TITOLO ORIGINALE: Just Mercy
USCITA ITALIA: 30 gennaio 2020
USCITA USA: 25 Dicembre 2019
REGIA: Destin Daniel Cretton
SCENEGGIATURA: Destin Daniel Cretton, Andrew Lanham
GENERE: drammatico
Destin Daniel Cretton dirige un film biografico sul vero caso e sulla storia vera di Walter McMillian, uomo di colore, condannato, sulla base di falsa testimonianza, alla pena di morte, e Bryan Stevenson, avvocato afro-americano, neo-laureato che farà di tutto pur di vedere scagionato il proprio cliente, scontrandosi contro pregiudizi e radicalismi. Cretton costruisce un buon film d’inchiesta, consapevole anche se non originalissimo e rende giustizia ad un noto caso giudiziario della storia degli Stati Uniti
“La tua vita ha ancora un valore e io farò tutto il possibile perché non te la portino via”. Monroeville. 1986. Walter McMillian, afro-americano rispettabile, con una ditta in proprio ed una bella famiglia, di ritorno a casa, dopo una giornata lavorativa, viene fermato ed arrestato dallo sceriffo, con l’accusa di aver ucciso brutalmente una ragazza bianca di 18 anni, Ronda Morrison. A fare il suo nome è stato Ralph Myers, criminale condannato al braccio della morte che, sotto il pugno ferreo e pressante della polizia, ha deciso di fare falsa testimonianza per un proprio tornaconto personale. McMillian, un mese prima del processo, viene così incarcerato nel braccio della morte e, ormai, l’esito dell’udienza è sancito. Walter, chiamato da tutti Johnny D, viene condannato a morte per elettrocuzione. Facciamo però un salto di tre anni. Nella cittadina di Monreoville, si trasferisce, per motivi lavorativi, Bryan Stevenson, avvocato di colore, neo-laureato in legge. In Alabama, difatti, il giovane avvocato ha fondato, insieme alla collega Eva Ansley, l’Equal Justice Initiative, una società che si impegna nel difendere i condannati a morte che non possono permettersi una difesa legale valida. L’avvocato del Delaware inizia, quindi, ad interessarsi al caso in questione e scopre che il verdetto non è stato altro che il frutto di una falsa testimonianza e di un qualunquismo inenarrabile da parte della macchina della giustizia locale, fondata su razzismo, pregiudizio e stereotipo. McMillian è stato condannato, perciò, sulla base di una sorta di processo sommario, atto soltanto a trovare un plausibile colpevole del reato, non il vero assassino. Da questo incipit, ingrana la pellicola di Destin Daniel Cretton, Il diritto di opporsi (in originale Just Mercy), un film d’inchiesta consapevole e conscio dei propri limiti e delle proprie potenzialità, costruendo una vicenda che, seppur abbastanza classica e tradizionale, lascia comunque un segno nella mente e nell’anima di chi la guarda.
Cineasta dietro la realizzazione de Il castello di vetro, film drammatico del 2017 con Brie Larson, Naomi Watts e Woody Harrelson; Destin David Cretton torna, dopo poco più di due anni, alla regia, con questo Il diritto di opporsi. Nella direzione di questo Just Mercy, si nota incredibilmente la crescita e il miglioramento tecnico subito dalla sua regia in questi anni. Cretton traspone su schermo, in maniera rigorosa e tradizionale, una vicenda che, all’epoca, fece molto scalpore negli Stati Uniti, tanto da guadagnarsi un posto nel celebre programma televisivo di inchiesta e reportage, 60 Minutes, citato, recentemente, anche da Clint Eastwood, nella trattazione della storia vera dell’omonimo, in Richard Jewell – vicenda molto simile a quella della pellicola di Cretton, perché trattasi di un’ingiustizia. Con la sua direzione registica, Cretton rimane fermo su canoni e caratteri classici della macchina da presa e dell’inquadratura, non lanciandosi mai in movimenti di macchina arditi o azzardati, ma limitandosi a rappresentare, in maniera oggettiva e distaccata, la vicenda, come fosse un occhio esterno. Si lascia spazio agli attori di esprimersi da sé; ci si avvicina quasi alla regia da reportage, senza alcun coinvolgimento emotivo diretto. Possiamo affermare, quindi, che la regia passa abbastanza in secondo piano nello svolgersi del racconto, uscendo dalla tana soltanto in qualche momento particolarmente ricercato e curato esteticamente. Si possono citare, per esempio, un paio di campo contro campo, nei momenti di dialogo e confronto, ben congegnati e costruiti ed una regia ispirata – aiutata sicuramente dal montaggio – nelle sequenze del tribunale e in quelle nel carcere. Per quanto oggettivo e lontano dalla narrazione, Cretton dona e conferisce alle diverse sequenze presenti un senso di angoscia, ansia e claustrofobia crescente con primi e primissimi piani estremamente chiusi e scene in cui è sempre presente qualche elemento che riporta la mente, per un motivo o un altro, all’esito tragico che probabilmente avrà il caso McMillian.
