TITOLO ORIGINALE: Gran Turismo
USCITA ITALIA: 20 settembre 2023
USCITA USA: 11 agosto 2023
REGIA: Neill Blomkamp
SCENEGGIATURA: Neill Blomkamp, Jason Hall, Zach Baylin
CON: Archie Madekwe, Djimon Hounsou, Orlando Bloom, David Harbour
GENERE: azione, drammatico, sportivo, avventura, biografico
DURATA: 134 min
Ultimo tassello dell'ormai inseguito brand cinema, Gran Turismo di Neill Blomkamp racconta la (vera ed incredibile) storia di un sogno impossibile, quello del gamer Jann Mardenborough che, dalla sua cameretta, è finito a guidare auto da corsa e a gareggiare professionalmente sui circuiti di tutto il globo. Pur apparendo ed essendo una goffa (più del solito) operazione di bieca autopromozione attraverso un medium "vecchio" e, soprattutto, dal pubblico eterogeneo, la pellicola è comunque in grado di offrire - ad un prezzo che qualcuno potrebbe ritenere fin troppo elevato - qualche mo(vi)mento da grande cinema spettacolare, soprattutto grazie ad un ottimo lavoro di montaggio.
Brand cinema. Sostanzialmente: gli adattamenti, le trasposizioni, le traduzioni cinematografiche prodotte dalle stesse compagnie e marchi proprietari del testo (sia esso un videogioco, un giocattolo, ecc…) originario, di partenza. Ad Hollywood, è una tendenza sempre più evidente e commercialmente remunerativa dopo l’impresa pionieristica dei Marvel Studios. Basti pensare ai più recenti successi di fenomeni pop a pieno titolo come Super Mario Bros. (co-prodotto dalla stessa Nintendo) e Barbie (co-realizzato da Mattel), o all’indubbio pregio di tentativi spuri come Air - La storia del grande salto di Ben Affleck.
Nella maggior parte dei casi, il fine primario di queste operazioni è, ça va sans dire, quello di accrescere ulteriormente la portata e la risonanza dei rispettivi brand e proporre, attraverso un bene di consumo (il film) accattivante, i propri prodotti ad una fetta di pubblico ancora più ampia. Cosa che porta a conflitti di interessi, ambiguità e contraddizioni di fondo potenzialmente irrisolvibili. Specie quando, a dirigere e scrivere questi film, sono autori affermati, con una propria cifra e poetica specifica. È ciò che affligge - secondo chi scrive - il già citato film di Greta Gerwig (scritto insieme a Noah Baumbach), che non sempre riesce a trovare un bilancio tra esigenze artistiche e concettuali e i propositi produttivo-commerciali così come intesi doll-factory.
Lo stesso problema si ripresenta puntuale anche nel caso di Gran Turismo, adattamento per il grande schermo della popolare serie di simulatori di corse made in PlayStation - vigile e presente anche in cabina di produzione -, ma anche racconto, come recita il sottotitolo dell’edizione italiana, della storia (vera) di un sogno impossibile.
Quella di Jann Mardenborough, giovane e talentuoso giocatore che, dalla sua cameretta, riesce ad arrivare su alcuni dei tracciati più celebri del globo e diventare un pilota professionista per Nissan. Gran Turismo è quindi, in sostanza, un cosiddetto pitch statement della major nipponica di videogiochi ed indirettamente della stessa Nissan. Una pubblicità da centinaia di milioni di dollari volta, in primis, a certificare, mediante il gancio e la premessa “tratto da un’incredibile storia vera”, la bontà di design e il pregio innato della serie di simulatori e del suo grado di realismo tuttora insuperato; e di conseguenza a vendere altre, nuove copie del gioco.
Ma è o, meglio, dovrebbe essere anche un’avventura accessibile, un’esperienza cinematografica soddisfacente, affidata nondimeno ad un filmmaker del calibro di Neill Blomkamp che, con pellicole quali District 9, Elysium e Humandroid, ha dimostrato di sapersi districare nei terreni del mainstream e del cinema commerciale, riuscendo tuttavia a mantenere un proprio sguardo ed una mirabile coerenza tematica.
