TITOLO ORIGINALE: Minari
USCITA ITALIA: 26 aprile 2021
USCITA USA: 11 dicembre 2020
REGIA: Lee Isaac Chung
SCENEGGIATURA: Lee Isaac Chung
GENERE: drammatico
DISPONIBILE ANCHE SU: Sky Cinema/NOW TV
PREMI: OSCAR alla MIGLIORE ATTRICE NON PROTAGONISTA; GOLDEN GLOBE come MIGLIOR FILM STRANIERO
Negli anni '80, una famiglia originaria della Sud Corea si trasferisce nell'Arkansas rurale, dove il padre, Jacob, vuole fondare una fattoria di prodotti sudcoreani malgrado le perplessità e titubanze della moglie Monica. Una serie di difficoltà e di conflitti inter genitoriali costringono i due a chiamare in loro aiuto - dalla Corea - nonna Soon-ja, che stringe un forte legame con David, il figlio più piccolo della coppia.
Un Lee Isaac Chung al suo quarto lungometraggio dirige un dramma familiare, vincitore di un Oscar e di un Golden Globe, dai toni e temi universali, figlio del successo di Parasite agli Academy Awards (e della conseguente riscoperta ed incanto quasi esotico degli statunitensi per il cinema dell’est Asia) e, al contrario delle apparenze, produttivamente del tutto americano. Un'opera, Minari, dall’aspetto invitante e dal sapore delizioso (durante la visione), ma dal retrogusto deludente, anonimo e perciò facilmente dimenticabile. Infatti, ad intenzioni pregevoli, sotto testi stimolanti e ad un modo innovativo di rappresentare e raccontare la minoranza - per cui potrebbe costituire, ora come ora, l’unica via di integrazione nel discorso di un cinema autosufficiente rispetto alla trattazione di questioni razziali e discriminatorie - corrispondono un intreccio che procede per passaggi obbligati ed una messa in scena fiacca e sommariamente tiepida. Il risultato? Un film vittima del compromesso che rimane a metà.
Un film stimolante per la rappresentazione delle minoranze, ma eccessivamente conforme dal punto di vista filmico. E’ forse questa la migliore definizione che chi scrive possa trovare a Minari di Lee Isaac Chung, dramma familiare d’immigrazione, vincitore, tra i tanti, del Gran premio della giuria: US Dramatic al Sundance Film Festival, del Golden Globe come miglior film straniero e del premio Oscar (su sei nomination) per la migliore attrice non protagonista. Una pellicola, Minari, peculiare ed interessante fin dalle sue origini teoriche e produttive.
Inteso come raccolta autobiografica delle memorie d’infanzia del suo regista e sceneggiatore - sudcoreano di origini, ma nato e cresciuto nell’Arkansas rurale (che è poi la location principale di Minari) e quindi americanissimo -, il film nasce sulla scia del trionfo, agli scorsi Academy Awards, del Parasite di Bong Joon-ho e della conseguente riscoperta e fascino, da parte degli americani, nei riguardi del cinema asiatico, in particolare di quello sudcoreano.
E “figlio dell’incanto quasi esotico degli statunitensi per il cinema dell’est Asia” è probabilmente la messa a fuoco più concreta e precisa delle premesse realizzative di Minari. Infatti, a differenza di come presentato ed oggettivato in termini commerciali (vale a dire come una sorta di erede spirituale del capolavoro di Joon-ho), la pellicola di Lee Isaac Chung è un prodotto del tutto americano. Dal racconto in sé per sé alla mitologia che mette in gioco e osserva, dalla produzione (la Plan B Entertainment di Brad Pitt) alla distribuzione nazionale (l’indipendente A24).Detto ciò, vi starete chiedendo da dove l’opera di Chung prenda un titolo così enigmatico ma, al tempo stesso e col senno di poi, significativo. Detto fatto! Minari è il nome di una pianta nativa dell’Asia orientale, anche nota come prezzemolo giapponese e simile, per gusto e sapore, al nostrano crescione, che ha il potere quasi miracoloso di ripulire le acque e la terra dove viene piantato, nonché il vantaggio di crescere un po’ ovunque e su qualsiasi tipo di terreno. Pure in terreni limosi e fangosi… come quelli che circondano la casa della famiglia Yi, originaria del Sud Corea ma emigrata da tempo negli Stati Uniti.
