TITOLO ORIGINALE: The Woman in the Window
USCITA ITALIA: 14 maggio 2021
USCITA USA: 14 maggio 2021
REGIA: Joe Wright
SCENEGGIATURA: Tracy Letts
GENERE: thriller, drammatico, giallo
PIATTAFORMA: Netflix
Anna Fox è una psicologa dell'infanzia che soffre di agorafobia e perciò vive chiusa da sola in uno spazioso appartamento di Manhattan, trascorrendo le sue giornate o spiando il vicinato dalla finestra o guardando vecchi film. La sua vita si complica (e verrà sconvolta per sempre) dall'arrivo dei Russell, una famiglia benestante ma disfunzionale a cui si interessa e che inizia ad osservare. Così facendo, una sera, la donna sarà testimone di un violento omicidio in casa loro.
Adattamento dell'omonimo romanzo di A. J. Finn, La donna alla finestra è l'ottavo addendo dell'incostante filmografia di Joe Wright (Orgoglio e pregiudizio, Espiazione, Anna Kareninia). Una Amy Adams psicologicamente fragile e nervosa guida un cast all star (Gary Oldman, Anthony Mackie e Jennifer Jason Leigh) in un thriller omaggio, rivisitazione, attualizzazione(?) dello stile, della sintassi visiva, del modo di giostrare e giocare con la suspense di uno dei maestri della Hollywood classica, nonché del cinema tutto: Alfred Hitchcock, la cui presenza costituisce una croce e delizia per il testo filmico, i suoi scopi e i suoi esiti profondi. Tuttavia, se considerato dal punto di vista della mera affabulazione, La donna alla finestra si mostra come un'opera che può sì coinvolgere, ma che non imprime nel racconto e nel suo allestimento le stesse forze che invece dimostra nella messa in scena e in quello stesso, eccessivo citazionismo di rifacimento.
La psicologa dell'infanzia Anna Fox (Amy Adams) da tempo soffre di agorafobia e pertanto trascorre le sue giornate chiusa da sola all’interno del suo spazioso appartamento di Manhattan - nel quale vive da quando si è separata dal marito, Ed (Anthony Mackie) -, limitando i propri contatti quotidiani a David (Wyatt “US Agent” Russell), il coinquilino-affittuario che abita nel seminterrato; al dottor Landy (Tracy Letts), il suo psichiatra; e al fattorino che le porta la spesa. La sua normale routine giornaliera, tra lunghe sessioni di voyeurismo e visione di grandi perle hitchcockiane (come, guarda caso, La finestra sul cortile e Io ti salverò), viene però sconvolta all’arrivo dei Russell, famiglia benestante, ma disfunzionale originaria di Boston che si trasferisce nell’appartamento dirimpetto al suo.
Anna, forse per riempire un’esistenza vacua e priva di qualsiasi stimolo, inizia infatti ad interessarsi ai nuovi vicini, a legare con loro - in particolare, con Jane (Julianne Moore), la madre, e il figlio Ethan (Fred Hechinger) - e, contestualmente, a spiarli dalla finestra. Saranno proprio questa mania voyeuristica e questo interesse a far precipitare la situazione e, con essa, la vita di Anna, che una sera sarà testimone oculare di un terribile omicidio in casa Russell.
Una Amy Adams psicologicamente fragile e nervosa sorregge e rinforza l’impalcatura filmica e l’essenza affabulatorio-tensiva su cui si incardina il racconto de La donna alla finestra, thriller dalla gestazione problematica (di casa Fox, ripudiato dalla Disney, acquisito e distribuito da Netflix) e ottavo addendo della filmografia incostante di Joe Wright: non solo il regista che, con L’ora più buia (2017), ha permesso a Gary Oldman di vincere il suo primo Oscar, ma anche l’autore di grandi adattamenti sul grande schermo come Orgoglio e pregiudizio (2005), Espiazione (2007) e Anna Karenina (2012).
