TITOLO ORIGINALE: Ferrari
USCITA ITALIA: 2023
USCITA USA: 25 dicembre 2023
REGIA: Michael Mann
SCENEGGIATURA: Troy Kennedy Martin
CON: Adam Driver, Penélope Cruz, Patrick Dempsey
GENERE: biografico, drammatico, storico
In concorso alla 80ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Adam Driver è il magnate dell'automobile italiano Enzo Ferrari nel biopic di Michael Mann, che è destinato a diventare un testo definitivo di quella “passione letale”, quella “gioia terribile” e quell’ossessione irrefutabile che, per Enzo Ferrari, sono le corse e la velocità, e che, per il regista, è il suo viaggio cinematografico. Che è “bello agli occhi perché funziona”. Perché è solidissimo, millimetrico, chirurgico. Perché semplicemente stimola i principi basilari e rudimentali del mezzo e deve molto, come avviene nell'ideazione e costruzione di un'automobile, al lavoro di squadra quanto più sinergico, compatto ed ispirato.
Lo scrivevano, elogiavano, decantavano già i futuristi nei loro componimenti e nelle loro opere, ché automobili e cinema erano (e sono, del resto) due facce della medesima rivoluzione. Entrambi sono infatti emblemi del progresso che avanza. Alfieri e cantori di un nuovo secolo: il Novecento . Invenzioni che parlano la stessa lingua: quella del dinamismo, della velocità, del nostro infinito, seppur vano, tentativo di contrastare, prenderci la nostra rivincita o quantomeno riappropriarci del tempo sfuggente, imparziale, invariabile, definitivo.
Ecco detto quindi uno dei motivi per cui, da sempre e quasi sempre, quello fra motori e cinema è un connubio che ha sempre generato e dato vita ad opere, avventure ed esperienze soddisfacenti, inebrianti, se non addirittura prodigiose e strabilianti. Giorni di tuono, Rush, Baby Driver, Ford v Ferrari, per non parlare del nostrano Veloce come il vento o (perché no) dei primissimi Fast & Furious, sono tutte pellicole che, in modo o nell'altro, chi più chi meno, riescono a portare il medium cinematografico ai cosiddetti massimi giri.
A questo elenco, da oggi, si aggiungerà Ferrari, l'ultima fatica di Michael Mann, uno dei più grandi maestri del cinema nordamericano e non solo, un mai troppo celebrato sperimentatore, nonché un esploratore innato delle pieghe e potenzialità espressive dell’audiovisivo e dell’immagine (specie di quella digitale, di cui mette a dura prova pure qui i confini finzionali). Una pellicola, questa, che arriva dopo uno iato di quasi otto anni, dovuto, tra le altre cose, al mostruoso flop commerciale del precedente Blackhat. Un’opera, Ferrari, che segue fedelmente lo stesso itinerario di personale rilettura del filone biopic già alla base di Alì e di Nemico Pubblico, sia per ciò che riguarda il modo in cui è descritto e portato in scena il ritratto complesso, stratificato, trasversale di un grande personaggio, sia per l’idea di raccontarlo, questo personaggio, isolando un momento preciso nella sua biografia e nella sua storia, un frammento (per lui) interessante nel e grazie a cui la sua essenza, la sua umanità, la sua personalità e la sua verità eterogenea e magmatica, sono fuoriusciti in maniera più vivida.
La sceneggiatura del film, scritta dal compianto Troy Kennedy Martin a partire dal libro Enzo Ferrari: The Man and the Machine di Brock Yates, si ambienta infatti nell'estate del 1957, anno di svolta per la vita dell’ex pilota modenese e magnate dell’automobile Enzo Ferrari, personalmente e professionalmente. La bancarotta ha messo in seria crisi l’azienda fondata da lui e dalla moglie Laura Dominica Garello dieci anni prima. Sul punto di rottura, è anche il matrimonio tra i due coniugi, duramente provato dal lutto e dal senso di colpa per la morte del figlio Dino (scomparso all’età di soli 24 anni a causa della cosiddetta distrofia di Duchenne) e dalla relazione extraconiugale del nostro con Laura Lardi, da cui è nato un figlio, di nome Piero. È in questo momento di massima delicatezza che Ferrari decide di puntare tutto su una delle competizioni automobilistiche più antiche, popolari, insieme idilliache e spietate del Bel Paese: la Mille Miglia.
