TITOLO ORIGINALE: The Lost Daughter
USCITA ITALIA: 7 aprile 2022
USCITA USA: 31 dicembre 2021
REGIA: Maggie Gyllenhaal
SCENEGGIATURA: Maggie Gyllenhaal
GENERE: drammatico
Al suo esordio registico, l'attrice Maggie Gyllenhaal sceglie di trasporre e dislocare il terzo romanzo della sfuggente Elena Ferrante, riflettendo sul concetto di maternità come inscindibile legame e richiamo che connette, riverbera, rinvia, viene e va, libera e soffoca, ma a cui si ritorna, sempre e comunque. Il risultato è una pellicola che, pur incespicando in tutti i vizi tipici degli esordi e degli adattamenti troppo ossequiosi, ha tutte le caratteristiche del battesimo del fuoco di una nuova, grande autrice del cinema statunitense. Una di queste, forse la più evidente, risiede senza dubbio nel modo in cui quest'ultima riesce a dirigere e a far esprimere i propri interpreti, di cui coglie ed inquadra bene l’immagine e l’immaginario, che poi ribalta con piccole aggiunte o modificazioni inaspettate all’unico fine di destabilizzare e giocare con lo spettatore, farlo sentire indifeso ed esposto alle intenzioni, all’azione rischiosa e al potere seduttivo del mezzo cinematografico.
Leda (come quella del mito greco) è una professoressa universitaria di letteratura comparata e nota traduttrice che decide di passare le proprie vacanze estive in una piccola cittadina sulla costa greca. Nonostante sia lì per rilassarsi e godersi qualche giorno di meritato riposo, in metà delle sue valigie non ha altro che libri. Gran parte delle sue giornate in spiaggia le passa infatti a leggere, annotare, scarabocchiare su dei pezzi di carta. Già solo con un fugace sguardo, è evidente che, in quell’ambiente, lei è quasi un elemento alieno, dissonante, discrepante. Cosa che quest’ultima non fa che mettere in evidenza con un atteggiamento evidentemente snob, intollerante, intellettuale, altero ed altezzoso.
Un giorno però, mentre sta godendosi, come sempre, la pace e la tranquillità di questo suo piccolo ed etereo angolo di paradiso, fa la sua comparsa una famiglia coatta, rumorosa, invadente, presuntuosa e arrogante, i cui strepiti e fare tronfio infastidiscono profondamente Leda. Ciò nonostante, l’attenzione e lo sguardo di quest’ultima vengono rapiti da Nina, uno dei componenti di questa famiglia di coatti tzigani, giovane madre estremamente provocante, sensuale, lasciva, dark, fatale, che le fa riaffiorare alla mente i ricordi di quando anch’ella era una giovane madre bipolare, problematica, sciancata, ma anche avida, vogliosa, ambiziosa, appassionata delle poesie di Auden, desiderosa di farsi un nome in un ambiente accademico naturalmente fallocentrico.
Attraverso un silenzioso, intenso, finanche pericoloso ed impudico gioco di sguardi, Leda si ritrova così a riflettere su sé stessa, sul proprio passato, sul proprio ruolo di madre, talora assente e davvero crudele, e sullo stesso concetto di maternità come inscindibile legame e richiamo che connette, riverbera, rinvia, viene e va, libera e soffoca, ma a cui si ritorna, sempre e comunque.
La figlia oscura, opera prima scritta e diretta dall’attrice Maggie Gyllenhaal (sorella del noto Jake), traduce in immagini e disloca geograficamente e culturalmente (dalla costa ionica ci si sposta in Grecia e, di conseguenza, il contesto autoctono napoletano si trasforma in un contesto vacanziero esotico di chiara estrazione angloamericana) il terzo romanzo dell’altrettanto oscura e sfuggente Elena Ferrante, la cui produzione, negli ultimi anni, e soprattutto oltreoceano, è oggetto di una vera e propria fever. Il risultato è una pellicola che, pur incespicando in tutti i vizi tipici degli esordi, ha tutte le caratteristiche del battesimo del fuoco di una nuova, grande autrice (tra le poche e preziose) del cinema statunitense.
Una di queste, forse la più evidente, risiede senza dubbio nel modo in cui la Gyllenhaal riesce a dirigere e a far esprimere i propri interpreti, di cui coglie ed inquadra bene l’immagine e l’immaginario, che poi ribalta con piccole aggiunte o modificazioni inaspettate all’unico fine di destabilizzare, provocare, mettere in crisi, giocare con lo spettatore, farlo sentire indifeso ed esposto alle intenzioni, all’azione rischiosa e al potere seduttivo del mezzo cinematografico.