Monroeville è la città in cui è ambientato il romanzo, divenuto ormai un classico della letteratura mondiale, Il buio oltre la siepe di Harper Lee. Il fatto che, nei primi minuti della pellicola, si citi in continuazione questa storia dimostra il livello di controsenso e di ipocrisia che aleggia nella comunità. Il libro di Lee tratta, infatti, la storia di un gruppo di adolescenti afro-americani accusati ingiustamente di stupro. Oltre ad essere un’anticipazione di ciò che è successo veramente nel caso di Johnny D, il riferimento al libro non fa altro che denotare che, nonostante esista una storia del genere – scritta negli anni 50 e pubblicata nel 1960 – in America vi siano ancora delle vicende e dei pregiudizi simili nei confronti di chi ha la pelle di un colore diverso dalla propria. Inoltre, il film risulta efficace ed utile in tempi come i nostri, in cui atteggiamenti e moti razziali sono tornati nuovamente alla ribalta. E non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi del globo, compreso il nostro. C’è da chiedersi se siano mai terminati o se cesseranno mai di esistere pensieri del genere. Una caratteristica sicuramente da premiare nella sceneggiatura de Il diritto di opporsi è l’immediatezza e la frenesia con cui procede la vicenda. Il prologo dura letteralmente dieci minuti e fin da subito si inizia a parlare del caso McMillian, di ciò che è successo a Johnny D. Quando, prima, citavo il fatto che la pellicola è conscia delle proprie potenzialità e di ciò che ha da offrire, intendevo proprio questo, proprio perché essa non presenta alcun momento riempitivo. Tutto serve ed è funzionale all’economia del prodotto finale, non ci sono fronzoli inutili e riempitivi, ogni singolo elemento è utile alla costruzione e al climax voluti dalla sceneggiatura – scritta a quattro mani da Cretton e Andrew Lanham. La scrittura del racconto rende giustizia alla figura dell’avvocato Bryan Stevenson – scrittore di Just Mercy: A Story of Justice and Redemption, opera da cui è tratta la pellicola -, divenuto, con il caso McMillian, uno dei rappresentanti nazionali della lotta legale e civile contro le ingiustizie ai danni di poveri e minoranze, di età e di razza. Stevenson, inoltre, ha aiutato un enorme quantità di persone, che non potevano permettersi una giusta difesa in tribunale, a scampare la pena di morte, patteggiando per pene più brevi e meno deleterie o, addirittura, facendo cadere tutte le accuse a loro carico. Diciamo, quindi, che l’avvocato Stevenson, in patria, gode di un elevato grado di reputazione e di importanza, in campo legale, e il film di Cretton, questo, lo sa benissimo.