Ciò detto, è anche attorno a e su questo mix apparentemente inconciliabile tra geniale romanticismo e rischio mortifero che si muove e fonda la saldissima miscela spettacolare ed affabulatoria forgiata da Mann, capace di rendere appieno e ricreare filologicamente, in primis, l’atmosfera e la geografia visiva ed estetica dell’Italia, dell’Emilia e della Modena degli anni ‘50 (in particolare, grazie ai preziosi costumi del nostrano Massimo Cantini Parrini e alla fotografia brumosa, padana di Erik Messerschmidt - sodale dell’ultimo Fincher, lo stesso dell’altrettanto filologico Mank). Ma anche e soprattutto la vitalità, l’energia, il fermento, la trazione e l’attrazione del contesto automobilistico di quell’epoca, che provoca negli spettatori un’euforia viscerale, inspiegabile a parole, della quale il cineasta ci fa assistere, senza filtri, in uno shock visivo di tensione e montaggio (quest'ultimo, magistrale e puntualissimo, a cura del premio Oscar Pietro Scalia), alle possibili ripercussioni, alle incognite, ai danni collaterali.
Insomma, il film di Michael Mann è destinato a diventare un testo definitivo di quella “passione letale”, quella “gioia terribile” e quell’ossessione irrefutabile che, per Enzo Ferrari, sono le corse e la velocità, e che, per Mann, è il suo viaggio cinematografico, che, sempre parafrasando le parole dell’industriale, è “bello agli occhi perché funziona”; perché è solidissimo, millimetrico, chirurgico; perché semplicemente stimola i principi basilari e rudimentali del mezzo e deve molto, come avviene, d'altronde, nell'ideazione e costruzione di un'automobile, al lavoro di squadra quanto più sinergico, compatto ed ispirato.
Di questo viaggio, tornano tutti i tratti tipici e i marchi di fabbrica. Come il prolungamento (in)naturale del primo piano - volto a scalfire, potenziato da un imponente formato Cinemascope, e rivelare sintomaticamente l’interiorità dei personaggi -, o l’uso meticoloso e preciso del dettaglio, o ancora la stessa scrittura del protagonista. Enzo Ferrari è infatti un ideale eroe manniano: solitario, individualista, arguto, scaltro, bigger-than-life (come direbbero gli angloamericani), dotato da un imprendibile senso dell’ironia, che nasconde tuttavia un lato melodrammatico, tenero, sensibile, mesto e dolente, un volto inedito, dietro un iconismo ed iconicità connaturali; dietro la maschera della propria leggenda (o futura tale).
Una caratteristica che torna puntualissima anche in questo suo ultimo lavoro: Mann capisce che il segno specifico del mito di Ferrari è la sua parvenza spigolosa, puntuta, distante e distaccata, la sua presenza statuaria ed intimidatoria, ma anche l’efficienza, la devozione, l’intuizione quasi magica e visionario con cui affronta la vita, che percorre ed affronta sempre come si trovasse a bordo pista. Un segno, che il regista sintetizza negli occhiali da sole, ché il magnate utilizza quasi come schermo protettivo che inforca o leva in base alle circostanze. Come uno strumento di alienazione, dissociazione e frammentazione del proprio io tra immagine pubblica (che deve riecheggiare i valori del proprio brand, ed apparire robusta, ferrea, al contempo incrollabile e dinamica come i suoi rossi capolavori di ferro e lamiera) ed un’intimità dominata dal senso di colpa, dal rimorso, dall’impotenza e dalla maledizione di fronte a ciò che ha fatto e al peso di quello che lascerà.
Ossia un nome ed un’eredità che Ferrari tratteggia e ricostruisce tenendosi alla giusta distanza, aiutato dalle interpretazioni di un Adam Driver - ancora una volta, dopo House of Gucci, nei panni di un grande personaggio italiano con una moglie rabbiosa - tanto sublime da riscrivere la percezione spettatoriale del personaggio e della persona che rianima in tutti i sensi; e di una Penélope Cruz spettralmente esilarante nei panni della Signora.
Ferrari è, insomma, l’ultimo, grandissimo lavoro di un ingegnere del cinema che (deve) vende(re) per correre, e non il contrario.
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