Un Joe Wright che, con La donna alla finestra, sceglie - come suo solito, d’altronde - di partire da un romanzo (quello omonimo di A. J. Finn, nome d’arte di un autore, Dan Mallory, la cui biografia è forse ancor più intricata e ambigua delle storie che scrive) con protagonista una donna che combatte contro tutto e tutti per essere nuovamente e finalmente ascoltata, per poi confezionare una specie di omaggio, rivisitazione, attualizzazione(?) dello stile, della sintassi visiva, del modo di giostrare e giocare con la suspense di uno dei maestri della Hollywood classica, nonché del cinema tutto. Non è quindi un caso che Anna sia costretta a stare chiusa in casa (per colpa di un disturbo psicologico e non per un incidente sul lavoro) e che quindi passi le sue giornate a guardare (quei) film e a spiare le persone - talvolta ricorrendo anche all’uso della macchina fotografica.
E non è neppure una coincidenza che Wright, nella composizione registico-visuale dell'opera, dia particolare spazio alla dialettica soggettività-oggettività (in termini di sguardo/ripresa e di memoria/testimonianza), alla casa come palcoscenico e atmosfera, soggetto e oggetto, agente narrativo attivo e passivo, e ad un vero e proprio citazionismo fotografico - ad opera di un sodale Bruno Delbonnel sospeso tra l’iconografia newyorchese e un onirismo dai toni complementari - e di inquadrature entrate a far parte dell’immaginario collettivo. Se i rimandi e questi elementi non fossero, di per sé, significativi ed eloquenti, è d'uopo far notare ai più disattenti come Alfred Hitchcock, il suo lavoro nel campo del thrilling e della suspense e la sua maestria nel comporre un cinema che, dietro la maschera del découpage classico, parla e lavora per sottintesi e allusioni (quasi sempre sessuali e sessuate), permeino ogni singolo fotogramma de La donna al(La finestra sul cortile).
Long take magniloquenti, travelling analitici ed anatomici, sequenze quasi surreali in cui la realtà e il rapporto con essa sembrano sfaldarsi ed allentarsi sempre più (in questi casi, Wright adotta un’estetica caustica e vorticosa, simile a quella del videoclip o della pubblicità): la presenza e il testamento di Hitchcock e del suo cinema - così come di quello di tutti coloro a cui (Ti) piace Hitchcock(?), come l’Argento esistente/inesistente di Profondo rosso o il Brian De Palma cinefilo di Omicidio a luci rosse e Complesso di colpa -, che si qualificano come vera e propria matrice de La donna alla finestra, sono qui un qualcosa di invariatamente ingombrante, se non eccessivamente determinante. In poche parole, una croce e delizia per il testo filmico, i suoi scopi e i suoi esiti profondi.
Da un lato infatti, Wright spesso dà l’impressione di voler instaurare una specie di dialogo palese, esplicito, mai smentito od occultato, anche biunivoco tra il corpus di opere del maestro inglese, e dunque le suggestioni che da esso ne derivano, e l’istanza narrante e visuale della pellicola, che, in certe occasioni, arrivano quasi ad interagire, incastrandosi perfettamente e dando vita a qualcosa di nuovo e dai significati inediti.
Vedasi il tema del doppio da La donna che visse due volte, qui riarrangiato ed accorpato alla correlazione maternità biologica/acquisita. Così come il viraggio di alcune brevi inquadrature in un rosso intenso e soffocante, che, pur riprendendo Marnie nella sua accezione rappresentante il trauma inconscio e riaffiorato, in Wright rassomiglia più a quella luce rossa tipica delle camere oscure (ritorna quindi la fotografia, il fotografare/vedere e l’essere fotografati/visti). O, ancora, la sequenza del sogno (con scenografia surrealista ad opera di Salvador Dalì) del già citato Io ti salverò - il film più onirico e immaginifico del regista inglese - che, ne La donna alla finestra, viene riproposta (alla TV) non solo come sfondo cinefilo, ma anche come indice sia dell’introspezione psicologica condotta dal mezzo e dall’istanza narrante nei riguardi della protagonista sia della generale irrazionalità su cui la sceneggiatura (del già citato Tracy Letts) parrebbe costruirsi.
