TITOLO ORIGINALE: AIR
USCITA ITALIA: 6 aprile 2023
USCITA USA: 5 aprile 2023
REGIA: Ben Affleck
SCENEGGIATURA: Alex Convery
GENERE: biografico, drammatico
DURATA: 112 min
Ben Affleck torna per la quinta volta dietro la macchina da presa con AIR - La storia del grande salto, il film che racconta del leggendario accordo che, nel 1984, la Nike strinse con l'allora esordiente Michael Jordan, cambiando per sempre la storia dello sport e del marketing ad esso relativo, ma anche la prima opera della nuova casa di produzione che egli ha fondato con l'amico, collega e qui co-star Matt Damon, Artists Equity, con la quale punta a dar luogo ad una vera e propria rivoluzione ad Hollywood. Come nel miglior cinema nordamericano, tutto in AIR riecheggia di un subliminale, di un controcampo visibile, presente, vivido, eppure accessibile all’intuito di pochi, di un significato più profondo del semplice biopic con annesso sfruttamento di brand e figure iconiche. Ancor prima, però, ci troviamo comunque di fronte ad un film ispirato, ritmatissimo (a volte, pure troppo) e pieno di picchi del cinema più soddisfacente.
Inizia con un greatest hits audiovisivo degli immarcescibili e tormentosi anni ‘80, AIR (- La storia del grande salto, questo il solitamente didascalico sottotitolo dell’edizione italiana), la nuova prova da regista - la quinta - del divo Ben Affleck. Una sorta di trip allucinogeno, di inebriante sinfonia visiva, di nostalgica odissea di immagini di tutto ciò che, per lo stesso Affleck e, molto probabilmente, per la maggior parte degli spettatori, è stato ed è tuttora quel decennio di eccessi e recessi, di audacia e timori, tra musica, cinema, televisione, moda, storia, politica (l’elezione di Reagan), addirittura il wrestling!
Una visione dalle spinte estetizzanti, citazioniste e sintetiche, tuttavia infusa da un calore autentico, candido, puro, quasi fanciullesco. È su questo dualismo che si informa quella breve sequenza di pochi minuti, accompagnata dall’energica chitarra di Mark Knopfler e dalla voce di Sting in Money for Nothing, la quale funge a sua volta da particella rappresentativa della cifra specifica della filmografia dell’Affleck regista, nonché, ovviamente, da apripista, da proemio eccellente per un film ed un testo che devono la loro riuscita e la loro indubbia personalità proprio alla consacrazione e al rispetto di un simile compromesso. Che è, sì, quello enucleato sopra, ma anche e soprattutto quello a cui il cinema statunitense, quello più bello, trascinante e significativo, deve i suoi migliori natali.
Allora, come viene ironicamente fatto notare, a riguardo della canzone di Bruce Springsteen “Born in the USA”, in una delle sequenze più riuscite ed emozionanti del film (la confessione del Rob Strasser di Jason Bateman al Sonny Vaccaro di Matt Damon), bisogna concentrarsi sul testo, ergo sulla concretezza, sul significato più profondo del brano, non tanto su ciò che la melodia, il titolo o le apparenze paratestuali ci suscitano e ci comunicano ad un ascolto sbadato e superficiale.
Andare in profondità, non limitarsi alla materia data: così facendo, si scopre la vera faccia di AIR, che è senz’altro, e prima di tutto, il film biografico che racconta l’accordo Nike-Michael Jordan che, nel 1984, cambiò per sempre il mondo dello sport e, in particolar modo, del marketing ad esso relativo - sfruttando ovviamente la popolarità, presso il pubblico, del brand di scarpe e l’iconografia legata forse al più grande giocatore di basket di tutti i tempi, e celebrando in un certo senso, anche se certe volte magari troppo enfaticamente e didascalicamente, sia l’uno che l’altro -, ma pure un manifesto urgente, un pamphlet ben sublimato, la miccia per una plausibile rivoluzione, un’altra, questa però all’interno della filiera hollywoodiana.
La pellicola è infatti la prima realizzata e firmata da Artists Equity, la casa di produzione che lo stesso Affleck ha fondato assieme al collega, amico di vecchia data, co-vincitore di Oscar (nel 1998, per Will Hunting - Genio ribelle), e qui co-star sullo schermo, Matt Damon, in risposta alle pessime condizioni di lavoro, alla poca libertà creativa, insomma alla filosofia produttiva precostituita e predominante, quella delle grandi major o di big player dello streaming come Netflix.
