel paradigmatico.
Petite Maman racconta infatti la storia della piccola Nelly (una Joséphine Sanz ipnotica), che, ancora scossa ed inquieta a seguito della scomparsa della nonna, si trasferisce per pochi giorni nella casa d’infanzia di sua madre. In questo breve lasso di tempo - utile a mamma e papà per svuotare la casa di tutti i ricordi -, Nelly fa la conoscenza di Marion (una parimenti incantata ed incantevole Gabrielle Sanz), una bambina sua coetanea che le assomiglia in maniera sbalorditiva, mentre è intenta a costruire un rifugio nel fatato e misterioso bosco vicino casa…
Pur scoprendo a poco a poco gli elementi fondanti il proprio mondo e la propria storia, Céline Sciamma non ammette dubbi o, meglio, sottintende il ruolo e la natura (prestabiliti e presumibili, come nel giallo che in seguito si inventeranno ed interpreteranno le due bambine) degli attori di questo suo racconto, lasciando presagire fin da subito dove quest’ultimo andrà poi a parare e disinnescando inoltre ogni tipo di fisiologica ricerca dell’effetto sorpresa o del twist tanto conveniente quanto retorico.
Aiutata dall’inseparabile direttrice della fotografia Claire Mathon - che qui restituisce tutte le nuance, i profumi e le emozioni di una stagione, l’autunno, perfetta ed incantata nella sua tristezza, malinconia e decadenza, ma anche foriera di una rinascita gioiosa, riappacificante ed inevitabile -, la cineasta si lascia guidare e dirige con estrema consapevolezza ed armonia la coppia di enfant prodige in un incontro con il mondo del fantastico, del soprannaturale, del fantasmatico, che quest’ultima costruisce lavorando quasi esclusivamente con e all’interno dell’immagine, tramite un’aggiunta o sottrazione degli elementi a propria disposizione.
Tra questi, è sicuramente obbligo citare almeno la scenografia di Lionel Brison, la quale scopre, nel minimalismo di arredi e di oggetti e in un naturalismo fiabesco, i mezzi per giocare con l’immaginario, le aspettative, le esperienze pregresse di visione e la fantasia ermeneutica dello spettatore. Ecco quindi che un rettangolo di muro non imbiancato diventa immediatamente uno squarcio verso un’altra dimensione; un albero sradicato, un confine “ai confini della realtà”, del tempo e dello spazio; un’insolita costruzione in mezzo ad un laghetto, un luogo pressoché mistico di cui non ci è permesso conoscere la storia.
Dopotutto però, questa capacità di sintesi e questa naturalezza dimostrate da Brison non sono che indici di una regia che, a sua volta, fa sembrare semplice e spontaneo un qualcosa che, in realtà, non lo è affatto; ed anime fondative di una visione che, tra i suoi numerosi pregi, presenta pure una dote rarissima, specie al giorno d’oggi. Difatti, in un panorama cinematografico che - in risposta forse alla sempre maggiore egemonia del medium seriale -, a momenti, sembra quasi diffidare dai racconti di durata inferiore all’ora e quaranta, stupisce ulteriormente riconoscere l’esistenza di un cinema che decide di andare controcorrente ed asciugare tutto al minimo indispensabile, senza però peccare di presunzione o di un anticonformismo talmente assoluto ed imperativo, da trasformarsi in una costrizione estetica ed artistica.
Ebbene, Petite Maman è un film dove Céline Sciamma, in poco più di 70 minuti, riesce a dire tutto quello che ha da dire, nel modo in cui vuole dirlo. Vale a dire raccontando il lutto e la tristezza di un piccolo nucleo familiare, semplicemente raddoppiando il numero di protagonisti, intervenendo e suggestionando la cultura cinematografica di chi guarda, e sfruttando l’immagine e tutte le sue intrinseche potenzialità espressive per formulare al meglio tematiche, concetti e snodi narrativi principali.
Attraverso la combinazione di tutti questi fattori, la regista riesce così a dare vita, forma e voce ad un ecosistema perfetto, ordinato e scorrevole nella sua microscopia, in bilico tra il passato e, con esso, l’incanto dell’infanzia e il gioco come metafora di qualcosa di più profondo e latente; e il futuro, con la sua musica (da brividi, a cura di Para One), le sue incertezze e i suoi rassicuranti rifugi.
D’altro canto, basterebbe anche solo quell’inquadratura - che è già icona - dell’abbraccio finale fra le due bambine, al cui interno Sciamma imprime e ferma tutto il senso, i significati, i ruoli e la commozione dell'opera, per fare di Petite Maman non solo uno dei migliori film dell’anno, ma anche un capolavoro nel vero senso del termine.
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