TITOLO ORIGINALE: Shang-Chi and the Legend of the Ten Rings
USCITA ITALIA: 1 settembre 2021
USCITA USA: 3 settembre 2021
REGIA: Destin Daniel Cretton
SCENEGGIATURA: David Callaham, Destin Daniel Cretton
GENERE: azione, avventura, fantastico, fantascienza
Primo cinefumetto che vede come protagonista un eroe asiatico, Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli di Destin Daniel Cretton (Il diritto di opporsi) continua il discorso di riscoperta delle origini e riunione con i propri familiari da parte di un supereroe già formato, inaugurato con Black Widow. Purtroppo, tolto un primo segmento che culmina con una delle sequenze action meglio dirette del Marvel Cinematic Universe, man mano che si avvicina all'epilogo, la pellicola di Cretton inizia ad accantonare la trattazione di tematiche potenzialmente interessanti, e a deprezzare un racconto che punta al fantasy, al dramma familiare e alla scoperta di un mondo del tutto nuovo, dove però nessuna componente spicca per particolare originalità o travolgente fascino.
Finora la fase 4 cinematografica del Marvel Cinematic Universe ha visto protagonisti degli eroi o, meglio, dei supereroi già evoluti che riscoprono le proprie origini, si ricollegano con le proprie radici e ritrovano, nel bene o nel male, i propri familiari, i quali tendenzialmente non sono poi così soddisfatti o comunque criticano il modello di (super)vita retto, solitario e, soprattutto, americano che questi hanno abbracciato.
Basti pensare a Black Widow di Cate Shortland, film che inaugura questa nuova tranche di cinecomics Marvel e che, su questo nucleo argomentativo, fonda gran parte del proprio racconto. Nel film infatti, la nostra amata Natasha Romanoff è costretta, per una serie di motivi, a riappacificarsi e fare squadra con una famiglia (finta ed artefatta) che è la principale causa principale della propria “rinascita” nei panni della Vedova Nera, e che non perde tempo a rimproverarla di essere passata dalla parte dei buoni, di essere entrata a far parte della famiglia americana per eccellenza (gli Avengers) e dunque di averli traditi.
Ebbene, anche in Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli - seconda iterazione di questa quarta fase - dell’hawaiano Destin Daniel Cretton (di cui ricordiamo il più che buono Il diritto di opporsi), la famiglia che giudica, il ritorno e la riscoperta delle proprie radici e il conflitto con il proprio passato fungono da asse cardinale per un testo che, oltre a fondere il wuxia con l’action metropolitano, il film di arti marziali, la commedia e il fantasy in senso stretto, mescola una tipica trama supereroistica di origini (anche se, come scritto sopra, il film presenta un supereroe già pienamente formato, un dettaglio dannoso per l’affabulazione) con quella che sembrerebbe essere una flebile storia di immigrazione ed integrazione ed un incontro/scontro tra vecchie (ligie al retaggio della madrepatria) e nuove generazioni (più americane che cinesi, in questo caso specifico).
Film di primati (primo cinefumetto che vede come protagonista un eroe asiatico, cinese per la precisione; e primo film Marvel il cui titolo corrisponde al nome dell’”uomo dietro la maschera”), Shang-Chi e la leggenda dei Dieci Anelli segue le orme, manco a dirlo, di Shang-Chi (“per gli amici” Sean), ragazzo di San Francisco dal passato (a noi, ma non a lui) misterioso, che lavora come parcheggiatore di auto, insieme all'amica Katy, figlia di immigrati cinesi. Quest’ultima, come lui, vive alla giornata, non ha grandi piani o aspettative per il futuro, il che la porta a scontrarsi spesso con la madre, esigente, premurosa, nonché ligia osservante delle tradizioni.
Un giorno però, sul tragitto per il lavoro, i due vengono attaccati da alcuni membri dei cosiddetti Dieci Anelli, antica setta che seminava terrore e caos già nella Cina pre-imperiale, convertitasi oggi in un’organizzazione terroristica tra le più temute ed influenti del pianeta. Purtroppo, nonostante un lungo tentativo di difesa - durante il quale Shang-Chi mostra a Katy abilità inimmaginabili -, questi ultimi riescono ad impossessarsi del ciondolo del ragazzo (regalatogli tempo addietro dalla madre), il quale è costretto a raccontare all’amica tutti i dettagli riguardanti il proprio passato e le proprie origini.
Egli è infatti uno dei due figli di Wenwu, capo proprio di quei Dieci Anelli che li hanno attaccati, divenuto immortale e potentissimo grazie al potere di questi misteriosi manufatti ("gli anelli del potere", per l’appunto); e di Jiang Li, una sorta di guerriera sacerdotessa del leggendario villaggio cinese di Ta-Lo, l’unica persona che mai sia riuscita a sconfiggere il grande Wenwu, che, proprio per questo motivo, se ne infatua e decide di sposarla.