Un’iniziativa, quella di Affleck e Damon, che si fonda sul principio della compartecipazione equa e proporzionale agli incassi di una pellicola da parte di tutti, ma davvero tutti, coloro che ne hanno preso parte alla lavorazione: non solo quindi i ruoli e le figure più remunerate, come i registi o gli attori, ma anche tecnici e mestieranti; che potrebbe portare, qualora il film in questione dovesse incontrare il gradimento del pubblico, all’affermazione di una nuova via per il cinema hollywoodiano di media produzione, ovvero quel cinema sempre considerato mainstream e di ampio respiro commerciale, ma lontano dai blockbuster più spettacolari e dai grandi eventi cinematografici.
Non solo, un’altra grande parte di ciò che è e (si spera) sarà Artists Equity è data dalla royalties e dalla proprietà esclusiva ed irrevocabile dei diritti su un film, i cui proventi spettano, appunto, non solo alla casa, ma anche a chi ha preso parte all’effettiva “venuta al mondo” dello stesso, in quello che è a tutti gli effetti sia un deprezzamento tutt’altro che inedito, ma comunque d’impatto dell’imprescindibile e primaria (per Hollywood) figura del produttore, sia una valorizzazione mai vista, forse rischiosa, ma quanto mai preziosa (vista la precaria situazione dei tecnici), dell’idea di lavoro di squadra, di lavoro sinergico di più parti ed individualità (lavorative, artistiche ed economiche) alla base della creazione di un testo, estetico e commerciale.
Ciò detto, è allora più di una semplice coincidenza, quanto piuttosto una variabile, una strategia o, se volete, un canestro ben studiato, il fatto che AIR racconti proprio questo: la storia di una scommessa imprudente, di un sogno individuale che diventa collettivo, si tramuta e conforma in un magnifico lavoro armonico, in cui ognuno partecipa e gode del risultato finale.
Unitamente a questo, i segni delle volontà di Ben Affleck, Matt Damon e della loro nuova firma si rintracciano lungo tutto il corso dei 110 generosi minuti di cui si compone il film, nel quale il regista-attore affronta una delle sceneggiature, a penna di Alex Convery, incluse nella fantomatica “black list delle migliori sceneggiature non prodotte” (o, meglio, che nessuno ha il coraggio di produrre) e le calza addosso la veste di senso che più e meglio gli aggrada. Egli traduce quindi i dialoghi e la composizione, di ispirazione inguaribilmente sorkiniana, dello script di partenza e li carica di un senso diverso, personale, riproponendo così quel compromesso di cui sopra.
Come nel miglior cinema nordamericano: pensato per tutti i palati, ma composto da una dimensione sotterranea che bisogna proprio voler cercare per poterla realmente trovare, riconoscere e comprendere; tutto in AIR riecheggia di un subliminale, di un controcampo visibile, presente, vivido, eppure accessibile all’intuito e all’intuizione di pochi.
A partire dal tabellone dei principi appeso nell’ufficio del bizzarro, gigione, sentenzioso, euforico, imperscrutabile ed insieme esilarante ed amabile CEO della Nike, Phil Knight (interpretato da un Ben Affleck convincente proprio perché totalmente fuori luogo ed inappropriato per il ruolo), che è forse l’elemento più insistito e ripetuto, quasi a mò di contrappunto ed esegesi aforistica degli eventi, e che più di tutti tradisce la vera essenza programmatica dell’operazione; fino ad arrivare alla stessa figura di Michael Jordan, trattata obbligatoriamente e poi convenientemente alla stregua di un McGuffin, quale rappresentazione emblematica dell’ideale conteso, dell’epifania, della convinzione, della chimera da corteggiare e fregiare (e quindi mettere in scena), che riempie di valore ed importanza un qualcosa.
Qualcosa che, com’è “soltanto una scarpa”, è soltanto - seppur ispirato e solidissimo, con interpretazioni convincenti e coinvolgenti, una colonna sonora elegiaca e strabordante, un montaggio parimenti sregolato che racconta la storia al ritmo del videoclip, una fotografia puntuale, precisa, impreziosita da un concetto quasi tattile e sensibile di ricostruzione di un’epoca, e picchi del cinema più soddisfacente - l’ennesimo film tratto da una grande storia vera e patriotticamente americana.
Una storia di idee ed ideali al servizio del capitalismo, ma anche una che ci ricorda che si deve deviare dai percorsi di norma se si vuole cambiare radicalmente il mondo.
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