Il viaggio dello spettatore all’interno di Minari ha però inizio quando questi si trasferiscono, dalla popolosa e ridente California, al ben più selvatico e campestre Arkansas, dove Jacob, il padre (uno Steven Yeun immeritatamente candidato all'Oscar), ha intenzione di fondare una fattoria di colture e prodotti interamente sudcoreani da rivendere al sempre crescente numero di connazionali trapiantati nel paese delle opportunità. Tutto questo, malgrado le titubanze e le perplessità della moglie Monica (Han Ye-ri), spaventata da ciò che uno stile di vita così solitario (per non dire individualista), naturale e rustico potrebbe comportare per la crescita dei propri figli e per la salute e il benestare delle risorse economiche della famiglia e del piccolo David (la baby-rivelazione Alan Kim), affetto da una grave malformazione cardiaca che non gli permette una vita simile a quella dI tanti suoi coetanei.
Una serie di conflitti inter genitoriali e di difficoltà tipiche dell’adattamento ad una nuova condizione di vita costringono Jacob e Monica a chiamare in loro aiuto - dalla Corea - nonna Soon-ja (l’ora premio Oscar Yoon Yeo-jeong), con cui l’indomabile David stringerà un rapporto fatto di curiosità, ostilità iniziali, ma soprattutto grande affetto.
Ed è proprio nella caratterizzazione di questi ultimi due, nella costruzione del loro legame e nei vari sottotesti e sottintesi generati di conseguenza che, secondo chi scrive, risiede il cuore dell’opera di Lee Isaac Chung. Infatti, superato il velo da classico (a volte, anche troppo) dramma familiare con accezione migratoria, ciò di cui parla davvero Minari è l’incontro (più) e successivo scontro (meno) tra due generazioni aventi le stesse origini, ma plasmate in due cose fondamentalmente opposte dalle proprie esperienze di vita e dalla loro provenienza. Da un lato, abbiamo quindi l’ultima generazione, quella a cui appartiene David - indiscusso protagonista del film, nonché ideale ed evidente alter ego fanciullesco del regista -; quella che veste (nel vero senso del termine) già gli stivali dell’american way of life.
Dall’altro, la vecchia generazione, quella di Soon-ja, che arriva dal nulla, da un momento all’altro e da un paese che noi spettatori non vediamo poiché sconosciuto alla nuova (a David), e caratterizzata da un alone di enigmaticità ed ermetismo. Quella che “puzza di Corea” e "non sembra una vera nonna”, quanto piuttosto una fattucchiera dai mille intrugli ed incantesimi.
Difatti, è proprio l’anziana Soon-ja che porta da quella madrepatria invisibile e sconosciuta, insegna al nipotino le proprietà e pianta, nei dintorni di casa Yi (molto più vicina ad un prefabbricato su ruote), i semi del minari. Che, all’interno e in funzione del racconto di Lee Isaac Chung, assume molteplici significanti.
Come riportato sopra infatti, stiamo parlando di una coltura estremamente resiliente e dalle innate capacità di adattamento e che, pertanto, incoraggia un immediato nesso logico con la famiglia Yi e il suo tentativo di inclusione, acclimatazione ed ascesa socio-economica nel contesto americano degli anni ‘80 (che, a dirla tutta, purtroppo è ben poco delineato).
Inoltre, la pianta è apprezzata per il suo sapore delicato e il suo retrogusto pepato e conosciuta principalmente per i suoi miracolosi poteri geo-curativi. E’ dunque immediato il collegamento con la stessa Soon-ja, vecchietta pungente ed esplicita - specie quando si diverte a prendere in giro il nipote - ma in fondo amabile e premurosa, quanto risolutiva e necessaria per riequilibrare la situazione della sua famiglia (in particolar modo, per le azioni, inizialmente incomprensibili, che compie e il ruolo che gioca, assorbendo il male e garantendo il bene e il “vissero per sempre felici e contenti”, negli ultimi minuti della pellicola).
Rispetto a quanto sopra, appare dunque chiaro come Minari di Lee Isaac Chung rispetta quella peculiarità ed interesse espressi e rilevabili fin dai suoi presupposti produttivi, mostrandosi, a differenza di quello che ci aspetterebbe alla lettura della sinossi, nelle fattezze non tanto di un racconto di immigrazione, inseguimento del sogno americano, discriminazione e volontà di accettazione (perché, ricordiamo, “gli americani credono a così tante sciocchezze”) realistico o politico, quanto piuttosto di un romanzo di formazione, di incontro e scontro interno, interfamiliare ed intergenerazionale, ambientato in un’America stregata che fa perdere la memoria e lobotomizza gli adulti sudcoreani - pervasi dalla dottrina del capitalismo: Jacob dall’ideologia del self-made man, Monica dalla sua concorrenzialità tipica; che gli fa perdere il contatto con la famiglia (chi più, chi meno) - e in cui servirà l’aiuto di una figura (la nonna) altrettanto mistica per riportare il tutto ad un equilibrio ideale, situato proprio nel mezzo tra tradizione ed inclusione.
