TITOLO ORIGINALE: Belfast
USCITA ITALIA: 24 febbraio 2022
USCITA USA: 12 novembre 2021
REGIA: Kenneth Branagh
SCENEGGIATURA: Kenneth Branagh
GENERE: drammatico, biografico, storico
Candidato a sette premi Oscar, Belfast è il secondo film di Kenneth Branagh a vedere la luce del grande schermo nel 2022. Il film, racconto semi-autobiografico dell'infanzia dell'autore nella Belfast di fine anni'60, sullo sfondo dei proverbiali Troubles irlandesi, è l'ultimo arrivato di quella moltitudine di racconti autobiografici di infanzia, giovinezza e maturazione che, negli anni, si sono succeduti - da Amarcord e Roma di Federico Fellini e Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore, arrivano fino al recente È stata la mano. Peccato che Kenneth Branagh possa solo sognarsi un film tanto intenso, personale e sentito come quello di Sorrentino. Sin dai primi minuti infatti, Belfast rivela un'idea di cinema tra le più puerili e furbe che vedrete quest'anno sul grande schermo. Un film troppo elementare, troppo monocorde e troppo “scortato” dal cuore del suo regista, ennesima testimonianza del crollo di un inguaribile narcisista che, nel suo voler passare alla storia quale il più eclettico degli eclettici, ha da tempo perso la bussola di una filmografia altalenante ed indefinita.
Belfast di Kenneth Branagh inizia quasi come uno di quei documentari turistici che portano lo spettatore in giro per il mondo, alla scoperta di posti più o meno sconosciuti, dei loro angoli ed anfratti, della loro storia e delle tradizioni dei propri abitanti. Vedute del porto, riprese aeree della zona residenziale, qualche dettaglio su edifici e monumenti caratteristici: la capitale e maggiore città dell'Irlanda del Nord così come vista, inquadrata e riportata su schermo dal regista britannico, risponde ad una visione, frutto di una nostalgia pulsante, un amore incondizionato ed una confortevole tranquillità, che purtroppo va ben oltre la mera rappresentazione della città, del suo fascino e delle sue bellezze intrinseche, proiettandosi anche sul e nel modo in cui questi pensa, dirige e sviluppa Belfast.
Coming-of-age in parte autobiografico, trionfo di pubblico e critica nel Regno Unito, tra i favoriti ai prossimi Oscar (con ben 7 nomination), la pellicola è, in sostanza, il racconto dell’infanzia dello stesso Branagh: dunque, il rapporto difficile di Buddy (l’alter-ego del cineasta) con un padre assente (Jamie Dornan), quello reverenziale nei confronti di una madre (Caitríona Balfe) che ha dovuto ricoprire anche il ruolo paterno, quello amoroso e mitico con i nonni (Ciarán Hinds e Judi Dench), ma anche il racconto del vicinato, con le sue tribolazioni e i suoi momenti più allegri e conviviali, dell'ambiente scolastico, delle ingenue prime cotte, delle riunioni di famiglia con zii e cugini, oppure ancora delle uscite collettive per andare al cinema o al teatro; sullo sfondo delle preoccupazioni e della tensione legate ai cosiddetti Troubles, i disordini che ancor oggi scuotono l’Irlanda del Nord, vedendo contrapposti irlandesi cattolici repubblicani e irlandesi protestanti unionisti.
Pertanto, non sarebbe poi così sbagliato mettere in relazione Belfast con opere del calibro di Amarcord e Roma di Federico Fellini, Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore o il più recente È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, non fosse che, così facendo, il tutto si ridurrebbe ad un confronto fuorviante e sleale che finirebbe col rendere più evidenti di quanto già non siano gli annichilenti risultati della pellicola in esame. A tal riguardo, senza scomodare "i Fellini" e "i Tornatore", ci limitiamo a dire che Branagh può solo sognarsi di pensare ad un film tanto intenso, personale e sentito come quello del nostro Sorrentino (e lo diciamo questo, sia chiaro, non senza una leggera punta di patriottismo).
Au contraire, in seguito a quella serie di riprese confortevoli e placide della Belfast di oggi, superato un muro, ci affacciamo sulla realtà di uno dei quartieri della Belfast di fine anni ‘60, che il regista tratteggia con l’uso di un bianco e nero del tutto pedissequo a quello già visto nel prologo bellico di Assassinio sul Nilo - l’ultima rimandatissima incursione branaghiana nell’universo letterario di Agatha Christie, attualmente in sala.