Dall’altro invece, il cineasta estrapola aspetti ed elementi provenienti da e propri di alcuni dei più grandi successi del maestro, per poi riversarli ed inserirli, in modo banale, sfrontato (forse troppo) e, alla lunga, pretenzioso, nel racconto e nella sintassi visiva del proprio film. Che, proprio grazie a queste continue ma futili ricontestualizzazioni, si ammanetta, si autolimita, tarpa le ali del proprio successo e di una necessaria emancipazione rispetto al passato e all’istituzione cinematografici. Il titolo: come suggerito sopra, una citazione/conversione al femminile del classico La finestra sul cortile; è quindi solo la punta dell’iceberg (a modo suo esemplificativa) di un compendio di riferimenti ed estrazioni, per non dire estorsioni - quelle già elencate in apertura -, che si annidano negli interstizi e nelle intercapedini dell’intreccio e nelle stanze ariose riprese e rappresentate dalla macchina da presa. E che, da istanze sostanziali e sostanziose, diventano qui formalismi onanistici e semanticamente vuoti.
Ciò nonostante, e al netto dell’eredità - nei confronti sia del corpus hitchcockiano sia del cinema classico hollywoodiano (il personaggio su cui verte l’intera fase di detection è l’omonima di una delle attrici simbolo di quel cinema) - a cui Wright e la sua opera devono indubbiamente pagar pegno, La donna alla finestra, se considerato dal punto di vista strettamente affabulatorio, si dà al pubblico (e a tutta quella schiera di spettatori a cui questi dibattiti e queste nostre remore non fanno né caldo né freddo) come un thriller che può sì coinvolgere, tenere in tensione e (perché no) regalare qualche colpo di scena ben congegnato, ma che non imprime nel racconto e nel suo allestimento le stesse forze che invece dimostra nella messa in scena e in quello stesso, eccessivo citazionismo di rifacimento.
Infatti, se nel blocco narrativo centrale - quello di detection appunto - si orchestrano e danno adito ad un paio di momenti effettivamente riusciti, nonché filmicamente azzeccati (integrando bene anche matrice ed influenze), la pellicola di Wright non riesce però a lavar via i peccati di un inizio caotico - in cui tutti gli agenti dell’intreccio vengono introdotti tutt’altro che sistematicamente - e di una mezz’ora conclusiva che, a differenza del racconto e della messa in scena (di nuovo) hitchcockiani, elimina ambiguità, mistero e sottinteso, esasperando tutte le diverse anime compositive. Tutto è artificiosamente spiegato in un confronto che lascia indifferenti per la sua evidente convenzionalità, mentre il tetto dell’abitazione diventa teatro di uno scontro finale da B-movie della peggior specie che cozza profondamente con le atmosfere e il tono dei settanta minuti appena trascorsi.
Un cast di grandi nomi (completato da un Gary Oldman che avrebbe potuto essere sfruttato con maggior riguardo) che attira indubbiamente, la colonna sonora di un Danny Elfman fuori fuoco e fuori luogo che, in alcuni temi - soprattutto quello iniziale -, pare non aver mai abbandonato il mondo dei supereroi DC, ed un numero circoscritto di frammenti e situazioni veramente soddisfacenti: questo (e poco altro) è tutto ciò che rimane a La donna alla finestra per darsi in maniera autarchica e farcela con le proprie forze. Troppo poco per un film che riporta sotto i riflettori uno dei leitmotiv, delle riflessioni e dei contrasti - quello tra soggettività ed oggettività dell’occhio (antropico e/come meccanico) - principali e più stimolanti del mezzo e linguaggio cinematografico - soprattutto in materia di modernità e postmodernità -, ma che purtroppo si attiene alle medesime intuizioni di 60 e più anni fa.
Ancora meno per una pellicola che presenta l’ultima discendente (femmina) di una lunga ed ideale stirpe di “osservatori” (maschi) - dal fotoreporter de La finestra sul cortile all’operatore de L’occhio che uccide, fino ad arrivare al fotografo di moda di Blow Up -, i quali necessitano di un prolungamento del proprio sguardo: la macchina fotografica (simbolo dell’oggettività scopica della registrazione meccanico-cinematografica); per penetrare, ordinare e comprendere una realtà ermetica, scompaginata e/o beffarda che quasi sempre finisce per dominarli e portarli all’oblio. Chi più chi meno. Peccato che, anche da questo punto di vista, La donna alla finestra si accontenti di un epilogo narrativamente facile, funzionalmente superfluo ed emozionalmente inespressivo.
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