TITOLO ORIGINALE: Malcolm & Marie
USCITA ITALIA: 5 febbraio 2021
USCITA USA: 5 febbraio 2021
REGIA: Sam Levinson
SCENEGGIATURA: Sam Levinson
GENERE: drammatico, sentimentale
PIATTAFORMA: Netflix
Un regista e la sua fidanzata, rientrati a casa dall’anteprima trionfante dell’ultimo film di lui, iniziano a litigare e ad esternare segreti, riserve e giudizi, portando la loro relazione ad un punto di rottura. Il creatore della serie Euphoria è regista e sceneggiatore di un dramma sentimentale Netflix che guarda al cinema di Godard e sfrutta uno scontro di coppia - così come la forma del Kammerspiel - per tracciare una diagnosi del mondo dello spettacolo ed interrogarsi sulla natura del e sulla definizione di cinema. Purtroppo, il risultato finale è un film arrogante, ma perlopiù anonimo ed inconcludente, che preferisce fiumi di parole ad immagini eloquenti e sostanziose, a non detti. A ristabilire questo giudizio, non basta certo una fotografia suadente ed una colonna sonora incisiva.
“Il Cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. Il disprezzo è la storia di questo mondo”. Così diceva il noto critico cinematografico francese André Bazin, citato, ripreso e adottato, con queste stesse parole, da Jean-Luc Godard nell’incipit del suo Il disprezzo (1963). Il film porta in scena la discussione e la rottura amorosa tra uno sceneggiatore e la sua attraente e giovane moglie, in seguito ad un malinteso: quest’ultima sostiene infatti che il marito sfrutti lei e la sua bellezza per fare colpo sul suo produttore. L’obiettivo principale di Godard è mostrare come il denaro possa ostacolare l’arte, come l’arte possa non andare di pari passo con l’amore, punendo, al contempo, tutti i punti di vista opposti e portando lo spettatore in un ingorgo di domande alquanto intricate.
Non a caso, Il disprezzo è - per sua stessa ammissione - uno dei film che hanno formato il gusto cinematografico di Sam Levinson (creatore e sceneggiatore della serie Euphoria), che, per il suo terzo lavoro, Malcolm & Marie, sceglie di omaggiare proprio l'opera francese della Nouvelle Vague. Infatti, salvo un paio di stravolgimenti narrativo-tematici, anche il racconto di Levinson, così come quello di Godard, vede protagonisti una persona di cinema - un regista, per essere più precisi - (John David Washington) e la sua compagna (Zendaya). I due, rientrati a casa dall’anteprima trionfante dell’ultimo film di lui, iniziano a litigare e ad esternare vicendevolmente segreti, riserve e giudizi, portando la loro relazione sull'orlo di un precipizio.
Due attori nel pieno della loro popolarità (Washington è stato il Protagonista per Christopher Nolan nel recente Tenet; Zendaya è la star indiscussa della sopracitata Euphoria, per cui ha vinto un Emmy come migliore attrice), pellicola 35mm, un bianco e nero elegante e suadente, una distribuzione su larga scala (il film esce in streaming su Netflix), una scrittura visiva ed una sceneggiatura che, per l’appunto, guardano al cinema di Godard, ma anche al teatro da camera tedesco (il cosiddetto Kammerspiel): con Malcolm & Marie, Sam Levinson sembra voler puntare in alto e compiere finalmente il salto di qualità e di notorietà - dopo aver illuminato quello televisivo con le traversie del gruppo di liceali capitanato da Rue Bennett - anche sul “grande schermo”. Il tutto nel modo più controverso, ostile e polemico possibile.
Difatti, dietro il velo da arthouse ed una tanto accesa quanto consueta discussione di coppia, il film Netflix cela e vorrebbe portare avanti un’analisi critica su temi dibattuti e contingenti dell’industria dello spettacolo. L’infondata ed arbitraria politicizzazione dei film da parte della critica è solo la (o la sola?) punta dell’iceberg di una pellicola di forte denuncia che sfrutta lo scontro altalenante di Malcolm e Marie per tracciare una diagnosi del mondo dello spettacolo ed interrogarsi(ci) sulla natura del e sulla definizione di cinema e sul rapporto di quest’ultimo con realtà e vita vissuta (e talvolta rappresentata).