Tale atipicità di presupposti (tuttavia, non sempre foriera di positività ed incisività) corrisponde, a sua volta, ad una particolarità - che si converte in innovazione - di racconto, contesto, rappresentazione della minoranza e concezione di ciò che, dopotutto, è Minari. Vale a dire una pellicola che, mediante una macchina da presa posta quasi sempre ad altezza bambino e facendo leva sull’escamotage del ricordo d’infanzia e di memorie perciò naturalmente e scientificamente imperfette, lacunose, frammentarie o traviate; pone una famiglia sudcoreana in uno scenario universale, talora quasi utopico ed immaginifico, ma ciononostante interpretabile da chiunque, indipendentemente da etnia o provenienza.
Un’operazione, quella di Lee Isaac Chung, che, allo stato attuale, potrebbe costituire un ottimo punto di partenza per un nuovo filone filmico, in quanto unico modo per integrare davvero le minoranze e la loro rappresentazione nel discorso di un cinema propriamente slegato ed autosufficiente rispetto alla sola trattazione di questioni razziali e discriminatorie per vie drammaturgiche.
Ecco quindi che torna utile il rapporto tra David (a cui possiamo correlare anche genitori e sorella) e la nonna Soon-ja, in qualità di attuazione allegorica del primo contatto tra un cinema più tradizionale e questo nuovo ibrido, a metà tra integrazione e convenzione, che, con Minari, muove i suoi primi passi. Così come il piccolo Yi e la sua famiglia necessitano dell’azione di una figura mistica, psicologicamente ermetica e appartenente ad una tradizione antica - la nonna - e della pianta che questa figura porta con sé - il minari - per superare i problemi e mirare al futuro, questo nuovo modo di pensare il cinema di minoranza (ora veramente onnicomprensivo ed internazionale) ha bisogno della spiritualità, del folclore e di uno stile prettamente coreani (oltre che di una nota star dell’est Asia, Youn Yuh-jung per l’appunto) per nobilitarsi presso il (grande) pubblico.
Certo, se l’intreccio in sé per sé e la messa in scena della pellicola fossero più stimolanti ed intensi di questi sottotesti e sottintesi - complementari il senso generale del testo ma pur sempre derivati - il nostro giudizio finale e complessivo sarebbe sicuramente migliore.
Purtroppo per lui (e per noi spettatori), a cotanta ispirazione e pregio d’intenti corrispondono una regia funzionale al racconto, particolarmente focalizzata nell’intercettazione dell’espressività degli attori (soprattutto del piccolo e tenero Alan Kim) ma sommariamente ordinaria, una fotografia dolciastra, vibrante e sudaticcia che ben si amalgama con ambientazione e toni, una colonna sonora non particolarmente entusiasmante, un montaggio elementare, manchevole di battito e di una visione capillare ben precisa - all’infuori di una proposizione quasi episodica e giornaliera degli eventi -, ed un racconto che, eccezion fatta per quanto sopra, procede per passaggi obbligati ed artificiosi [solo all’incontro e rincontro con il personaggio di David ritrova spontaneità ed ironia], usufruendo della forma autobiografica per indulgere in scelte discutibili e controproducenti: su tutte, l’accantonamento di un eventuale approfondimento della realtà socio-politico-culturale dell’Arkansas anni ‘80.
Se avesse unito a propositi nobili e ragguardevoli una sostanziosità filmica più coinvolta, genuina e manifesta, Minari di Lee Isaac Chung sarebbe stato il capolavoro da molti professato. Quella che si presenta ai nostri occhi è invece una pellicola figlia del compromesso che rimane tristemente a metà tra un nuovo modo di rappresentazione e racconto della minoranza ed un’attuazione fiacca e abbastanza tiepida, tra sottotesti entusiasmanti e ricchi ed un intreccio che sa di già visto, tra indubbi pregi e dolorosi difetti. Un’opera dall’aspetto invitante e dal sapore delizioso (durante la visione), ma dal retrogusto, ahinoi, deludente, anonimo e perciò facilmente dimenticabile.
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