Attraverso dialoghi, monologhi, dibattiti, confronti e discussioni, la sceneggiatura e, parallelamente, le interpretazioni delineano un personaggio tutto d’un pezzo, duro e puro, incorruttibile e completamente devoto alla sua vocazione. Forse, la pellicola eccede, per quanto riguarda questo livello quasi di santificazione, ma tenta di riprendere un po’ di quell’umanità che sembra mancarle con la bellissima e dolorosa sequenza della condanna di Herbert Richardson, veterano della guerra del Vietnam, condannato a morte per aver ordito l’esplosione di una bomba che uccise una bambina di 11 anni. Questo essere superpartes da parte del film, tuttavia, è comprensibile se si analizza il fine e lo scopo morale della narrazione, il messaggio del lungometraggio, anche se vi è una divisione fin troppo evidente e netta tra “buoni e cattivi”. Questi fattori, mancanti, di concretezza e fallibilità, vengono però immediatamente ripristinati con le svariate sequenze all’interno del tribunale, del braccio della morte e nella scoperta del background di Johnny D e della sua vita sentimentale. Gli oppositori, i bigotti, gli ingiusti – il procuratore distrettuale, lo sceriffo, in questo caso – vengono però ridotti a mere macchiette, a fare delle faccine di disappunto, privandoli di una costruzione d’ombra e contrasto plausibile ed efficace. Al contrario della figura di Stevenson, un contatto con la sottile linea che separa vita e morte, una vicinanza estremamente corporea e terrena con la mortalità risulta affidata al motivo e al motore della vicenda, Walter McMillian, interpretato da un ispiratissimo Jamie Foxx in una delle sue interpretazioni migliori dai tempi di Django: Unchained. Coinvolta, immedesimata, emozionale ed emozionante, espressiva e profondamente tragica, la recitazione di Foxx è ciò che fa la differenza nel film di Cretton. Al contrario, la prova attoriale di Michael B. Jordan appare estremamente marmorea, così come richiesto dalla sceneggiatura e dalla caratterizzazione del suo personaggio – fermo sulle proprie posizioni, immobile, impassibile, con qualche momento di scoraggiamento e di debolezza, ma, ad ogni modo, diretto e tenace. A chiudere il trio, Brie Larson in un ruolo un po’ sacrificato, di contorno, così come la sua interpretazione, estremamente risicata e dimenticabile. Peccato, perché la Larson con Room – grazie a cui ha vinto il premio Oscar – ha dimostrato di possedere un’innata dote attoriale, nonostante la sua minima espressività.
Seguono una serie di caratteristi, più o meno noti, come Tim Blake Nelson, Rob Morgan e Rafe Spall che, nonostante i grandi nomi presenti, si fanno notare e portano a casa alcune interpretazioni assolutamente riuscite – soprattutto quella di Morgan nei panni di Herbert Richardson. A completare il mosaico, costruito dalla componente tecnica della pellicola, una fotografia, targata Brett Pawlak – direttore della fotografia semi-sconosciuto – che svolge un lavoro egregio, giocando su sfumature e sul livello di realismo e drammatizzazione innata che le luci intra-diegetiche possono regalare. La cinematografia di Pawlak accresce, tra l’altro, la memorabilità di alcune sequenze, donando pathos e profondità a momenti chiave all’interno del racconto. Ultima nota di merito è da fare, tassativamente, al comparto sonoro e alla colonna sonora, firmata, quest’ultima, da Joel P. West, la quale arricchisce la pellicola con alcuni temi e tracce tipicamente jazz, dando al film tinte quasi da noir, caratteristica che potrebbe risultare, a primo acchito, contrastante con il racconto e ciò che Il diritto di opporsi vorrebbe comunicare, ma che si amalgama egregiamente con la sua riuscita finale. In fin dei conti, quindi, il film di Cretton, Just Mercy o, in maniera più didascalica, Il diritto di opporsi, è un film valido? Come intuibile dalla recensione, il thriller-drama con Jordan e Foxx è, indubbiamente, una pellicola da vedere sul grande schermo anche solo per le interpretazioni riuscite e camaleontiche dei due volti attoriali, qui in ruoli veramente ardui e carichi di emotività. Certo, il film non è una delle idee più originali ed innovative che si possono vedere al cinema, in questo periodo. Anzi, essa potrebbe risultare alquanto tradizionale e sdoganata, se paragonata ad altri prodotti del genere, ma è una visione assolutamente necessaria ed attuale perché esplora ed analizza temi che fondano e sono propri dei nostri tempi. Più o meno vicini a noi – per esempio, la tematica dell’etica riguardante la pena di morte non ci tocca particolarmente -, i temi sviscerati dal film di Cretton generano un conflitto interiore nello spettatore, ponendogli interrogativi e domande morali ed etiche persistenti. Candidato papabile ai premi Oscar 2020, per argomento ed interpretazioni, Il diritto di opporsi è stato invece inaspettatamente snobbato, di sicuro perché minore e meno eclatante di altre pellicole in gara. Nonostante questa inspiegabile scelta da parte dell’Academy, Il diritto di opporsi si presenta al pubblico come un film perfettamente coerente con sé stesso, con le proprie volontà rappresentative; un film lineare, pulito, diretto, che raggiunge obiettivi e presupposti in modo egregio e che non passa di certo inosservato. Sicuramente, non un capolavoro del cinema, ma una pellicola importante e godibile che non dovrebbe essere saltata.