Questo discorso estremamente duttile e malleabile lo si potrebbe applicare ad ognuno dei volti coinvolti: da un Ed Harris come sempre allarmante, ma poi quasi tenero, ad una Alba Rohrwacher (la quota italiana di questa ossequiosa appropriazione hollywoodiana del grande romanzo italiano d’oggi) diafana e serafica, che nasconde però un lato indocile, penetrante, sedizioso, destabilizzante. Per non parlare poi di una Dakota Johnson, al contempo, bambina e minorenne, e corpo eccitante, lubrico, graffiante, pruriginoso, o ancora di una Jessie Buckley tanto vergine e fine, quanto viziosa e adultera. Ciò detto, l’attrice che però, meglio di tutti, riesce a conferire a La figlia oscura quello spazio d’ombra, quello scarto impenetrabile, ambiguo, enigmatico, ammaliante, oscuro per l’appunto, necessario e vitale è una Olivia Colman di cui continuano a sorprendere la versatilità, la capacità camaleontica sempre in funzione del film e quella sua espressività minimale ma intensa, significativa ed eloquente.
Oltre ad essere già uno dei personaggi più affascinanti ed indecifrabili di quest'anno, la sua Leda Caruso è l’elemento su cui la Gyllenhaal scommette la riuscita del film. Difatti, è quantomeno improbabile pensare a La figlia oscura senza pensare contemporaneamente alla Colman e alla sua indubbia padronanza scenica, che per giunta sono forse gli unici due componenti a persuadere e a mantenere viva l’attenzione dello spettatore nei momenti in cui, viceversa, la pellicola sembra far di tutto per auto sabotarsi.
Di questo, oltre che alla stessa attrice, bisogna innanzitutto rendere conto alla regista e al procedimento con cui, sin dalle prime sequenze, costruisce, ribadisce, avvalora e rafforza la relazione ed una sinergia tra interprete e spettatore. Chi guarda si abbandonerà e lascerà dunque cullare dalla semplice, frivola ed inconcludente situazione vacanziera di natura esotica che domina i momenti iniziali dell’opera, e seguirà così da vicino l’otium di questa ermetica signora di mezza età - sulla falsa riga della posizione dell’asfissiante macchina da presa orchestrata da Hélène Louvart, ravvicinatissima, quasi endogena agli eventi -, che arriverà a provare lo stesso fastidio piccato, lo stesso senso di invadenza, la stessa irritazione di Leda, quando quell’equilibrio inconfessato viene rotto (dalla famiglia coatta), quando il citato vuoto camusiano deve essere riempito, il vero sé iniziare a venire galla e il dramma memoriale, riflessivo e riflettente, di confronto che diventa affronto, di psicoanalisi che diventa autoanalisi, originariamente concertato da Ferrante, pretendere a tutti i costi il palcoscenico.
Paradossalmente, è infatti proprio nei momenti in cui si prende i propri spazi al di là della Ferrante, al di là di un utilizzo ridondante, stucchevole, talora scolastico della metafisica, della metafora, del parallelismo, così come dello stesso linguaggio cinematografico [si pensi all'uso del montaggio alternato, a quello estenuante del primo, se non primissimo piano o ancora ad una tensione che, quando c’è, è ben retta e puntuta, spesso con esiti inebrianti, ma che, una volta che il passato di Leda è sempre più istigato, si sfilaccia rovinosamente], focalizzandosi invece su sé stesso, sugli inebrianti momenti d’ozio e spaesamento e sull’incongruità del personaggio di Olivia Colman in un ambiente sì aperto e ventilato, ma che la cinepresa rende illeggibile, sfuggente, intricato, labirintico, tendenzioso, cerebrale, ché La figlia oscura raggiunge le proprie vette, dimostrando peraltro di avere davvero qualcosa da dire e da raccontare, al di fuori dalle pagine del romanzo.
Tutto il resto è un'operazione di adattamento sommariamente buona, che ha senz’altro dalla sua una fascinosa vis ipnotica e perturbante, ma che, per chi scrive, manca di una capacità di rielaborazione e traduzione che vada più in là del mero cambio di ambientazione. Forse, come ci suggerisce la stessa Gyllenhaal nel finale, tagliare il cordone materno è (per lei) davvero impossibile.
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