A seguito della morte della madre (uccisa da una gang criminale che aveva un conto in sospeso con il capo dei Dieci Anelli), Shang-Chi viene addestrato dal padre all’arte del combattimento e, a soli 14 anni, diventa un assassino tra i più talentuosi dell’organizzazione. Inviato ad uccidere il responsabile della morte della madre da Wenwu, questi decide di sottrarsi al suo dominio e fuggire negli Stati Uniti, più precisamente a San Francisco, da dove ha poi inizio il nostro racconto.
Intenzionato a scoprire la verità sull’attacco dei Dieci Anelli e dunque del padre e a proteggere la sorella (la quale porta un ciondolo identico al suo), il ragazzo decide di imbarcarsi in un viaggio che lo riporterà, come suggerito sopra, a contatto con la propria famiglia, il proprio passato e le stesse origini dei suoi incredibili poteri.
Regista e autore principalmente di film di denuncia, talora basati su storie vere e sempre socialmente impegnati, Destin Daniel Cretton parrebbe la scelta meno ovvia ed indicata (ma proprio per questo più potenzialmente interessante) per la regia di un cinefumetto e per tradurre sul grande schermo le vicende del supereroe che Steve Englehart e Jim Starlin crearono negli anni '70 sulla scia dell’enorme successo dei film di arti marziali come quelli con protagonista Bruce Lee (che l’eroe cartaceo ricordava pedissequamente nella fisionomia).
Ciò nonostante, il prologo de La leggenda dei Dieci Anelli è, in parole povere, tutto quello che il remake live action di Mulan avrebbe potuto e dovuto essere, ma che, come ben sappiamo, non è stato. Un hollywuxia come Dio comanda che, seppur nella convenzionalità di narrazione e messa in scena, introduce bene lo spettatore nel mondo e nel racconto di Shang-Chi - che, prendere o lasciare, spesso sembrano quasi esistere a sé stante e al di fuori dei 24 film precedenti.
Successivamente, Cretton delizia lo spettatore con un segmento da cinefumetto metropolitano in pieno stile Marvel, ornato della solita ironia scanzonata ed immediata, caratterizzato da un ritmo sostenuto e fotografato dall’habitué Bill Pope in maniera estremamente coerente e scrupolosa. Qui inoltre, la sceneggiatura (co-scritta da Cretton assieme a David “Wonder Woman 1984” Callaham) riesce ad introdurre, tra le pieghe di una commedia scanzonata, piaciona e più matura del solito (sia negli scambi di battute, sia in ciò che viene rappresentato) che basa tutto sulla sintonia dei propri interpreti; i motivi cardine della pellicola.
Motivi che Cretton, in seguito, concretizzerà anche in inquadrature emblematiche, seppur concettualmente e formalmente elementari, in cui appunto elementi moderni e tecnologici (come un auto) ed altri invece appartenenti al mito e alla tradizione (una foresta incantata che fa da portale per un mondo più prettamente fantasy, con tanto di creature leggendarie) arrivano a coabitare e a contaminarsi a vicenda.
Questa prima parte di racconto culmina infine con una delle sequenze action migliori degli ultimi cinque anni di Marvel Cinematic Universe. Il riferimento è ovviamente al combattimento all’interno dell’autobus già largamente anticipato da teaser e trailer vari: poco meno di dieci minuti in cui ogni anima produttiva del film (dalla regia al montaggio, dalla fotografia agli effetti, dalla sceneggiatura alle superbe coreografie) contribuisce a confezionare un ottimo momento di cinema d’intrattenimento, ravvivato e cadenzato da un lato comico (la scoperta delle super abilità di Shang-Chi da parte di Katy) che qui si esprime nella maniera più fresca e vivace.
Superata questa fantastica prima mezz’ora (su due ore di racconto, che più ci si avvicina al finale, più sembrano tirate per le lunghe), Shang-Chi rallenta tutto e ambisce invano a qualcosa di più alto. Infatti, con il trasferimento su suolo cinese e la riunione prima con la sorella, poi con il padre - quest’ultimo anche unico, vero villain -, la pellicola limita i combattimenti corpo a corpo, abbandona quel suo essere scherzoso ma adulto, puntando verso un fantasy ed un dramma familiare più abbottonati, nonché paralleli alla scoperta (ahinoi, tutt’altro che paragonabile a quanto intessuto da Ryan Coogler in Black Panther) di un nuovo mondo, con i suoi miti e i suoi abitanti.