D’altronde, il direttore della fotografia è lo stesso delle avventure di Poirot: un Haris Zambarloukos tanto versatile da riuscire a passare, con una disinvoltura disarmante, da un film incredibilmente commerciale, pop e artificioso come il già citato Assassinio, ad un film parimenti commerciale, pop e artificioso (tanto narrativamente, quanto negli sporadici ralenti) come Belfast.
Difatti, definire autoriale Belfast ci fornisce una delle dimostrazioni più solide, nonché l’ennesima conferma dell’inconsistenza sempre più evidente della distinzione (d’intenti e subdolamente di qualità) che si è sempre fatta tra cinema blockbuster (o di grande richiamo) e cinema d'essai. Di più, chi scrive, con tutta sincerità, si rifiuta categoricamente di definire autoriale un’idea di cinema tanto puerile e furba (avrà preso dal nonno, presumibilmente) come quella dimostrata da Branagh in questa sua messa a nudo e lettera d’amore, entrambe fintissime.
E non sprecate fiato e sudore nel dare un senso positivo al “puerile” e al “furbo”, contestualizzandoli in una banalizzazione ed infantilizzazione premeditate di forma e contenuto - in linea dunque con un racconto la cui istanza narrante abbraccia totalmente (autocastrandosi) il punto di vista del sé bambino -, perché non solo risultereste ciechi, ma finireste pure per banalizzare a sua volta il discorso critico tutto legato a Belfast (e, per riflesso, Belfast stesso).
Concepire il bianco e nero solo in funzione di momenti di epifania, ancore di salvezza, visioni del futuro di Buddy/Branagh rigorosamente a colori (il teatro e il cinema, per essere precisi); dirigere gli attori con cotanta pigrizia, riuscendo addirittura ad appiattire le doti espressive di un talento come Judi Dench; scrivere con eccessiva gravità e problematicità drammaturgica il protagonista del proprio racconto (arrivando inoltre a colpevolizzarlo della precaria situazione della propria famiglia); incasellare ed integrare con così poche intuizioni le anime musicali e di ricostruzione storica; concepire un discorso talmente blando e superficiale di trasfigurazione del reale attraverso i film (Mezzogiorno di fuoco su tutti) e l’epica medievale; sacrificare, se non occultare volontariamente la tensione, il conflitto, la violenza, il dolore in nome di un racconto per lo più zuccheroso, stucchevole e smanceroso (la guerra non è mai stata così invisibile e patinata); testimoniare la propria visione autoriale giusto in nome di qualche inquadratura dai punti macchina anticonvenzionali o simmetrici, che magari sfrutta pure bene la profondità di campo; insomma, ritenere del tutto riuscito - ancor prima che leale o degno della considerazione che gli è stata concessa - un film come Belfast significa - senza alcuna forma di superiorità - averne visti pochi, di film.
C'è da aggiungere infine che l’esistenza stessa di un prodotto del genere può trovare una valida spiegazione in due possibili scenari: uno più ottimista, “gentile” e pseudo-terapeutico, l’altro più pessimista e “distruttivo”.
Da un lato infatti, potremmo pensare che Branagh, con questo racconto, abbia voluto mettere in piedi un paradiso terrestre in cui potersi rifugiare e metabolizzare un’infanzia che, a differenza di ciò che egli stesso lascia trasparire, non deve essere stata certo una passeggiata.
Dall’altro, potremmo riconoscere in Belfast niente più che l’ennesima riprova della crisi profonda di un artista che, esauritosi il confronto con la materia shakespeariana (che, per ragioni biografiche, conosce come le sue tasche), non ha nulla di significativo o di nuovo da dire.
Per noi, Belfast è fondamentalmente il crollo di un inguaribile narcisista che, nel suo voler passare alla storia quale il più eclettico degli eclettici, ha da tempo perso la bussola di una filmografia altalenante ed indefinita. I disordini (storici, caratteriali, artistici) di Kenneth Branagh diventano allora i Troubles di Belfast, un film troppo elementare, troppo monocorde e troppo “scortato” dal cuore del suo regista, che ci fa ripensare a quello strano incidente che è Artemis Fowl con occhi diversi, oltre la giustificazione di un incomprensibile (ma innocuo) passo falso.
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