Detto ciò, riprendiamo quindi in mano la citazione di Bazin, sostituendo a quel disprezzo di godardiana memoria la parola egoismo e riconsiderando ex novo i ruoli di Malcolm e Marie. Il primo - un regista sulla cresta dell’onda, permaloso, narcisista e appassionato - potrebbe essere inteso come il rappresentante di un cinema o, più generalmente, di un’arte involontariamente e pregiudizialmente strumentalizzata; a cui vengono inculcati un messaggio anche quando vorrebbero solamente divertire, intrattenere o emozionare; un cinema e un’arte che, secondo la critica, devono sempre rispondere ad un intento e ad una ragione di fondo.
La seconda - un’ex-attrice ed ex-tossicodipendente - e il suo passato invece sono ben più accostabili ad una personificazione della realtà, di quel vero che quello stesso cinema e quella stessa arte ricercano, esaminano e traspongono in modo egoistico e solipsistico, e nei confronti di cui si propongono come unici chiarificatori ed intermediari. La stessa realtà, quella rappresentata dal personaggio di Marie, che, nel film di Levinson, dà inizio ad una lite di rivendicazione del proprio primato, della propria esistenza e del proprio contributo (il tutto ha inizio per un ringraziamento mancato) nella creazione di quella stessa arte, ossia del film di Malcolm.
Tuttavia, una volta giunti ai titoli di coda, ci si rende conto come, all’infuori di tale lettura allegorica e raffinata, il bisticcio tra i due fidanzati e, di conseguenza, la sceneggiatura della pellicola riservino ben poco e quante occasioni sprecate si accumulino minuto dopo minuto.
Malcolm & Marie è quindi un film che tratta del rapporto tra arte e vita, tra rappresentazione e realtà, ma che si dimentica di sviscerarlo realmente ed approfonditamente. Che punta il dito, facendo nomi e cognomi e attaccando di petto - e in modo fin troppo semplice - il settore e il lavoro del critico cinematografico (probabilmente è questo il motivo per cui il film sta venendo stroncato in patria). Che delinea perfettamente il punto di vista e il disagio di lei, sacrificando quelli di lui. Che descrive e tratteggia perfettamente la relazione tra personaggi e ambientazione (una Malibu purtroppo ridotta a mero sfondo e citazione della Golden Age hollywoodiana). Che riesce a gestire e tirare fuori il meglio da un John David Washington incontenibile ed impetuoso, seppur comunque inferiore rispetto ad una Zendaya in una delle sue migliori prove.
Al contempo però, questo non riesce a regalare un benché minimo momento di invenzione, impegno ed uscita non tanto dalle mura della casa della coppia, quanto piuttosto da mura ideologiche e accusatorie precostituite. Pertanto, il dialogo tra Malcolm e Marie, vero e proprio scheletro del testo filmico, si converte ben presto in un monologo dello stesso e solo regista; in uno scontro interiore, autoreferenziale, contraddittorio e, alla lunga, inconcludente, di cui è già stato deciso il finale.
Non nascondiamo dunque la presenza di alcuni pregi o comunque di elementi riusciti e ben costruiti: la regia regala alcuni primi piani intensi e pregevoli, la fotografia - nonostante la scelta del bianco e nero sia concettualmente aleatoria - è splendida e la colonna sonora è talmente azzeccata da sostituirsi e dimostrarsi più penetrante di tante parole.
Ciò nonostante, scambi di battute e confronti dalle dinamiche ripetitive ed estenuanti e dai contenuti trascurabili, tematiche ridimensionate, accennate o sviluppate in modo superficiale e semplicistico ed un ritmo che, dopo il picco d’interesse dei primi minuti, si arena completamente fanno di Malcolm & Marie una pellicola arrogante, ma perlopiù anonima e limitata, che preferisce fiumi di parole ad immagini eloquenti e sostanziose. Una pellicola che si dimentica quindi della specificità del linguaggio cinematografico, dei non detti.
Per sua (e nostra) sfortuna, Levinson non è Kaufman e Malcolm & Marie non è Sto pensando di finirla qui (sempre di Netflix). L’inconsistenza dialogica e contenutistica del primo è inversamente proporzionale alla raffinatezza e ricercatezza del secondo. Urla, pianti e speranze riposte esclusivamente su un duo di grandi interpreti e su un’estetica “tutto fumo e niente arrosto” da un lato, sperimentazione, capacità visionaria e scrittura tagliente dall’altro. Non basta certo un bianco e nero a sovvertire gli equilibri di questo confronto.
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