Purtroppo, se da un lato, Shang-Chi ha quindi il pregio di voler camminare sulle proprie gambe, ripudiando in un certo senso (ma mai fino in fondo, come visto dai trailer) i collegamenti con le macro- e micro-trame, i pilastri del Marvel Cinematic Universe, così come la metabolizzazione di quanto avvenuto in Infinity War ed Endgame, dall’altro però non dispone degli strumenti necessari per poter emanciparsi ed affermarsi rispetto al marasma di correnti e visioni che sussistono dentro e fuori l’universo di mamma Disney.
Ecco quindi che la sceneggiatura e la messa in scena di Cretton & co. diventano una sequela di occasioni perse, banalità, squilibri e, soprattutto, luoghi comuni. Il che non è proprio quanto di più indicato per una pellicola che si propone di parlare anche di questioni contingenti, quando non ancora soltanto accennate all’interno dell’attuale panorama hollywoodiano. Perché sì, si parla moltissimo di diritti per le minoranze, di lotta al razzismo e alla discriminazione, ma (statisticamente parlando) questo discorso concerne principalmente la “fetta afroamericana”, a differenza quindi degli asiatici, che, nonostante qualche caso isolato (vedasi Minari), non godono ancora di una rappresentazione/rappresentanza di livello e di grande importanza mediatica contestualmente all’ambito cinematografico, specie a quello mainstream.
In tal senso invece, Cretton abbandona ogni spunto riflessivo e qualsivoglia trattazione di tutte quelle tematiche subliminalmente accennate nella prima parte, deliziandoci, come se non bastasse, con un mondo, quello di Ta-Lo, che - oltre ad essere più simile ad un villaggio vacanze, che ad un vasto e antico mondo incantato - non è altro che un calderone, fatto su misura per l’americano medio, di stereotipi, influenze e riferimenti legati al mondo orientale.
Ogni oggetto, costume, arma, creatura, architettura, ambiente che vediamo su schermo corrisponde infatti più ad una visione costruita e da cartolina dell’ecosistema asiatico, che non alla creazione (magari attraverso una rielaborazione) di un qualcosa di vero, vivo ed appassionante, o di omogeneo, (relativamente) originale e realmente approfondito.
Ancor prima del mondo diegetico, sono però il racconto e tutte le sue principali componenti ad essere lese maggiormente da questa superficialità e prevedibilità di intenti e sviluppi. Una volta scoperte le ragioni del villain e il perno emotivo e narrativo attorno cui si sviluppa il cuore della vicenda, Shang-Chi procede e si conclude su lidi del tutto scontati ed inerti, ponendo in secondo piano tutto ciò che di buono era riuscito ad impostare fino ad allora ed introducendo con svogliatezza ed apatia invece tutto quello che, di nuovo e potenzialmente intrigante, fa la sua comparsa sul grande schermo.
Pertanto, a partire dalla caratterizzazione degli eroi (degli antagonisti non parliamo nemmeno), tutto si appiattisce irrevocabilmente. Il conflitto è pressoché inesistente, la tensione, l’affabulazione ed una potenziale catarsi pure, i rapporti e le interazioni vengono limitati al minimo indispensabile, la regia non riesce più a superare l’energia di quel combattimento in autobus (tutt’al più non riesce a reggere l’entrata in scena di kaiju e mostri mitologici), il carisma del protagonista (complice un monotono Simu Liu) raggiunge i minimi storici (e riteniamo del tutto inaccettabile che a trascinare e ridare vitalità alla vicenda sia solo il personaggio di Katy, interpretato da una Awkwafina assolutamente eclettica), e quello che avrebbe dovuto essere un conflitto di proporzioni ciclopiche finisce per somigliare più ad una scaramuccia tra parenti.
Il tutto, coronato infine dal desiderio (da parte di noi spettatori, s’intende) di fare ritorno al più presto in quella San Francisco che tanto era riuscita a catturarci e a farci credere, per un attimo, in un altro Shang-Chi: quello che vediamo poco prima e durante titoli di coda. Uno Shang-Chi forse più “istituzionale” ed inquadrato nel grande disegno Marvel, ma, al tempo stesso, più consapevole dei limiti di una visione del cinefumetto sì “libera” (solo dal disegno, non certo dal già visto, né tantomeno da un preciso fine commerciale: ritornare in auge nel mercato cinese), ma tutto fuorché autosufficiente. Un prodotto che forse avrebbe divertito, intrattenuto e soddisfatto maggiormente chi scrive, che ora soffre invece nel decretare uno dei più grandi fallimenti del Marvel Cinematic Universe dai tempi di Thor: The Dark World.
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