Di Gran Turismo, oltre che della regia, è anche co-firmatario - in tandem con Jason Hall e Zach Baylin - della sceneggiatura, nella quale tornano appunto alcuni leit motiv comuni ai suoi lavori precedenti. Come, ad esempio, il rapporto e il legame che vige tra uomo e macchina, con tutto ciò che di virtuale ed extra-corporeo ne consegue. Una tematica perfettamente ritrovabile in un progetto che proviene da un soggetto videoludico, patria d’elezione e di vitalità del virtuale in tutte le sue manifestazioni e conformazioni. È inoltre chiaramente blomkampiano l’approccio al racconto della storia vera, che pare riprendere quello pseudo e finto-documentaristico che regista e produzione scelsero, in maniera quasi avveniristica, per il già citato District 9 e il suo marketing virale.
Il viaggio di Mardenborough dal gamepad al volante di un’auto da corsa passa allora attraverso un’estetica, soluzioni ed una grammatica visiva, di nuovo, da documentario, tra finte interviste e momenti plateali, didascalici e puramente espositivi. Trattandosi appunto di brand cinema, a questo si sommano poi immagini, dettagli, una fotografia (di Jacques Jouffret) ed elementi che rimandano invece ai territori della pubblicità, in tutto e per tutto.
Il risultato è quello già anticipato qualche riga sopra. Ossia una pellicola che fallisce nel trattenere e valorizzare in modo equilibrato i suoi due profili e questa sua doppia base produttiva. Una disparità, quest’ultima, che torna anche nello stesso copione di Blomkamp, il quale - al di là del mancato approfondimento del nesso agonistico ed antagonistico tra tessuti organici, telai meccanici ed incursioni virtuali - dimostra una schizofrenia di ispirazione inventiva e compositiva tra le sue due principali componenti narrative e narratologiche.
Per vedere infatti sequenze di corsa - seppur talvolta appesantite da una riverenza ed un riferimento obbligati al retroterra videoludico - davvero tese, adrenaliniche, prodigiosamente architettate, orchestrate, gestite (specie in fase di montaggio), che raccontano bene l’azione e la “passione letale” - per citare il quasi coevo Ferrari di Michael Mann - attraverso una frenetica, inarrestabile, vertiginosa decuplicazione e variegazione delle possibilità di visione, dei punti di vista, delle prospettive, degli occhi meccanici, dello sguardo; lo spettatore dovrà resistere, fare i conti e pagare alfine il pegno della quota melodrammatica, se non proprio dell’intreccio del film in sé e per sé. I quali paiono il prodotto di un lavoro indolente ed apatico di un’intelligenza artificiale, si compongono perlopiù di situazioni riciclate, situazioni tipiche e proverbiali di qualsiasi intreccio sportivo, dialoghi artificiosi (con formule retoriche come “mi sono lasciato quella cosa nello specchietto retrovisore”), e caratterizzazioni fin troppo semplici; ma soprattutto retrocedono Gran Turismo, anche se solo in parte, di venti, forse addirittura trent’anni.
In tal senso, ben poco possono compensare le interpretazioni accorate del giovane, ma promettente Archie Madekwe o di un David Harbour che porta su schermo, ancora una volta, la medesima figura paterna, apparentemente cinica e rude che, ciononostante, man mano che si avanza nel racconto, svela un cuore tenero, che egli ha fatto sua (e, a quanto sembra, mai dimenticatosi) ai tempi di Stranger Things. Non classificata invece la prova di Orlando Bloom, che, magari complice un personaggio di “colletto bianco” dalla scrittura non certo brillante, è fondamentalmente una figurina, sempre stralunata, esagitata, sbarazzina, grossolana.
Le auto non sono ormai più soltanto auto, ma devono essere un bene di lusso, un’esperienza da infiocchettare, magari con una bella favola da Hollywood, e rendere (ir)raggiungibile. Allo stesso modo, anche i videogiochi non sono più semplici passatempi, forme di svago, ma si sono convertiti da qualche decennio in ghiotte e milionarie possibilità che sono lì ad attendere coloro che hanno abbastanza talento, determinazione, ambizione e resistenza per essere colte. Gran Turismo è viceversa esattamente quel che appare: una goffa (più del solito) operazione di brand cinema, di bieca autopromozione attraverso un medium "vecchio" e, soprattutto, dal pubblico eterogeneo. Eppure è in grado di offrire, ad un prezzo che qualcuno potrebbe ritenere fin troppo elevato, qualche mo(vi)mento da grande cinema spettacolare. Quello del (sesto) senso e del dinamismo come condizione irriducibile e fondativa.
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